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 2013  maggio 08 Mercoledì calendario

REPERTORIO ANDREOTTIANO


Protagonista e prototipo di mezzo secolo di politica italiana con al centro il partito cattolico, di quella vicenda Giulio Andreotti è stato un’enciclopedia vivente. Lo abbiamo visto confermarsi, di decennio in decennio, il depositario di eventi di prima mano, scelti e raccontati con il piglio dell’esperto, che sa come enunciarne una versione in apparenza autentica e capisce dove, invece, è preferibile spargerle intorno qualche tiepido soffio di nebbia per renderla ambigua, inafferrabile. De (prima) Repubblica s’intitolava un suo volume del 1966. È uno di quegli autoritratti che risultano somiglianti perché affiorano, come frutti esemplari, da un panorama che li avvolge. Si tratta di una “summa” di pensieri, figure ed umori, nella quale l’autore amplia e riconsidera i frammenti dal vivo che è andato rivelando per iscritto nel corso della sua carriera, dalla biografia di De Gasperi alla serie intitolata Visti da vicino, dai Diari degli anni in cui collaborava a gestire il potere accanto a celebri personaggi consolari a quelli nei quali si vide adibito, ormai in prima persona, a Governare con la crisi. È, quest’ultimo, un suo titolo rivelatore, quasi un’auto-decorazione da lui concessa alla propria destrezza.
Ne aveva viste tante, Andreotti, e le ricordava tutte. Più che alle idee o diagnosi generali da lui emanate – sempre dominate da uno scetticismo curialesco – gli spettatori della politica italiana si appassionavano ai personaggi del repertorio andreottiano.
Lo stile di questo durevole plenipotenziario della prima Repubblica passa attraverso la ricerca dell’eufemismo, il più possibile ironico, per levigare — quando c’è o si può temere che esploda – la polemica. Un mucchietto di esempi fra i tanti. Per alludere alle divisioni interne della Dc, lui di rado usava la parola “correnti”, troppo esplicita per le sue consuetudini affabulatorie. Preferiva una dizione più umbratile: “filoni particolari”. Una volta che si lasciò sfuggire il termine “censura”, parlando della segreteria di Stato di Pio XII nei rapporti con il quotidiano dc Il Popolo, aggiunse poco dopo: «Chiedo scusa: revisione». Riferendosi ai tentativi, di parte presumibilmente democristiana, di coinvolgerlo negli imbrogli finanziari organizzati da un piissimo banchiere a nome Giuffré, accenna ai propri tentativi di «mandava a vuoto il colpo non di ignoti». Raccontava così la concentrazione, a Genova, nel luglio 1960, di militanti di sinistra decisi ad impedire il congresso neofascista (e ne sarebbero nati incidenti memorabili e politicamente esemplari): «Si erano persino mosse da Carrara squadre di quei bravissimi lavoratori del marmo, dotate di tutte le loro attrezzature. Esplosivi compresi ».
Spiegando agli elettori democristiani, nell’aprile del 1963, la differenza tra il centrosinistra di Fanfani e quello di Moro, evita l’aggettivo “moderato” perché esso «in politica non sembra venga considerato sinonimo di virtù». Che cosa sono, filtrati dai suoi occhi, le amnistie? «Ricorrenti distribuzioni di clemenza». Definizione ovvia, ma per trovarne una più soavemente malvagia occorreva forse rivolgersi a un prelato del Settecento. E avanti così, fra bon mots celebri, come il chiamare l’Enciclica casti connubi il discorso pronunciato da Aldo Moro al congresso democristiano del gennaio 1962, che preparò il centrosinistra, alla proverbiale «teoria dei due forni», con la quale Andreotti avrebbe rivendicato la facoltà dello scudo crociato di concedere di volta in volta i propri favori ai comunisti, o ai socialisti redenti da Bettino Craxi, o alle destre più intemperanti.
