Sebastiano Messina, la Repubblica 8/5/2013, 8 maggio 2013
IL SILENZIO E LE LACRIME DEGLI ULTIMI DC
Mentre l’applauso riempie la chiesa, dopo che don Luigi Venuti ha chiesto che «il nostro fratello Giulio, assolto da ogni colpa, partecipi alla gloria di Dio», guardi nei primi tre banchi dietro la bara di legno chiaro.
E ti accorgi che una volta si sarebbero potuti fare tre governi — entrambi monocolore — con i democristiani che sono qui dentro per dire addio al simbolo ormai non più vivente del potere scudocrociato. Uno l’avrebbe potuto guidare Arnaldo Forlani, dalla chioma ormai candida, che ha sostituito l’impermeabile chiaro con il quale la mattina si era presentato alla camera ardente con un altro, più scuro, e oggi difende con inscalfibile flemma «l’assoluta coerenza, nel solco tracciato da De Gasperi», del suo grande alleato che fu però anche il suo grande rivale nella sfortunata corsa al Quirinale. L’altro monocolore avrebbe sicuramente avuto come premier Ciriaco De Mita, l’unico dei presenti vestito di grigio, entrato in chiesa con il suo solito sguardo finto-disorientato e finito in seconda fila, separato dall’amiconemico Arnaldo da una donna che fa parte anche lei della storia democristiana, donna Vittoria Leone, la vedova del presidente che il partito obbligò a dimettersi. Il terzo governo, infine, sarebbe stato presieduto da Emilio Colombo, che a 93 anni ha appena presieduto la prima seduta del Senato e che oggi si è incamminato lentamente verso il primo banco della chiesa, provocando un attimo di panico quando è inciampato col bastone sull’inginocchiatoio. Tutti e tre, del resto, sono stati premier democristiani, e oggi sono davanti alla bara del recordman del potere (sette volte presidente del Consiglio e 26 volte ministro). Per la lista dei ministri, qui dentro c’è solo l’imbarazzo della scelta, osservando quelli che lo sono stati davvero e quelli che non lo sono diventati solo perché Andreotti — e chi, sennò? — li aveva piazzati su altre poltrone, forse più comode e magari più potenti.
Il primo di tutti è Paolo Cirino Pomicino, che ancora piange mentre esce dalla chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini, proprio di fianco al palazzone umbertino dove abitava il «divo Giulio». Ha già detto quello che voleva dire, e oggi quasi si appoggia alla figlia mentre segue la bara del presidente al quale, devotamente, non osò mai dare del tu. Poi c’è Vincenzo Scotti, che ha ancora di ciuffo di quando Andreotti lo candidò alla segreteria dc, solo che adesso sono ingrigiti tutti e due (lui e il ciuffo). C’è Pier Ferdinando Casini, che all’epoca del Caf era più forlaniano di Forlani, e oggi è uno dei pochi a essere rimasti in pista. C’è Franco Marini, che s’è già scrollato di dosso la rabbia per l’imboscata dei franchi tiratori. C’è Nicola Mancino, dimagrito e stanco: con l’amico Giulio ha condiviso anche i dispiaceri, in tempi diversi, per le inchieste palermitane. C’è Nicola Signorello, invecchiato assai da quando lasciò — un quarto di secolo fa — la poltrona di sindaco di Roma. C’è Clemente Mastella, che neanche stavolta si nega alle telecamere. C’è Giuseppe Zamberletti, l’inventore della Protezione civile, dallo sguardo sempre saettante. C’è Francesco D’Onofrio, il Charlie Brown della segreteria demitiana, che prudentemente arriva in chiesa con l’ombrello pieghevole. C’è Angelo Sanza, già portabandiera della dc lucana, generoso dispensatore di consigli e di battute. C’è Beppe Pisanu, passato da Moro a Berlusconi quindi a Monti. Ci sono gli ex generali ciellini, Roberto Formigoni e Maurizio Lupi, un ex e un neo. C’è Marco Follini, che dopo essere stato il leader dei giovani democristiani, oggi s’è iscritto a 58 anni alla lista dei rottamati: un grande avvenire dietro le spalle, avrebbe detto Gassman.
