Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 08 Mercoledì calendario

Notizie tratte da: Mimmo Franzinelli, Il Giro d’Italia, Feltrinelli 2013, 20 euro. (vedi anche biblioteca in scheda e libro in gocce in scheda 2238652)Il prototipo di bicicletta, disegnato da Leonardo da Vinci e presente nel Codice Atlantico, assemblato da Pompeo Leoni alla fine del XVI secolo

Notizie tratte da: Mimmo Franzinelli, Il Giro d’Italia, Feltrinelli 2013, 20 euro.

(vedi anche biblioteca in scheda
e libro in gocce in scheda 2238652)

Il prototipo di bicicletta, disegnato da Leonardo da Vinci e presente nel Codice Atlantico, assemblato da Pompeo Leoni alla fine del XVI secolo. Lo schizzo, tracciato sul foglio 133, dovrebbe risalire al 1493.

Alla prima Esposizione industriale a Milano, nel 1871, il padiglione dei mezzi di trasporto è dominato da carrozze. Unica eccezione, un velocipede a tre ruote del meccanico Giuseppe Perelli. Attorno al triciclo si radunano visitatori incuriositi e, perlopiù, scettici sull’avvenire di un aggeggio così bizzarro e instabile.

Il velocipede deriva dal celerifero, invenzione francese di fine Settecento, azionato dalla spinta dei piedi puntati a terra. I primi cicli pesano una cinquantina di chili e hanno i pedali innestati direttamente sulla ruota anteriore. Nel 1875 giunge dalla Francia il velocipede in ferro, subito migliorato dal meccanico Bartolomeo Balbiani, un amatore piazzatosi secondo due anni prima alla Milano-Lecco e nel 1874 terzo alla Milano-Torino. Balbiani crea la “Sette chili”, sulla quale Giuseppe Loretz vince nel 1875 il primo campionato italiano su strada, con ruote di gomma piena.

Nel 1884 l’inglese John Dumbar inventa il telaio a rombo e quattro anni più tardi l’irlandese John Boyd Dunlop brevetta il pneumatico con camera d’aria.

Nel 1885 il ventenne Edoardo Bianchi apre a Milano un’officina per la costruzione e riparazione di biciclette. La rinominerà poco dopo “Fabbrica italiana velocipedi Bianchi”. Riduce il diametro della ruota anteriore e inserisce la catena per la trasmissione del movimento. Nel 1888 comincia a utilizzare i pneumatici Dunlop.

Edoardo Bianchi, inventore della bicicletta femminile, confacente alle ingombranti gonne imposte dalla morale dell’epoca. Impartisce lezioni di guida alla regina Margherita, nei giardini della villa Reale di Monza.

Nel 1905 la femminista austriaca Rosa Mayreder definisce la bicicletta il principale strumento di emancipazione sul piano dei costumi.

Biciclette in circolazione a Milano nel 1893: 4.000; nel 1895 6.200.

Dal 17 al 21 marzo 1895 si svolge a Milano l’Esposizione ciclistica internazionale, con 170 espositori. Costo del biglietto d’ingresso: una lira.

L’italiana Pirelli fabbrica pneumatici dal 1890.

Nel 1902 una bicicletta Bianchi costa dalle 290 lire per il modello economico alle 600 lire del modello “lusso extra da viaggio”. Nel 1902 un operaio guadagna in media 2,5 lire al giorno.

Il 6 dicembre 1885 nasce a Pavia l’Unione velocipedista italiana, che dieci anni dopo diventerà la Federazione ciclistica italiana.

Al Trotter di Milano, su terra battuta, si tiene nel maggio 1893 la sfida tra il pistard Romolo Bruno e William Cody, alias Buffalo Bill. La gara, tre ore, è vinta dal cowboy, che percorre 102 chilometri contro i 99,7 del ciclista italiano. Secondo una versione più realistica, il sedicente Buffalo Bill sarebbe in realtà un imitatore (la vicenda è raccontata da Gianfranco Manfredi nel romanzo Il piccolo diavolo nero, Tropea, 2001).

