Niccolò Zancan, La Stampa 9/5/2013, 9 maggio 2013
L’ARMATORE: "SONO DISPERATO" MA ORA E’ GIALLO SULLE CAUSE
Sentite la voce del pilota sulla tolda di comando della nave cargo Jolly Nero: «Dai macchine avanti... È ora». È una voce forte e sicura, per il momento. Non ci sono stati problemi fino a qui. Notte stellata, pulita di vento. Perfetta per navigare. Le luci di Genova si specchiano nel mare fermo e scuro, davanti al molo Giano, dove tutto si incrocia: la città vecchia, la sopraelevata e il lavoro notturno dei portuali.
Otto persone in acqua e due a terra sono direttamente impegnate nella manovra difficile. Il cargo è lungo 270 metri, pesa 70 mila tonnellate. Ma è il loro lavoro, l’hanno fatto centinaia di volte. Bisogna essere lievi per muovere certi bestioni. Però adesso non più. «Dai macchine!», dice il pilota Antonio Anfossi, rivolgendosi al comandante della nave Roberto Paoloni. È salito a bordo proprio per coordinare le manovre in porto. Sono cioè, fianco a fianco, il capitano di terra e quello di mare. Al lavoro insieme.
I vecchi motori diesel della Jolly Nero, anno di fabbricazione 1976, borbottano sott’acqua. Rumore spesso, catarroso. Come in folle. Perché il cargo è stato trainato da due rimorchiatori lungo il canale del porto per trenta minuti. Da Sampierdarena all’imboccatura di ponente. A due nodi di velocità massima, secondo il regolamento. La nave rincula lenta. E quando finalmente si arriva in corrispondenza della torre di controllo, alle vetrate illuminate alte sull’orizzonte da cui arrivano le comunicazioni radio, il cargo arretra ancora in leggera curva, per mettere la prua al mare e va... Deve andare. Direzione Sud. Napoli. Poi Mar Rosso. L’ennesimo viaggio. Deve andare perché altrimenti l’inerzia la farebbe arretrare e sbattere contro la banchina. Non si è mai fermi dentro al mare, dal momento in cui il comandante pronuncia la frase alla radio: «Sganciamo».
Ma c’è qualcosa che non funziona. Il motore della Jolly Nero non ingrana. È questo che sta raccontando adesso la voce concitata del pilota: «Andiamo... Dai! Tocca a noi! Avanti tutta. A dritta». Lo dice alla radio e contemporaneamente al comandante che ha davanti agli occhi. Paoloni è al timone, esegue l’ordine più volte, pigia ancora la leva di comando, avanti, avanti e avanti, ma non succede niente. Ed è come vedere una catastrofe in anticipo, molto lentamente. Una specie di incubo sparato al rallenty. Se ne accorgono tutti.
I due equipaggi dei rimorchiatori Genua e Spagna dal basso della loro prospettiva. Vedono il cargo rosso sempre più gigantesco e alto su di loro, mentre adesso dovrebbe assolutamente prendere il largo. «Attenzione! Attenzione! Cosa sta succedendo?», urlano i capitani Ghiglino e Cesarini. Non succede nulla. Questo è il problema. Il motore del cargo sembra in avaria. Non ingrana. Arretra ancora per effetto del traino. Fino a quando si capisce bene quale sarà l’esatta fine della storia. Ora il pilota là in alto è proprio disperato. Urla con voce sempre più acuta: «Buttiamo l’ancora! Opponiamoci. Stiamo andando a sbattere...». Poi si alza una gigantesca nuvola di povere.
Se volete vederci una metafora italiana, eccola. Il motore che non parte. L’inerzia irreversibile fino allo schianto. Questo è successo lunedì notte. Alle 23,10 la Jolly Nero ha investito con la sua mole - con la pesantissima e squadrata zona garage - la torre dove 13 portuali erano di turno. Sette sono morti, quattro feriti, due dispersi. Una tragedia del mare. O forse, soprattutto, l’ennesimo terribile incidente sul lavoro. Questo è stato.
