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 2013  maggio 09 Giovedì calendario

ORLANDI MISTERO VATICANO


Poco dentro le mura leonine la piccola chiesa di Sant’Anna custodisce un segno che equivale a un estremo riconoscimento. Oltre una tenda rossa a pochi passi dall’altare, una porta e delle scale scendono in una cripta. Qui, fra cinquanta sepolcri nei quali dormono il sonno eterno preti, monsignori e personale laico un tempo in forza al Vaticano, riposa per volere del Papa anche Ercole Orlandi, commesso della Casa pontificia, trapassato aspettando un miracolo che non è mai avvenuto: la verità sulla scomparsa di sua figlia Emanuela. Il Vaticano non glie l’ha mai concessa questa verità, ma gli ha offerto la nobile sepoltura.
Fuori dal territorio vaticano, a Roma, in pieno centro. Un’altra chiesa, un’altra tomba.

Oltre il grande portone della basilica di Sant’Apollinare dove ogni giorno si può lucrare l’indulgenza plenaria perpetua “pro vivis et defunctis” c’è il loculo dove riposava fino a un anno fa (il suo corpo è stato riesumato) Renatino De Pedis, boss dei Testaccini, e cioè la frangia più pericolosa e potente della Banda della Magliana. Con lui, sepolti, erano tanti segreti. Fra questi, si dice, la verità sulla Orlandi.
Monsignor Piero Vergari non vuole parlare con nessuno: «Solo silenzio, preghiera e studio; non altro». Anche perché lui, spiega, con Emanuela non ha mai avuto nulla di che spartire: «Mai vista, mai incontrata, mai conosciuta; dei seicento alunni della scuola di musica mai conosciuto nessuno neanche di nome! ». Quinto indagato — gli altri sono Angelo Cassani, Gianfranco Cerboni, Sergio Virtù e Sabrina Minardi — nel sequestro avvenuto il 22 giugno di trent’anni fa di Emanuela, Vergari comunica oggi col mondo soltanto via mail. Fino al 1991 rettore della basilica di Sant’Apollinare situata a pochi metri dalla scuola di musica frequentata da Emanuela, e a pochi passi da dove la ragazza è stata vista per l’ultima volta, don Vergari concede solo risposte brevi, poche parole per dirsi estraneo a ogni addebito, e la comunicazione che si interrompe bruscamente quando gli viene posta la domanda più importante: la sepoltura di De Pedis avvenuta nel 1990, due mesi dopo la morte, a Sant’Apollinare, l’ha perorata lei come in molti sostengono oppure le è stata imposta o suggerita dal cardinale Ugo Poletti, allora vescovo vicario del Papa nella diocesi di Roma e capo dei vescovi italiani? Silenzio. Nessuna risposta. Appena sente il nome del boss sepolto in Sant’Apollinare come fosse stato un santo, don Vergari si chiude a riccio. Eppure il sacerdote, che conobbe De Pedis quando era ancora cappellano al Regina Coeli, avrebbe le carte in regola per chiarire molte cose. Anche in Vaticano, infatti, non in pochi sono convinti che è soltanto rispondendo alla domanda su chi abbia spinto davvero per questa sepoltura, e soprattutto perché, che si potrà venire a capo di uno dei sequestri di persona più misteriosi della storia italiana.
Tutte le notizie partono dal Vaticano e portano a Sant’Apollinare. Un semplice coincidenza o qualcosa di più? A sorpresa è proprio un monsignore del Vaticano che intende restare anonimo a entrare con lucidità entro il mistero. Lo fa trent’anni dopo. Lo fa senza avere scoop da rivelare. Ma mostrando semplicemente una capacità unica di tirare le fila. Dice: «Giovanni Paolo II qualche mese dopo la scomparsa di Emanuela disse agli Orlandi che si trattava di “un caso di terrorismo internazionale”. Che sia così, ne siamo tutti convinti, ma la domanda resta una: cosa intendeva il Papa per “terrorismo internazionale”? Sono molti oltre il Tevere a ritenere che la scomparsa sia legata alla Banda della Magliana e insieme ad ambienti malavitosi italiani». Una tesi che significativamente unisce il magistrato Rosario Priore e l’ex fondatore dell’organizzazione criminale Antonio Mancini. La Banda aveva fatto pervenire fondi importanti allo Ior usati poi dal Vaticano per finanziare il sindacato polacco di Solidarnosc (appunto una vicenda dai contorni extra nazionali) e permettere così la caduta del comunismo. Qualcuno in Vaticano (don Vergari? o chi?) aveva contatti con la Banda e suggerì ai suoi membri di investire nello Ior (che fino al crack ambrosiano garantiva interessi a due cifre). «Quando la Banda volle riavere quei soldi indietro, Paul Marcinkus, allora presidente della banca vaticana, obiettò che non era possibile a causa del dissesto finanziario. Fu così che, dopo ulteriori richieste andate a vuoto, i clan malavitosi pianificarono il rapimento di un cittadino vaticano come, sono parole dei magistrati, “istanza di restituzione delle ingentissime somme”. I malviventi, insomma, decisero di rapire una ragazza vicina al Vaticano per fare pressione dentro le mura e riavere indietro i propri soldi». E cosa c’entra la sepoltura di De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare? «Come detto il Vaticano aveva un debito con De Pedis il quale, probabilmente, si era consultato prima di fare l’“investimento” nello Ior proprio con don Vergari, quando questi era cappellano del Regina Coeli. Così la sepoltura nella basilica nella quale don Vergari era rettore si spiegherebbe come una sorta di espiazione da parte del Vaticano, o comunque di qualche personalità del Vaticano, di un debito regresso. Come a dire: non ci avete ridato i soldi, pagate il conto così. Insieme, c’è anche la volontà di chi ebbe rapito Emanuela di indicare un luogo significativo per risolvere l’intero mistero».