Nel 1894 nasce il Touring club ciclistico italiano, 784 gli associati. Nel 1900 diventerà il Touring club italiano.

A Milano nasce nel 1896 “Il Progresso ciclistico”, stampato dalla tipografia Colombo e Tarra, col sottotitolo Rivista mensile illustrata, tecnica e sportiva di ciclismo e automobilismo.

«Nessuno dei nuovi congegni moderni ha assunto la straordinaria importanza del biciclo, sia come causa che come stromento del crimine; e a tal punto che se una volta si pretendeva (invero con un po’ di esagerazione) di trovare nella donna il movente di ogni delitto virile nel troppo celebrato Cherchez la femme, si potrebbe con forse minor esagerazione sentenziare ora: Cercate il biciclo, in gran parte dei furti e delle grassazioni di giovani, soprattutto della buona società, almeno in Italia» (Cesare Lombroso, Il ciclismo nel delitto, 1900).

Il primo numero della Gazzetta dello Sport esce il 3 aprile 1896, come bisettimanale, in una tiratura di ventimila copie al costo di cinque centesimi e su carta verde. La disciplina più trattata è il ciclismo.

Il 22 gennaio 1906 nasce la società accomandita La Gazzetta dello Sport, con un capitale di 110.000 lire. Le azioni sono rosa, divenuto nel frattempo il colore simbolo del foglio sportivo. Tra i principali azionisti Giovanni Agnelli (proprietario della Fiat), Edoardo Bianchi (titolare dell’azienda di cicli e motocicli), Alberto Pirelli (pioniere dei pneumatici italiani).

Pio X, che il 17 ottobre 1907 esprime all’arcivescovo di Milano Andrea Carlo Ferrari «la dolorosa impressione che lascia nei buoni e il disprezzo che suscita nei tristi il contegno di un prete in bicicletta».

Velocipede, termine di ispirazione omerica, dal pié veloce di Achille.

Nel 1895 Emilio Salgari scrive Al Polo australe in velocipede, una sfida al raggiungimento dell’Antartide su due ruote, avventura estrema tra ghiacci e insidie di ogni genere.

L’esercito si munisce di speciali veicoli pieghevoli, assegnati dal 1900 a reparti di bersaglieri.

Il primo ciclista italiano ad affermarsi a livello internazionale è Federico Momo (Voghera 1878 – Bressana Bottarone 1958), ingaggiato dalla Bianchi e poi dalla Peugeot, popolarissimo in Francia e in Argentina. Nel 1899 vince il Derby di Vienna e nel 1900 il Gran Prix de Paris. La bagarre scatenata dai parigini, che esigono un vincitore di casa, costringe la giuria a retrocederlo al secondo posto, malgrado la documentazione fotografica ne attesti la vittoria. Indignato, abbandona l’attività agonistica, passa al motociclismo e batte il record dell’ora, percorrendo cento chilometri.

Il primo vero professionista italiano è Giovanni Gerbi (Asti 1885 – 1954). Prepara meticolosamente le corse, segue un ciclo di allenamenti, cura l’alimentazione, si depila le gambe per agevolare i massaggi, pur di vincere commette qualsiasi scorrettezza. Lo chiamano il Diavolo rosso perché in gara veste solo di rosso. Pretende contratti personalizzati che in caso di vittoria gli assegnano un bonus di una lira a chilometro.

C’è poi Giovanni Cuniolo (Tortona 1884 – 1955), soprannominato Manina per il vizio di aiutarsi agli arrivi affollati con spinte e pugni ai fianchi degli avversari. Nel 1906 conquista il record dell’ora, percorrendo 39,6 chilometri, tre anni più tardi vince il Giro di Lombardia.

