Massimo Vincenzi, la Repubblica 9/5/2013, 9 maggio 2013
CATENE, LUCCHETTI E FERITOIE PER IL CIBO I GIOCHI SADICI DELL’ORCO DI CLEVELAND
Lui è un predatore feroce: qualche volta lascia aperti i lucchetti che sigillano le porte della tana. Fa finta di distrarsi. Lui si diverte così: vuole vedere se le ragazze provano a scappare. E se capita, sono botte, pugni e calci. Michelle Knight, una delle tre giovani liberate nella notte di lunedì dopo dieci anni di prigionia, ha i timpani spaccati e ematomi sul volto: è l’unica ancora in ospedale. Amanda Berry e Gina DeJesus sono tornate a casa, per loro un altro passo verso una vita senza incubi.
Lui è Ariel Castro, è l’unico incriminato ufficialmente: per rapimento e stupro. Il suo è un gioco sadico e solitario, «tiene tutti alla larga », come dice nella conferenza stampa il vicecapo della polizia Ed Tomba. Onil e Pedro, i fratelli che erano stati arrestati con lui, non c’entrano, «non ci sono prove di un loro coinvolgimento».
Quella dell’ex autista di scuolabus è una storia subito cattiva. Nel 1993 la prima grana, l’ex moglie Grimilda Figueroa (morta qualche anno fa) lo accusa di percosse. Ma la denuncia viene ritirata. Poi nel 2005 per la donna arriva il peggio: le spacca due volte il naso, le lussa una spalla, costole rotte e denti che cadono. Le sbatte la testa così forte contro un tavolo da provocarle un coagulo di sangue. E poi ancora minaccia di ucciderla, la tiene segregata per giorni, cerca di rapire i bambini. Ishmael, il padre di Grimilda, ricorda le parole della figlia: «Quando siamo fuori è un marito dolcissimo, poi quando la porta si chiude diventa un animale. È un uomo dalle due facce: contro me e i bambini ha fatto cose orribili». Woio, la tv di Cleveland, racconta di una lettera in cui Ariel scrive: «Sono un sesso-dipendente e le ragazze si approfittano di me. Voglio farla finita ». Ma invece che uccidersi passa all’attacco. In tre diverse occasioni offre passaggi in auto alle sue vittime, le attira sul proprio pick up rosso e quando le portiere si chiudono per loro è la fine della libertà.
La famiglia Castro osserva tutto questo sbigottita. La cugina Maria arriva di mattina a Seymour Avenue. Mossa dalla voglia di spiegare ciò che non si può spiegare: «Siamo distrutti. Non potevamo immaginarlo. Sembrava una brava persona, magari un po’ chiuso. In lui forse convivono due personalità opposte, è riuscito a ingannarci. Noi sentiamo il dolore di quelle giovani ». Uno dei figli, Anthony, parla con distacco: «Non ho più molti rapporti con lui. Raramente sono andato in quella casa, ma mi ricordo che mi pareva strano ci fossero sempre porte chiuse a chiave. La cantina e il sottotetto erano sempre sbarrati e nessuno ci poteva andare».
Gli agenti continuano a perlustrarla, quella casa. Vengono trovate catene e corde. Le ragazze erano sempre legate, in dieci anni sono uscite solo due volte e si sono fermate al garage. Le porte delle tre celle, dove loro stavano isolate, hanno feritoie per lasciar passare il cibo, ci sono rinforzi di metallo ai cardini. Lunedì, quando Amanda inizia la sua avventura, è la prima volta che le prigioniere hanno una concreta possibilità di scappare. E la sfruttano.
Adesso i cani setacciano il terreno attorno all’abitazione, sino ad ora non hanno trovato resti umani. Per la Cbs e alcune tv locali cercano i feti di bimbi mai nati. Altre fonti ribadiscono che le ragazze, durante il loro primo colloquio con il team di specialisti dell’Fbi, avrebbero confermato gli aborti (cinque, tutti di Michelle), oltre alle ripetute violenze sessuali. E avrebbero anche ripetuto che con loro c’era una quarta giovane, probabilmente Ashley Summers, anche lei scomparsa nello stesso periodo, nella stessa zona. Ma la versione ufficiale recita che «Castro non è indagato per altri sequestri». L’unica a salvarsi, dei neonati, è la figlia di Amanda, nata il giorno di Natale dentro una piccola piscina gonfiabile e poi miracolosamente sopravvissuta. È lei che i vicini vedono a spasso nel parco con Ariel: «È la piccola della mia nuova fidanzata», si giustifica lui. E nessuno fa domande. Anche se adesso, camminando per West Side, si moltiplicano quelli che avevano visto tutto. Nina giura di aver chiamato la polizia dopo aver notato «una donna nuda con un collare, ma loro non ci hanno creduto, pensavano ad uno scherzo». Israel ripete che lui aveva avvisato il 911 dopo «aver sentito delle urla» e dopo aver visto «una donna chiedere aiuto dietro i vetri». Ma la polizia smentisce: «Mai ricevuto nessun allarme specifico da quella zona. Sappiamo che non sono mai andate fuori».
È il tempo delle polemiche, ma anche della gioia. Amanda e Gina tornano a casa in una giornata inondata di sole. Ad accoglierle palloni colorati, orsi di peluche, cartelloni con scritto “welcome”. Bentornate nel mondo dei vivi. Sembrano feste di bambini, come lo erano loro quando sono scomparse. Gina scende dall’auto tra gli applausi e le urla dei vicini. Sono centinaia, piangono e ritmano il suo nome. Nasconde la testa dentro un cappuccio di una felpa gialla, alza il pollice in segno di vittoria. La sorella Mayra la avvolge come a proteggerla: «È forte. Mi è sembrata persino di buon umore. Non troviamo le parole per dirvi quanto siamo felici». E la mamma Nancy ringrazia tutti mille volte, il padre Felix non smette di abbracciare gente.
Amanda arriva su un Suv nero dai vetri oscurati. In braccio tiene sua figlia, che ora ha un nome: Joyclen, scivola veloce dentro la porta sul retro. La sorella Beth scende nel prato dove la aspettano le telecamere: «Lei ora è qui con noi, siamo molto eccitati e felici. Voglio dire grazie a tutti per non aver mai dimenticato il nostro caso, ma ora abbiamo bisogno di essere lasciati in pace per avere il tempo di riprenderci». Amanda, poco prima, aveva telefonato alla nonna. Sussurra: «Sto meglio. Mi sento bene». Le tende della villetta si abbassano. Il vento muove il manifesto con la scritta “missing”, che nessuno ha ancora tolto. Intorno gli hanno messo un fiocco giallo per farlo più bello. In auto, da qui alla tana ci vogliono meno di dieci minuti.