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 2013  maggio 09 Giovedì calendario

DE MAGISTRIS SI STA INABISSANDO


Luigi De Magistris non rispetterà neanche l’ultima delle sue promesse, quella di una nuova giunta comunale da varare entro il 10 maggio.
A quanto pare, il sindaco di Napoli ha bisogno di più tempo per verificare alcune disponibilità politiche: probabilmente quella dei vendoliani o anche quella di una parte dei democratici. Si vedrà se gli uni o gli altri indicheranno loro assessori. Di sicuro, queste disponibilità, non si sono concretizzate nei tempi previsti e dunque, se il rinvio verrà confermato, sarà molto difficile presentarlo come un fatto positivo.
Del resto, non molto tempo fa, il sindaco fece sapere di avere la fila davanti al suo studio: tutta gente pronta a entrare in giunta. Ora, però, de Magistris non cerca volontari dalle buone intenzioni o tecnici rappresentanti solo di se stessi o di impalpabili movimenti civici, ma esponenti di realtà forti, di aree politiche, meglio ancora: di partiti. E già questo la dice lunga sullo stato delle cose: quando il sindaco era autosufficiente, i partiti li teneva a distanza. Ora li cerca, li blandisce, addirittura ne invita a cena gli europarlamentari pontieri. Come si spiega?
Due anni fa, la distanza dai partiti, e in modo particolare da Pd e Pdl, era la conseguenza del grande progetto di de Magistris che consisteva, per dirla in breve, nel porsi come alternativa al riformismo neoliberale sia di sinistra che di destra. E intorno a questo progetto, infatti, aveva cominciato a mobilitare le ormai note risorse disponibili: da Raphael Rossi per l’ambiente, a Roberto Vecchioni per la cultura, da Riccardo Realfonzo per l’economia a Giuseppe Narducci e Alberto Lucarelli per il diritto. I quali, distribuiti nei vari uffici e sotto una incalzante regia sindacale, avrebbero dovuto contribuire a definire, non solo un’idea alternativa di governo, ma addirittura un nuovo paradigma democratico basato su inedite strutture di sovranità popolare, su un vero diritto uguale e su più avanzate compatibilità economiche e ambientali. Grillo e Casaleggio erano ancora sullo sfondo della vicenda italiana.
Insomma, governare Napoli era l’occasione che la storia gli offriva, ma il progetto di de Magistris, confessato urlando alla folla plaudente la sua voglia di «scassare» tutto, era molto, ma molto più ambizioso. Il suo sarebbe stato un progetto rivoluzionario, e come tale fu presentato. Una rivoluzione creativa e solidale, con dentro pezzi di sudismo terzomondista, di rifondazione anticapitalista dell’economia, di utopia della decrescita e anche di liberazione dei costumi, perché Napoli sarebbe diventata, tra l’altro, la città delle «acchiappanze» in bicicletta e sul lungomare liberato dalle auto, la città dei quartieri a luci rosse e degli amori casuali, quella in cui il mito elitario della «bella giornata» più volte evocato da Raffaele La Capria, il mito borghese dei circoli nautici e delle terrazze al mare, sarebbe finalmente diventato popolare: di Gennarino Esposito come del Cavaliere di Posillipo.
Non è una esagerazione supporre che, ad un certo punto, forse proprio mentre con la bandana in testa festeggiava la sua elezione in piazza, il sindaco della terza città d’Italia deve essersi immaginato come la possibile incarnazione di una profezia, come il leader che avrebbe portato la città prima, e il paese dopo, in un nuovo mondo-comunità, un mondo senza più né Stato né privato. Il mondo dei beni comuni, tanto vasto e indefinito da contenere sia la visione «compatibile» di Stefano Rodotà, per intenderci, sia quella «utopica» di de Magistris, appunto. La teoria benecomunista, che il sindaco ha subito abbracciato con incontenibile entusiasmo, avrebbe dovuto quindi costituire la piattaforma tecnico-programmatica con cui bilanciare l’immaterialità emotiva della rivoluzione. Tuttavia, è proprio qui che il fallimento è stato più evidente, se è vero che come Buffalo Bill, il sindaco è passato di colpo dalle praterie sconfinate dei grandi progetti alle limitate arene dei grandi eventi.
Il riformismo, sembrava dire il de Magistris degli esordi, non ha più nulla da offrire e sfidarlo non implica il consegnarsi nelle mani del velleitarismo estremista. Al contrario, la nuova frontiera sarebbe diventata quella concretissima del radicalismo. Un radicalismo postriformista o, se non suonasse male, addirittura controriformista. Dunque, niente più mezze misure o compromessi con la borghesia «idiota» o con l’imprenditoria assistita: l’altra faccia delle assemblee di popolo sarebbero state le intese programmatiche con il capitalismo illuminato della città.
Di tutto questo progetto, passato anche per un clamoroso insuccesso elettorale dovuto, a detta dello stesso sindaco, all’idea «perdente» della rivoluzione civile di Ingroia, oggi resta solo un nome: Ugo Mattei, il prof torinese autore di un manifesto per i beni comuni e di un saggio recente non a caso intitolato «Contro riforme». Mattei sostiene che «garantire istituzionalmente il buon governo dei beni e dei servizi comuni costituisce una delle più importanti trasformazioni strutturali necessarie per bloccare il riformismo neoliberale». Giusto. Ma se è questo quello che è successo a Napoli, allora non si spiega perché questa è la città delle inchieste giudiziarie sulle buche stradali e degli accertamenti contabili su centinaia di assunzioni «assistenziali»; la città senza autobus ma con le regate milionarie nel golfo; la città con la cassa vuota che permette però la «privatizzazione» capitalistica gratuita di via Caracciolo e piazza Plebiscito. La città in cui il sindaco aspetta, rinvia, sonda, consulta, forse contratta.

di Marco Demarco* *Corriere del Mezzogiorno