Il muratore Luigi Ganna (Induno Olana 1883 – Varese 1957), primo vincitore del Giro d’Italia nel 1909.

La classica più antica risale al 25 maggio 1876: la Milano-Torino, di 140 chilometri, vinta alla media di 13,3 chilometri orari dal diciannovenne studente milanese Paolo Magretti, applaudito all’arrivo da diecimila persone.

La Milano-Sanremo s’inaugura il 14 aprile 1907 sulle ceneri dell’edizione automobilistica dell’anno precedente, cancellata per l’altissimo numero di vetture in panne. Vince in volata il francese Lucien Petit-Breton, seguito da Gustave Garrogou e da Gerbi. La gara dura 11 ore e quattro minuti, meda oraria del vincitore 26,2 chilometri. Durante l’attraversamento di Pavia, sotto un acquazzone primaverile, la mamma di Rossignoli tenta di consegnare un ombrello al figlio.

Nell’estate del 1908 sia La Gazzetta dello Sport che il Corriere della Sera lanciano, ognuno per suo conto, l’idea di un Giro d’Italia. Ad appoggiare il Corriere sono il Touring Club e la ditta Bianchi, con la Gazzetta Angelo Gatti della Velocipedi Atala. Il 24 agosto il direttore della Gazzetta, Eugenio Camillo Costamagna, annuncia in prima pagina che nella primavera del 1909 si correrà il primo Giro d’Italia, con un tracciato di tremila chilometri e premi per 25.000 lire. Il Corriere è costretto ad accodarsi.

Nel 1909 le elezioni confermano la maggioranza liberale, Guglielmo Marconi ottiene il Nobel per la Fisica, Filippo Tommaso Marinetti lancia il Manifesto del Futurismo.

Sei le squadre in gare al primo Giro: Atala-Dunlop, Bianchi-Dunlop, Stucchi-Persal, Dei-Michelin, Rudge Whitwhort-Pirelli, Labor-Chauvin. Centodue dei 166 iscritti non hanno un ingaggio. Quasi tutti vengono dal Nord Italia. Ci sono poi sei francesi, un argentino, un belga, un austriaco e un russo. Il più anziano è Enrico Nanni, 42 anni.

Dal volantino consegnato al momento dell’iscrizione: «Corridori!!! L’ora è prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e attendono. Ognuno ha fra di voi il suo favorito, la sua speranza. Come corridori italiani avete il gran compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti troverete fra i nostri campioni avversari degni e cortesi […]».

La classifica non considera i tempi di percorrenza ma i punti accumulati sui vari traguardi. Il vincitore riceve un punto, il secondo due, il terzo tre e così via. Vince chi alla fine riporta il punteggio minore.

La lunghezza dell’itinerario e le pessime condizioni delle strade impongono un paio di giorni di riposo alla fine di ogni tappa.

Ogni bicicletta pesa circa 15 chilogrammi, dispone di parafango, campanello, pompa e fanalino; i tubolari pesano mezzo chilo l’uno; al manubrio sono agganciate due borracce: una di acqua, l’altra di vino (ma c’è chi infila nel tascone posteriore una fiaschetta per la grappa); gli atleti portano palmer di scorta incrociati al torace e agganciano alla sella gli attrezzi, con pinza, cacciavite, fil di ferro e viti; al di fuori dei rifornimenti ufficiali non sono ammessi aiuti ai corridori che dovranno riparare da soli la bici.

La partenza poco prima delle tre di notte di giovedì 13 maggio. Dalle cronache della Gazzetta dello Sport: «Solo le 2.53. I piedi premono, i garretti scattano, il piccolo esercito di ciclisti si stacca. La folla scoppia in un lungo ululato di ammirazione, di entusiasmo, di augurio, di gioia. Un lampo, una luce bianchissima, abbagliante, che tutto avvolge e illumina come pieno meriggio. La schiera ciclistica sembra per un istante lunghissima, infinita, enorme».