La pista internazionale e quella interna. Per trent’anni le molteplici ipotesi sul sequestro hanno seguito due strade ritenute troppo superficialmente divergenti perché inconciliabili. Eppure, dentro i sacri palazzi, in molti sono oggi coscienti che pista interna e pista internazionale in realtà sono due facce della medesima medaglia. Dice ancora la fonte anonima: «Wojtyla, quando parlava di “caso internazionale”, si riferiva ai soldi sporchi (ovviamente lui ha scoperto dopo che fossero tali) finiti oltre Cortina, tardivamente consapevole che la provenienza di questi soldi era italiana. La Banda della Magliana, certo, ma anche Cosa Nostra: è agli atti il coinvolgimento del cassiere della mafia Pippo Calò».
Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ne ha sentite tante in questi anni. Senz’altro troppe. Per lui una nuova speranza è rappresentata da Papa Francesco. Dice: «L’ho salutato insieme a mia madre pochi giorni dopo l’elezione al soglio di Pietro fuori dalla parrocchia di Sant’Anna dov’era venuto a celebrare messa. Domenico Giani, capo delle gendarmeria, gli ha detto: “C’è la mamma di Emanuela Orlandi”. Si è avvicinato e ci ha detto: “Coraggio!”. Gli abbiamo chiesto di fare emergere una volta per tutte la verità e da come ci ha stretto la mano abbiamo capito che qualcosa farà. Tempo fa Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, mi ha ricevuto in un ufficetto sopra l’appartamento papale. Gli ho chiesto di aprire i fascicoli esistenti in segreteria di Stato su mia sorella. Ho avuto sincere promesse ma ancora nessun fatto».
Un giallo infinito, insomma, che probabilmente soltanto l’autorità papale potrà risolvere. Nell’attesa vi sono ulteriori fatti ad alimentare gli auspici degli Orlandi. Fra questi, l’ultimo ritrovamento, avvenuto qualche settimana fa, di un flauto traverso: è lo stesso strumento che Emanuela infilò nello zainetto prima di uscire il 22 giugno 1983 per andare a lezione di musica nel complesso di Sant’Apollinare. La custodia era nera e consumata agli angoli, la fodera interna rossa. La segnalazione del ritrovamento è arrivata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”. Il flauto è stato fornito dal supertestimone Marco Fassoni Accetti che, in un’intercettazione ambientale, si vede minacciato dalla moglie che gli dice di stare attento altrimenti «racconto la storia di Emanuela». Chi è Fassoni Accetti? Che legami ha con i presunti giri attorno a Sant’Apollinare? Di certo si sa che è un autore cinematografico indipendente che recentemente si è autoaccusato di essere stato uno dei telefonisti del caso Orlandi. La Procura sta indagando. Intanto ha acquisito il “reperto” e ha disposto una consulenza tecnica. Ma ciò che molto fa pensare è una traccia in più, un dettaglio che prospetta scenari inediti. Il flauto, infatti, si trovava sotto una formella raffigurante una stazione della Via Crucis. Un richiamo, quello alla Via Crucis, notevole. Il 4 settembre 1983, infatti, il cosiddetto “Amerikano”, l’uomo che chiamava a casa Orlandi fornendo prova di essere almeno in contatto con Emanuela (fece ritrovare la tessera della scuola di musica e uno spartito), chiamò e disse testualmente: «Nelle vicinanze della basilica di Santa Francesca Romana il pontefice celebra la Via Crucis». Una sorta di messaggio in codice diretto a personalità interne al Vaticano, ma che si riferiva a un fatto vero: in quegli anni il rito pasquale celebrato dal Papa si concludeva proprio nella chiesa ai Fori, di fronte al Colosseo. Non solo, l’ultimatum posto dai sequestratori con cui l’“Amerikano” chiedeva la scarcerazione di Ali Agca in cambio di Emanuela, faceva riferimento di nuovo a Santa Francesca Romana. Gli investigatori nei giorni seguenti perlustrarono l’area ma non trovarono nulla. Dell’“Amerikano” di sa solo che il Sisde lo descrisse come «persona colta, raffinata, probabilmente legata ad ambienti ecclesiastici». Ambienti come possono essere quelli che ruotarono in quei mesi terribili attorno alla basilica di Sant’Apollinare. Ambienti che oggi, a trent’anni dalla scomparsa di Emanuela, potrebbero aprirsi una volta per tutte e consegnare quella verità che nessuno ha mai potuto conoscere, neppure Ercole Orlandi, padre di Emanuela, sepolto entro il recinto delle mura leonine senza aver avuto, dal Vaticano, alcuna giustizia.