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 2013  maggio 09 Giovedì calendario

MAMME (E 60 FIGLI) DIETRO LE SBARRE

Dietro le sbarre, l’inferno. La si­tuazione penitenziaria in Ita­lia è da sempre estremamen­te pesante: livelli di sovraffollamento record delle carceri e condizioni di vi­vibilità al loro interno al limite della sopportazione fisica e della violazio­ne dei diritti umani. Una realtà, quel­la delle patrie galere che stando ai nu­meri è assolutamente “maschiocen­­trica”: il 95% della popolazione è com­posta da circa 67mila detenuti. E co­sì spesso ci si dimentica della presen­za minoritaria, e per questo ancora più marginale, delle donne, le quali delinquono di meno e finiscono in manette per reati meno gravi, ma il 90% delle detenute sono “mamme in prigione”, di uno o più figli. E Mam­ma è in prigione è anche il titolo del documentatissimo libro-inchiesta (e­dito da Jaca Book) della giornalista Rai Cristina Scanu.
Come scrive in prefazione il presi­dente dell’associazione Antigone, Pa­trizio Gonnella: «Un libro che apre u­no squarcio di verità sulla detenzio­ne femminile». Un viaggio al termine della notte più buia, quello compiu­to dall’autrice, per andare ad incon­trare alcune delle oltre 2.847 detenu­te, «le donne più disgraziate del Pae­se ». Da allora la situazione peraltro non è affatto migliorata.
Anime in pena, ammassate e inerti nelle cinque carceri femminili ( Trani, Pozzuoli, Rebibbia a Roma, Empoli e la Giudecca a Venezia) e nelle 62 se­zioni ricavate negli istituti peniten­ziari che sono stati progettati e co­struiti per gli uomini e in cui vige un codice assolutamente maschile che rende ancora più duro il percorso di detenzione e di presunta riabilitazio­ne delle donne. «Il carcere è parte del­la nostra società: se ne facciamo una fabbrica di dannati – diceva don Lui­gi Melesi, ex cappellano di San Vitto­re – saremo noi un giorno a pagarne il prezzo». Il termine pena deriva dal greco poinè che appunto vuol dire prezzo. E il conto più alto pare spetti alle mamme in prigione che pagano doppio: per gli errori commessi e poi per i loro figli, specie quando decido­no di tenerli con sé. «Sono 60 i bambini in cella, nell’Italia che detiene il record assoluto di pro­nunciamenti della Corte Europea per condizioni di detenzione disumane – denuncia la Scanu –. Ma di questo il governo non si occupa. Meglio volta­re la faccia e non sapere che in galera vive anche chi non ha alcuna colpa: decine di bimbi che crescono circon­dati da quelle mura di cemento». Re­clusi appena nati, di madri che per te­nerli con loro devono superare pro­blemi e disagi ulteriori alla detenzio­ne: dall’allattamento agli squilibri psi­cologici, all’educazione del piccolo.
Non tutte le strutture penitenziarie dispongono di asili per i pochi bam­bini dietro le sbarre. L’asilo nido più “affollato” è quello di Rebibbia con 13 bimbi, ma ci sono poi casi al limite, come Sassari e Bologna che ospitano un solo bambino. All’isolamento, al dolore e all’emarginazione della don­na si aggiunge così anche quella del figlio che, per legge, al compimento del terzo anno di età viene strappato dalle braccia materne. L’ordinamen­to penitenziario del 1975 è stato mo­dificato nel 2011 (legge 62) ed esten­de fino a sei anni l’età dei “piccoli in­carcerati” con le madri, a patto però che stiano in istituti a custodia atte­nuata. Ma di queste strutture al mo­mento ne esiste solo una, a Milano. È’ l’Icam (Istituto a custodia attenuata per madri), il primo aperto in Europa, in cui dal 2007 al 2011 sono state o­spitate 167 mamme detenute – pro­venienti dal carcere di San Vittore – e i rispettivi 176 figli. «Un’oasi: 420 me­tri quadrati di giardino, camere dop­pie e singole, bagni, ludoteca, infer­meria, spazi comuni, sala colloqui, cucina, dispensa e lavanderia – spie­ga la Scanu –. Giova elencare tutti que­sti servizi che di norma dovrebbero essere garantiti ovunque, ma che in­vece nella maggior parte degli istitu­ti rappresentano l’eccezione, se non un miraggio». Nel carcere di Torino, specchio del sistema, mancano addi­rittura la carta igienica, gli assorben­ti per le donne e le docce in cella (pre­viste dal regolamento del 2000). «Nel carcere di Borgo San Nicola di Lecce, le celle di 12 metri quadrati destinate a una sola detenuta ne ospitano tre. Tolto lo spazio occupato da servizi i­gienici, letti e suppellettili, ogni dete­nuta dispone di circa 1,75 metri qua­drati calpestabili», annota allarmata la Scanu. Viste da fuori, queste donne e madri sembrano tante mosche im­prigionate in un bicchieri­no rovesciato, come quello da cui danno da bere ai lo­ro cuccioli. «Dai dati di “Ri­stretti Orizzonti” sarebbero 40mila i figli che hanno un genitore dietro le sbarre e le detenute, sostengono gli psicologi, soffrono più de­gli uomini per la lontanan­za. Specie le straniere che sono la maggioranza in carcere, perché han­no meno possibilità di vederli». So­vraffollamento e sofferenza oltre il li­vello di guardia, «anche per la man­canza di forme di detenzione alter­native », unite a condizioni igieniche disperate, fanno del carcere un luogo in cui ci si ammala. Il 20% delle dete­nute sono tossicodipendenti e il virus dell’Hiv è portatore di altre malattie (Epatite C, in primis). E poi c’è il “ma­le oscuro”, la depressione che sfocia in autolesionismo e anche questo col­pisce più le donne degli uomini. Dal 2000 al 2012 sono stati 726 i detenuti morti suicidi e dentro al carcere i ten­tativi di farla finita (compresi quelli degli agenti penitenziari) sono 19 vol­te superiori rispetto a fuori.
Urla nel silenzio perché, come scar­seggiano le risorse, sono altrettanto rari per le detenute gli incontri con e­ducatori, psicologi, medici, assisten­ti sociali, e a volte anche con i preti. Il recupero e la reintegrazione diventa­no così bei propositi per ripulire boc­che e coscienze istituzionali, ma in carcere solo il 20% delle detenute vie­ne avviato al lavoro e una volta scon­tata la pena, fuori troppo spesso le at­tende un mondo ostile e un futuro da disoccupate.
«Ha detto il direttore della Caritas dio­cesana di Vicenza, don Giovanni San­donà: “Se quando una persona entra in carcere gli si chiudono le porte al­le spalle, quando esce gli si chiudono le porte in faccia“. Tante mamme in prigione, senza una casa né un lavo­ro e con figli persi in chissà quale af­fido o istituto, mi hanno raccontato che per loro era inevitabile la recidi­vità. Così, tornare in carcere per mol­te è stato l’unico modo per non mo­rire... Questa è la realtà e per sensibi­lizzare le nostre donne parlamentari donerò a ciascuna una copia del libro alla sua uscita (il 16 maggio). Un pas­so avanti sarebbe realizzare lo slogan lanciato dall’Icam di Milano il giorno dell’inaugurazione: “Lo abbiamo a­perto, ma lo chiuderemo, perché di bambini in carcere non ce ne siano più”».