Percorse poche centinaia di metri Giovanni Gerbi cade rovinosamente a causa di un bambino che gli taglia la strada. Raccolta la bici distrutta, la trascina nella sede della Bianchi lì vicino. Riparte dopo tre ore cercando di raggiungere il gruppo.

L’arrivo della prima tappa a Bologna venerdì 14, all’ippodromo Zoppoli. Il gruppo giunge a notte inoltrata. Alla vista degli atleti la folla, che si era radunata fin da mezzogiorno, perde il controllo e invade la pista, confondendo così l’ordine d’arrivo. Il vincitore, Dario Beni, ha impiegato 14 ore e sei minuti per percorrere 397 chilometri.

La stanchezza, gli incidenti e le strade impervie spingono molti corridori al ritiro oppure a chiedere un passaggio alle auto al seguito. Dalle cronache della Gazzetta: «Gajoni ci chiama disperatamente, ma non possiamo esser pietosi. Ceccarelli si sente male e vuol prendere la ferrovia, ma il poveraccio non ha i soldi: gli do venti lire. Alla sommità della salita troviamo l’amico Banfi: domanda sorridendo con che treno si parte per Napoli, poi dice di voler ritornare a Chieti, perché la tappa è troppo dura».

L’arrivo a Milano il 30 maggio. Tagliano il traguardo in quarantanove, dopo aver percorso 2.500 chilometri. Si dividono un montepremi di 18.900 lire. La Gazzetta titola: “Corridori, passate alla cassa!”.

Vince la prima edizione del Giro d’Italia Luigi Ganna (25 punti, 5.325 lire di premio), seguono Carlo Galletti (27 punti, 2.430 lire di premio) e Giovanni Rossignoli (40 punti, 2.008 lire di premio).

Galletti chiede la squalifica del vincitore perché, durante l’ultima tappa, ha ricevuto dal compagno Danesi un berretto al di fuori del posto di rifornimento. La giuria ammette l’irregolarità ma non la reputa determinante.

Il censimento del 1911 registra 996.182 biciclette.

Nel 1911, cinquantennale dell’Unità d’Italia, il Giro inizia e si conclude a Roma. Le cronache della terza edizione inanellano incidenti e imprevisti di ogni tipo. Nell’attraversamento di una zona agreste le maglie rosse della Legnano irritano una mandria al pascolo e un toro rincorre i ciclisti. La penultima tappa, da Bari a Napoli, si interrompe a Portici perché il manto stradale è impraticabile: i ciclisti arrivano al traguardo su automobili, tra insulti e lanci di pomodori.

Con l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, il Giro si fermerà per tre anni.

Durante la guerra si impenna la produzione di biciclette, in dotazioni a bersaglieri, carabinieri e diversi corpi militari.

Simbolo dei bersaglieri su due ruote è Enrico Toti, mutilato alla gamba sinistra, volontario al fronte con il suo speciale ciclo monopedale che gli funge anche da stampella.

Tra le vittime della Grande Guerra anche il vincitore del Giro del 1913, Carlo Oriani.

La marcia su Fiume, guidata il 12 settembre 1919 da Gabriele d’Annunzio su un’automobile Fiat T4, è compiuta da molti granatieri in bicicletta. In vista della città, una fila di ciclisti parte di fuga per avere il privilegio di entrare per primi nella “città redenta”.

A un decennio dal primo Giro d’Italia, nel 1919 le biciclette in circolazione sono più che raddoppiate: da 600.000 a 1.364.000.

Il Giro del 1919 parte con 63 concorrenti, una quarantina dei quali “bersaglieri ciclisti” in licenza speciale. Gli “isolati”, ovvero quelli senza una squadra, non dispongono di assistenza logistica né di un massaggiatore. Dominatore dell’edizione è Costante Girardengo, benché convalescente dalla spagnola.