All’ora dello schianto il signor Bruno Prinz, 75 anni, stava guardando la televisione nel suo alloggio sulle alture di via Dezza. E adesso, che il sole fa scintillare le macerie, si aggira per le calate del porto con quella strana febbre dei sopravvissuti. «Ho sentito il boato fino in collina - racconta - mia moglie era convinta fosse il terremoto». Era la Jolly Nero. Era la morte che sarebbe toccata a lui:«Mi fa impazzire pensarci. Alle 13,15 di martedì mi ha chiamato Maurizio Potenza, che noi chiamiamo Power, il mio collega alla radio sulla torre. Mi dice: “Ti dispiace se faccio il tuo turno questa notte, che devo parlare con un pilota?”. Ho detto sì, perché Power è sempre stato gentile con me, un amico. Anche se a me piace lavorare. Ci sarei andato volentieri...». E mentre lo dice, tira fuori dalla tasche le chiavi di un posto che non esiste più.
La procura di Genova ha iscritto nel registro degli indagati il pilota del porto e il comandante del cargo, proprio Anfossi e Paoloni. L’ipotesi di reato è omicidio colposo plurimo. Ma è evidente già adesso che la storia è più complicata di così. I rimorchiatori andavano effettivamente a 2 nodi? Le cime di traino hanno tenuto? Una era spezzata ed è stata sequestrata. E come mai, soprattutto, il cargo non ha eseguito la manovra correttamente? Cosa è successo al motore?
Il Jolly Nero era a Genova da tre giorni, dove ha caricato materiale rotabile, ricambi e pezzi di ferrovia. Quattro giorni fa però era in Spagna, dove ha ricevuto l’attestato di «Port Safety Controll». Il frutto di una rapida ispezione. Ora bisognerà capire meglio. In maniera più approfondita. L’armatore Ignazio Messina ha detto soltanto questo: «Sono disperato». Anfossi si è fatto interrogare, e ha ripetuto nel dettaglio la scena: «Il motore era bloccato, non rispondeva ai comandi, era in avaria». Paoloni si è avvalso della facoltà di non rispondere. Della torre è rimasta in piedi solo la scala di emergenza.
Stare qui davanti fa malissimo perché è un’impietosa dimostrazione degli sforzi e degli insuccessi umani. Come quando è scoppiato un tubo del gas e si è capito che poteva finire persino peggio di così. Come quando hanno detto nella concitazione che «Power» era ferito ma vivo. E suo figlio Federico, un ragazzo con i capelli ricci, è scoppiato a piangere di gioia e abbracciava la sua fidanzata. Ma era un’informazione non verificata, falsa purtroppo. Come quando un cellulare si è messo a squillare fra le macerie, e tutti si sono precipitati a cercarlo scavando a mani nude. Ma era quello di Michele Robazza, 47 anni, sposato e padre di due figli. Un pilota anche lui. Alle 4,30 avrebbe dato il cambio ad Anfossi. Ma era già lì alla torre perché abita a Livorno e voleva essere puntuale. Così è arrivato alle dieci di martedì sera con la sua Ford famigliare con dietro l’adesivo «bambini a bordo». E con una piccola borsa per la notte. Prima, però, è andato al quarto piano a salutare i colleghi. Due battute. Un caffè alla macchinetta. Occhio ai programmi della giornata. Per poi scendere in camera a trovare la morte sotto il crollo dell’intera struttura.
Ancora cercano i dispersi nel mare qui davanti, in quello che resta del vano ascensore, fra gli scogli e nell’acqua torbida, nel mare che adesso fa solo paura. E Prinz si commuove pensando ai limoni che Robazza voleva portagli da Livorno: «Gli ho detto di lasciar perdere, perché tanto non ero più di turno...». Pensavano tutti di avere un lavoro magnifico e speciale qui: «Anche se lo stipendio era appena sufficiente per vivere...». Alla radio. Sulle pilotine. Sulla tolda di comando. Stavano proprio fra la terra e il mare, sull’ultimo lembo prima dell’orizzonte. Un po’ guardiani e un po’ capitani, dove tutte i viaggi possono essere sognati.