Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 08 Mercoledì calendario

E LA FAMIGLIA INVISIBILE SI PRENDE IL SUO GIULIO - E

l’ultimo giorno la famiglia si è ripresa Giulio Andreotti. Niente segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone a celebrare. E nemmeno il cardinale Angelo Sodano, sebbene entrambi si fossero resi disponibili. Ha rinunciato anche l’arcivescovo di Gaeta, Bernardo D’Onorio, ex abate di Montecassino e amicissimo del «Presidente». Monsignor Rino Fisichella si è seduto fra gli altri sacerdoti. E così monsignor Giuseppe Sciacca, latinista, segretario del governatorato vaticano e cultore di Pio XII come Andreotti. Alla fine, preceduto e seguito da preti giovani, anziani e di mezza età, nella navata della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini è emerso don Luigi Veturi, il parroco: un ciociaro di Subiaco al quale storpiano sempre il cognome, mettendogli una «n» che non c’è.
I quattro figli hanno voluto sull’altare lui e solo lui: perché è il sacerdote che negli ultimi mesi di esistenza del senatore a vita, i più tribolati, andava a casa a dargli la comunione. Ogni sabato. Come hanno rifiutato la camera ardente al Senato, allestendola nell’appartamento di corso Vittorio Emanuele dove ormai è rimasta solo la signora Livia con le badanti filippine, così hanno spogliato il funerale di qualunque segno esteriore del potere vaticano: a cominciare dal celebrante. Don Veturi era imbarazzato. Voleva lasciare il passo ai «superiori», conscio delle regole di una organizzazione gerarchica come la Chiesa cattolica. E invece, nella parrocchia di piazza dell’Oro, alla fine di via Giulia, proprio dietro casa, il rito del funerale andreottiano è stato affollatamente e rigorosamente privato. E pazienza se quella è stata anche la parrocchia di papa Eugenio Pacelli. Don Veturi, senza «n», tiene in sacrestia il certificato rilasciato da Pio XII come parrocchiano illustre.
L’ultima parola è toccata alla famiglia: questa tribù anomala nella sua normalità. Figli, figlie, mariti e mogli con nipoti si sono stretti l’uno all’altro. E alla fine si sono tenuti per mano sgusciando tra la gente che occupava non solo la chiesa ma la piazzetta: altrimenti rischiavano di perdersi. Non sembravano sorpresi di nulla. Né della folla che gremiva ogni spazio, né di quella strana marmellata sociale che è l’interclassismo andreottiano, miscela di potenti, popolo e popolino. Un mondo promiscuo, che vedeva accanto banchieri e mendicanti, aristocratici e «generone», giovani e vecchi. I più, probabilmente democristiani o ex; e certamente andreottiani, visti i battimani ripetuti, dentro e fuori dalla chiesa. Con questa fauna la famiglia si è mischiata riuscendo però a rimanerne immune. Il segreto? Un anonimato pluridecennale, e un’identità blindata da una cortesia abbinata al riserbo.
Lamberto, top manager della Squibb, stringeva a sé Marilena, la sorella maggiore, coi capelli corti sale e pepe e un’aria infragilita dal dolore. Intorno volteggiavano le telecamere e si susseguivano interviste volanti. Ma senza mai sfiorarli. Per accompagnare il carro funebre, alla fine, non c’erano le auto blu ma quelle della famiglia. E molti si chiedevano quali fossero «gli Andreotti», perché per oltre mezzo secolo pochi sapevano che esistessero; e che facce avessero. Il sette volte presidente del Consiglio era un sacerdote smaliziato del governo e del potere della Prima Repubblica: un’epoca nella quale non si presumeva che un politico avesse una moglie o dei figli. E se li aveva, tendeva a tenerli nascosti. D’altronde, anche ieri, nella massa viva, chiacchierona e indistinta di quella chiesa cinquecentesca si avvertiva intatta la distanza siderale fra l’ex premier e ministro e i suoi elettori: era palpabile da vivo, ed è rimasta tale al suo funerale.
Per trovare i soldati del vero esercito andreottiano, le falangi del suo potere inossidabile, bisognava andare nelle retrovie. Bastava affacciarsi nella sacrestia dove il coro provava i canti sacri, e un nugolo di sacerdoti si preparava a celebrare il suo «papa laico» fra putti di legno dorato, candelabri e antiche immagini sacre. In quello svolazzare di tuniche viola, di battute e di ricordi del «Presidente» non si avvertiva soltanto rispetto, ma familiarità. Di più, una profonda, eterna complicità e riconoscenza verso Andreotti. Bisognava vederli, quei monsignori che entravano, si vestivano per la cerimonia. E poi rinunciavano e se ne tornavano in chiesa, perché la famiglia voleva don Veturi.
L’unico ammesso a concelebrare è stato un prete con l’accento toscano, entrato nella canonica pochi minuti prima dell’inizio della funzione, e ha chiesto: «Posso concelebrare?». «Prego», lo ha accolto il parroco, che neanche sapeva chi fosse. «Qui vuole dire messa per Andreotti tutta l’Italia». Tutta l’Italia no, ma gran parte della Chiesa italiana, anzi romano-papalina, senz’altro. Solo che stavolta il maestro di cerimonie non è stato «lui», «il Presidente», ma i suoi familiari. E nella loro testa si dev’essere imposta una convinzione serena e incrollabile: che ormai toccasse agli Andreotti e non più ad altri, fossero gli alti dignitari vaticani o le autorità istituzionali italiane, decidere come dare l’ultimo saluto a quel personaggio controverso per gli altri ma non per la famiglia.
Quando il piccolo corteo di auto si è infilato dietro al carro funebre, gli unici eredi autentici del senatore a vita sembravano quasi sollevati: in quel momento Giulio Andreotti, forse per la prima volta, è diventato solo loro.
Massimo Franco