Nel 1919 il Gioco dell’Oca fa uscire una versione con le caselle corrispondenti alle tappe del giro d’Italia. Al numero 18, il ciclista esausto sosta tre giri; al 22, passaggio a livello; al 24 un raggio spezzato impone il pagamento della riparazione; al 27, smarrita la strada, top per cinque giri eccetera.

Quando Mussolini prende il potere nel 1922 la bicicletta è il mezzo di locomozione di gran lunga più diffuso: 1.100.000 esemplari. Le automobili in circolazione sono 41.000, le motociclette 36.800, 23.000 tra camion e autocarri.

Nel 1924 il regime impone che gli atleti utilizzino esclusivamente biciclette realizzate in Italia.

Mussolini, che preferisce automobili e aerei alle biciclette.

Pare che Mussolini durante le sommosse del giugno 1914 disseminasse chiodi sulle strade romagnole per sabotare le gare.

Franzinelli: «Il dittatore si dedica a discipline aristocratiche come il tennis e l’equitazione. Alloggiato nella splendida tenuta di Villa Borghese, vi fa costruire un galoppatoio e un campo da tennis, si esibisce in tenuta sportiva e si pavoneggia per il pubblico femminile. La propaganda del regime ne decanta le metamorfosi: di volta in volta egli è schermitore, sciatore, motociclista, automobilista, aviatore, cavallerizzo, tennista… Gli manca soltanto la dimensione ciclistica. Forse per levarsi un rimorso, o più probabilmente per decisione di un sottosegretario, concede al vincitore del Giro d’Italia una medaglia dorata con impressa la propria effige».

Nella primavera del 1929 il periodico Lo sport fascista presenta il Giro come un evento «alquanto lontano dallo spirito che informa l’educazione sportiva fascista».

Nel 1935 è prodotta in grande serie il modello di bicicletta “Littorina”, con telaio in legno.

Costante Girardengo, mai simpatizzante del regime. Nota la sua amicizia con Sante Pollastri, scassinatore anarchico. Fu preso a Parigi, nel 1927, proprio in occasione di una gara parigina. Da qui la canzone di Francesco De Gregori Il bandito e il campione (scritta in realtà dal fratello Luigi Grechi).

Dall’inizio degli anni ’20 alla metà degli anni ’30 il ciclismo italiano è dominato da tre corridori: Girardengo, Binda e Guerra.

Costante Girardengo (Novi Ligure 1893-1978) esordisce diciannovenne con la Maino, che gli fornisce una bicicletta e gli paga le trasferte. Arrivano le prime vittorie, poi il servizio militare (subito riformato per un inesistente problema di vista). Campione italiano su strada nel 1913-14, da qui iniziano i successi. Nel 1919 è ancora campione italiano, trionfa al Giro d’Italia e al Giro di Lombardia. Nel 1923 vince il Giro e la Milano-Sanremo. Gareggia fino al 1936, quando ha 43 anni. Poi apre una fabbrica di biciclette e fa il commissario tecnico della nazionale.

Alfredo Binda (Cittiglio 1902-1986), emigrato a Nizza, lavora come stuccatore finché non inizia a gareggiare nel 1922. Torna in Italia ingaggiato dalla Legnano e vince a sorpresa il Giro nel 1925.

Learco Guerra (San Niccolò Po 1902 - Milano 1963) ha una vocazione tardiva. Campione su strada nel 1930. Impulsivo e generoso, soprannominato “Locomotiva umana”, vince il Giro del 1931.

Dall’undicesima edizione del Giro, nel 1923, macchine da presa registrano gli arrivi di tappa.

L’11 giugno 1923, dopo la vittoria finale di Girardengo al Giro, la Gazzetta dello Sport titola in prima pagina: “A Costante Girardengo, invitto ed invincibile, l’XI Giro d’Italia – L’ostinata vigorosa e vana lotta di Brunero, secondo a solo mezzo minuto”.