Nella galleria di figure politiche, che emerge dalle parole e dagli scritti andreottiani, si allineano amici non sempre catalogabili con simpatia accanto a nemici ammirati o prediletti. Ecco Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica. De Gasperi, asserisce Andreotti senza che la sua appaia una scoperta, «ne temeva il carattere lunatico con abitudine a dimettersi ogni due settimane e a creare frequenti drammi anche per fatti di lieve portata». Quando, durante una visita di Stato, la signora Terracini, moglie di un comunista autorevole, venne pregata di fare compagnia ad Evita Peron, un settimanale umoristico si permise qualche sorriso o magari qualche volgarità di troppo. De Nicola ne pretese la condanna al macero. «Gli demmo soddisfazione», rivelava il superdemocristiano che qui stiamo rievocando, «sequestrandone simbolicamente una copia». Una specie di ricetta: come si placano con poco sforzo le pretese d’un vecchietto bizzoso.
Nella vita politica di questo testimone della prima Repubblica – o nella sua vita tout court, che sono sinonimi – spiccano momenti in cui, per usare un’immagine di Paul Valéry, «il Moi diventa Moi diesis». È il caso di un’impegnativa missione che De Gasperi gli affida: sondare se Luigi Einaudi sia disposto a farsi eleggere al Quirinale. È proprio a lui, giovane intermediario, che l’insigne economista esprime la perplessità da cui viene afflitto: potrà mai una persona claudicante passare in rassegna reparti militari? Egli lo convincere a rispondere di sì. Einaudi assolverà poi al compito presidenziale con dignità severa.
Quando i funzionari del Colle gli fanno firmare il decreto che nomina l’ambasciatore degli Stati Uniti, Claire Boothe Luce, cavaliere di Gran Croce, Einaudi cambierà la parola “ambasciatore” in “ambasciatrice”. «A un presidente della Repubblica», commenta Giulio, «si possono chiedere tutti i sacrifici, ma non quello dell’italiano».
Andreotti parla, tra gli altri, di Pannella. Con apparente ammirazione. «Marco è un romantico. Voler risolvere i mali italiani con un digiuno e con la sveglia da orologi militari è veramente originale». Il riferimento è al 1993, quando il capo radicale convocava poco dopo l’alba i colleghi d’ogni partito perché si opponessero alle elezioni.
Massimo D’Alema entra in questa saga aneddotica nelle vesti d’un giocatore di scopone. Volando sulla Russia per partecipare a un funerale di Stato, Sandro Pertini lo ha associato a un quartetto di giocatori. Era «convinto di liquidare il giovanetto ». Il quale però, mettendo a segno una scopa che si presume decisiva, esclama: «Presidente, era l’unica carta che non doveva tirare». La reazione pertiniana fu veemente. Così Andreotti la descrive. «Il riscontro presidenziale non fu proprio da conferimento di onorificenze».
Bettino Craxi, considerato «uomo di indubbie grandi doti politiche», era «soggetto a raccogliere voci di manovre», fra le quali la presenza, in un’intricata vicenda di tangenti petrolifere, dello stesso Andreotti. Il quale lo giudicava un po’ mitomane, senza dirlo in maniera tagliente.
Di Silvio Berlusconi, la cui “discesa” in politica coincide su per giù con il tramonto del lungo potere andreottiano, lo colpisce fin da principio l’improntitudine, così distante dalle curiali morbidezze democristiane. «Le etichette» del patron televisivo, annota Giulio, «non indicano modestia: “Polo della libertà e del buongoverno…”». Alla diffusione di queste formule si accompagneranno ben presto «coincidenti iniziative giudiziarie sagacemente pubblicizzate». Risultato: «Non è improbabile che la convinzione di un “fumus persecutionis” abbia giovato a Berlusconi più degli spot televisivi».
Un capitolo assai pungente della storia nazionale sub specie andreottiana porta una data precisa. È «un brutto giorno» del marzo 1993. «Appresi allora al telefono l’incredibile notizia che era arrivata da Palermo al Senato una richiesta di autorizzazione a procedere contro di me per correità mafiose…». Andreotti, l’intramontabile, il cronista capzioso e scettico del nostro passato prossimo, avrebbe occupato da quel giorno un posto di rilievo nell’ampia serie dei misteri d’Italia.
Non si lascerà scappare un’udienza giudiziaria, non lesinerà sorrisi, non si atteggerà a vittima. Almeno, non troppo. Mai farà temere un crollo emotivo. Come si s’addice, nel bene e nel male, a una vita democristiana.