Nel 1927 è stilata una classifica speciale per i tesserati del Partito nazionale fascista, la categoria “camice nere”. La vince Giuseppe Pancera, quinto in classifica generale.

Nel 1928 i corridori sono costretti a passare per Predappio per un omaggio al cimitero alla tomba della madre del Duce.

Nel 1931 per la prima volta al capoclassifica viene data la maglia rosa, che lo rende riconoscibile alla folla e sponsorizza la Gazzetta dello Sport. Primo a indossarla, il 10 maggio, è Learco Guerra.

La prima maglia rosa, custodita al Museo del Ghisallo.

Nel 1932 Achille Campanile scrive il romanzo Battista al Giro d’Italia, rivisitazione ironica del Giro del mondo in 80 giorni di Giulio Verne.

Nel 1933 tre novità: l’esordio della carovana pubblicitaria, con attrazioni e spettacoli promozionali; la concessione di abbuoni per il Gran Premio della Montagna; l’introduzione delle gare a cronometro.

Nel 1935 il ventunenne Gino Bartali conquista il Gran Premio della Montagna e l’anno successivo vince la ventiquattresima edizione della corsa a tappe, contraddistinta dall’autarchia, ovvero l’esclusione dei corridori stranieri.

Nel 1936 la diciannovesima tappa si conclude a Gardone Riviera, in omaggio a Gabriele d’Annunzio, che saluta i corridori con ventuno cannonate (a salve) esplose dal Vittoriale. «Tutte le vittorie sportive debbono essere salutate col fuoco» urla il poeta.

Alla vigilia del Giro del 1940, il direttore della Gazzetta Bruno Roghi scrive: «Chi fa sport è – in attesa e in potenza – un soldato» e mescola all’evento agonistico riflessioni sul «nuovo popolo germanico, uscito dalla palestra, con volto nuovo, che sbalordisce il mondo con le sue imprese», concludendo l’articolo così: «Il Giro d’Italia vuole essere – e sarà – una testimonianza maschia di ardimento, lealtà agonistica, fierezza!».

All’undicesima tappa, Firenze-Modena, il ventenne Fausto Coppi conquista la maglia rosa con una fuga di un centinaio di chilometri. La Legnano decide di puntare su di lui, anche perché Bartali è fuori classifica (femore incrinato nella seconda tappa per una cane che gli ha tagliato la strada). Coppi vince il suo primo Giro a Milano il 9 giugno 1940. Il giorno successivo la Gazzetta dello Sport titola: “Il coscritto Fausto Coppi è il vincitore del 28° Giro d’Italia che, nel doppio segno della giovinezza e della tradizione, ha recato alle folle sportive d’Italia la testimonianza della gagliardia e della serenità della patria in armi”. Lo stesso giorno Benito Mussolini dichiara guerra a Francia e Regno Unito.

Gino Bartali (Ponte a Ema 1914 – Firenze 2000) nasce in una famiglia operaia di tradizione socialista. Apprendista meccanico, usa la bicicletta per le consegne di lavoro, ma scopre la passione per lo sport. Una caduta alla Coppa Maremma, nell’ultima stagione tra i dilettanti, gli provoca una commozione cerebrale e la rottura del setto nasale.

Passato professionista nel 1935, Bartali si trova in fuga nella Milano-Sanremo. Il direttore della Gazzetta, Emilio Colombo, vuole evitare che la gara sia vinta da uno sconosciuto. Accosta con l’auto il ragazzo e lo distrae con un’intervista. Così, a sette chilometri dall’arrivo, Bartali è superato dal terzetto Olmi, Guerra e Cipriani e finisce quarto. Dopo questa gara sarà però ingaggiato dalla Legnano.

Il 16 giugno 1936 muore Giulio Bartali, fratello di Gino e ciclista promettentissimo, travolto da un’auto contromano.

Bartali rifiuterà sempre di prendere la tessera del Partito Fascista.

Nel 1938 il regime gli impone di saltare il Giro per prepararsi al Tour, che poi vince. Al ritorno in Italia dopo il trionfo, si rifiuta di indossare la camicia nera e per questo è oscurato dai media. Lo riceve pero papa Pio XI, che gli impartisce la benedizione apostolica.

Fausto Coppi (Castellania 1919 – Tortona 1960) inizia a pedalare come garzone di un macellaio. La prima bici da corsa è una Maino, di seconda mano. Gliela regalano il padre e lo zio.

Coppi è il più giovane vincitore di un Giro d’Italia: nel 1940 ha vent’anni.

Il 7 novembre 1942 Coppi porta a 45,798 chilometri il record mondiale dell’ora, al velodromo Vigorelli (inaugurato il 24 marzo 1935 e distrutto dai bombardamenti dell’estate 1943). Dopo una decina di giorni è arruolato in fanteria e inviato sul fronte della Tunisia, dove sarà catturato dagli Alleati.

Bartali evita l’arruolamento grazie al cuore brachicardicobovino, che gli consente di sopportare grandi sforzi con poca fatica ma gli impedisce il richiamo alle armi.

Dopo un’interruzione di cinque anni a causa della guerra il Giro ritorna nel giugno ’46. È la prima grande corsa europea dopo il conflitto (il Tour de France si correrà di nuovo solo nel ’47). Quarantanove corridori in sette squadre, più una trentina di isolati. Per la prima volta funziona un servizio medico ufficiale.

Nella tappa a Trieste, il 30 giugno 1946, alcuni ciclisti sono feriti dalla sassaiola , mentre la strada è disseminata di chiodi. Manifestanti guidati da Franc Stako, del Fronte di liberazione sloveno, issano cartelli con su scritto “Il Giro d’Italia e non nelle terre di Tito!”. Nel parapiglia si usano le armi e un colpo di pistola ferisce un agente. La tappa si conclude a Pieris. La vince Giordano Cottur.

Oltre alla maglia rosa c’è la maglia nera, che va all’ultimo classificato. Dino Buzzati scrive per il Corriere della Sera, I derelitti del tempo massimo, un omaggio «ai grandi ritardatari, quelli rimasti indietro di decine di chilometri, che per tutta la metà della tappa, anziché siepi di umanità entusiasta schierate ai bordi della strada, hanno incontrato disordinati fiotti di folla che tornava a casa».

Maglia nera nel 1949 (e poi nel 1950) è Luigi Malabrocca, che taglia il traguardo finale a 4 ore 9 minuti e 34 secondi da Bartali.

La maglia nera è abolita nel 1952 perché scatena rivalità furibonde e scorrettezze a non finire.

Curzio Malaparte, che nel 1949 pubblica in francese il saggio Coppi e Bartali. Gino è il «figlio della Fede», Fausto personifica «il libero pensiero». «Bartali è un uomo, Coppi un robot».

Nel 1952 il Quartetto Cetra incide su 78 giri il charleston Fausto e Gino.

Il 1948 è l’anno in cui Bartali vince per la seconda volta il Tour de France. Il 14 luglio è giorno di riposo per i ciclisti, mentre in Italia il segretario comunista Palmiro Togliatti è colpito da tre revolverate alla nuca e a un polmone esplose dal neofascista Antonio Pallante. Il paese precipita nel caos. La storia vuole che quella sera Alcide De Gasperi abbia telefonato a Cannes a Bartali per chiedergli una vittoria che avrebbe potuto allentare la tensione. Fatto sta che il giorno dopo Bartali si scatena si scatena sull’Izoard e precede di 18 minuti la maglia gialla Bobet. La notizia è diffusa in Italia dalla radio e dai quotidiani e contende l’apertura sugli scioperi e sugli scontri tra manifestanti e polizia. Il 16 luglio, poi, Bartali conquista la maglia gialla, dopo aver conquistato tre Gran Premi della montagna.

«Quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / e i francesi ci rispettano / che le balle ancor gli girano» (da Bartali di Paolo Conte, 1979).

Franzinelli: «Il dualismo Coppi-Bartali infiamma il ciclismo nel decennio postbellico. Secondo la tradizionale faziosità italica, i tifosi si dividono in due schiere contrapposte, ognuna della quali esalta virtù sportive e qualità umane del proprio campione, in un fenomeno di immedesimazione. Nel clima della guerra fredda Bartali impersona il tradizionale modello casa-chiesa-lavoro, tipico di una società rurale, mentre Coppi rappresenta l’irrequietezza esistenziale di chi si è inserito in un contesto modernizzatore e secolarizzato, con stili di vita individualisti, condizionati dall’industrializzazione. Il dualismo viene forzato dai mass media, che banalizzano Bartali come un bigotto e presentano il rivale come una sorta di James Dean del pedale. In realtà Fausto, come Gino, vota per la Democrazia cristiana».

Al Giro del ’49 Bartali lamenta dolori alla pancia e denuncia un avvelenamento per una bevanda misteriosamente offertagli in gara.

Al Tour del 1952 Carlo Martini scatta la fotografia più famosa della storia del ciclismo: su una strada di montagna Coppi in maglia gialla procede Bartali e con la sinistra gli passa (o riceve) una bottiglietta d’acqua. I due corrono nella stessa squadra e il capitano è Coppi. L’immagine appare il 10 luglio su Lo sport illustrato, settimanale della Gazzetta.

Fiorenzo, terzo uomo è un film del 1951 dedicato a Fiorenzo Magni. Costretto a correre contro Coppi e Bartali, in realtà Magni (Vaiano 1920 – Monza 2012) ha vinto parecchio nella sua carriera: tre volte il Giro d’Italia, tre volte il Campionato italiano su strada, tre volte il Giro del Piemonte, tre volte il Giro delle Fiandre.

Processato per adesione alla Repubblica Sociale Italiana, Magni fu scagionato nel 1947, perdendo però più di un anno di attività agonistica.

«Filastrocca del gregario / corridore proletario / che ai campioni di mestiere / deve far da cameriere, / e sul piatto, senza gloria / serve loro la vittoria. / Al traguardo, quando arriva, / non ha applausi, non evviva. / Col salario che si pigli / fa campare la famiglia. / E da vecchio poi si acquista / un negozio da ciclista. / O un baretto, anche più spesso, con la macchina per l’espresso» (da Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari, 1959).

Nel 1950, “Anno Santo”, il Giro si conclude a Roma e Pio XII accoglie i ciclisti nella basilica di San Pietro. La cronaca della Gazzetta dello Sport: «Il Papa sceso dal tronetto, si diresse inaspettatamente e con visibile e paterno piacere verso due figure che subito caddero in ginocchio: Bartali e Koblet. Bartali, si sa, è un po’ a casa sua in quel Tempio. Ma Koblet, abdicando con straordinario tatto a ogni principio, si prosternò con un gesto semplice, giovane commovente, così diverso dalla massiccia e severa devozione di Bartali».

Ritiratisi Bartali e Magni e con Coppi al tramonto, a rappresentare il ciclismo italiano nella seconda metà degli anni Cinquanta sono Gastone Nencini e Ercole Baldini. Nencini (Barberino del Mugello 1930 – Firenze 1980) detto il Leone del Mugello, temperamento impetuoso e ribelle, corre sempre all’attacco, rimediando a volte figuracce. Baldini (classe 1933).

La prima ripresa diretta televisiva in via sperimentale nell’edizione del Giro del 1953, il 12 maggio a piazza Duomo e il 2 giugno per la tappa conclusiva Bormio-Milano.

Costo di un apparecchio televisivo nel 1954: dalle 35 alle 160 lire.

Gli abbonamenti alla Rai nel corso dell’anno passano da 34 a 80 mila.