Dietro, tra gli ex elettori che Andreotti l’avrebbero rivotato ancora, e ancora, ci sono anche Giorgio Moschetti, che fu il cassiere di Sbardella (sempre biondo cenere, però più cenere che biondo), Cesare Geronzi, già potentissimo banchiere andreottiano, l’ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, l’inaffondabile faccendiere Luigi Bisignani — con il viso più scavato del solito — e naturalmente il più celebre degli amici di Andreotti, il dominus della Ciociaria: Giuseppe Ciarrapico. Non poteva mancare, il Ciarra, e non è mancato: appoggiandosi sul bastone, ha varcato a fatica l’ingresso della chiesa, e negli occhi gli si poteva leggere un dolore furente, o un furore addolorato, per l’amico che se n’era andato.
Sì, sono davvero tanti, i democristiani venuti a salutare il più democristiano di tutti, mentre don Luigi — non si sono visti né vescovi né cardinali, in chiesa — ricorda le virtù cristiane del suo parrocchiano più importante, «ogni mattina aiutava tutti i bisognosi che si presentavano». Ma chissà perché, nessuno dei big — eccetto Emilio Colombo — siede in prima fila, nel settore di destra dove la famiglia ha dato posto ai politici. Sul banco d’onore ci sono Pietro Grasso (arrivato all’ultimo minuto, quando la bara era già in chiesa), il sindaco Alemanno (con la fascia tricolore), Mario Monti e Gianni Letta (probabilmente il più andreottiano dei politici di oggi, con gli occhi lucidi per la commozione), ma non Forlani né De Mita, e neppure Romana De Gasperi, la figlia dello statista che fu il mentore del «divo Giulio».
Ma nessuno ha voglia di chiedersi perché, in questa chiesa dove la famiglia ha voluto un funerale non di Stato. E quando la bara esce sulla piazza, portata a spalla e preceduta dalla corona di garofani bianchi e rossi inviata da Napolitano, e seguita dal gonfalone della Roma, la squadra di cui lui era appassionato tifoso, una voce grida «Grande Giulio!» e fa scattare l’ultimo applauso. Il più commosso di tutti è Pierluigi Berlo, che oggi ha più di settant’anni ma ne aveva venti quando entrò nella segreteria di Andreotti. «Eravamo in 120, cen-to-ven-ti» racconta. «Lavoravamo come matti, ma era bello. Lui era ministro della Difesa e ci disse: toglietevi dalla testa di evitare il servizio di leva. Lo facemmo tutti, io per primo. E il sabato andavamo a consegnare un mazzo di assegni circolari da cinquemila lire, una sommetta per gli anni Sessanta, a parrocchie, orfanotrofi, conventi e famiglie bisognose: tutti soldi che si faceva dare dalle grandi aziende, dalla Shell alla Marzotto».
Lui non può più sentirli, questi racconti.
Poco prima, nell’appartamento borghese al penultimo piano del palazzo ottocentesco di corso Vittorio — dove la maschera di pietra di un satiro sormonta il pesante portone di noce — era salito a rendergli omaggio il presidente Napolitano, accolto dai figli Lamberto, Marilena, Stefano e Serena. La vedova, la signora Livia, era tenuta al riparo dal dolore e infatti non è neanche venuta in chiesa, anche se sul sagrato c’erano le sue rose.
Uno sbarramento di polizia, carabinieri e finanzieri manteneva a distanza i curiosi, giù in strada, e bisognava superare i controlli di quattro signori vestiti di nero per raggiungere l’ascensore. Ma chi doveva venire è venuto. Come il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, che poi ha salutato le telecamere facendo ciao. Come Gianni Letta. Come Gaetano Gifuni, ex segretario generale del Quirinale. O come Maria Pia Garavaglia, che davanti alla salma ha recitato l’Ave Maria.
Nel corridoio di casa Andreotti, il giornalista Marco Ravaglioli, genero del Presidente, aspettava davanti alla vetrina con la collezione di ceramiche (magnifiche) i pochi visitatori ammessi alla visita per guidarli sottovoce verso la camera ardente, una stanza che dev’essere stato uno studio, una volta. Dietro la bara, una grande mappa di Roma antica del 1748, disegnata da Giambattista Nolli. Sul lato opposto, una libreria dominata da una vecchia edizione dell’enciclopedia Treccani, un po’ ingiallita dal tempo. A destra, un’altra libreria con una fila di volumi rilegati in nero, senza scritte, e tre statuette di bronzo: un uccello, un cavaliere, una dea orientale.
E lui era lì, con il rosario avvolto attorno alle dita cui la morte aveva tolto la celebre sottigliezza, la cravatta di Hermes con il nodo spesso e un mazzo di fiori gialli poggiato sui piedi. Disteso nella bara, aveva un’espressione stranissima per lui, che è stato il più potente dei potenti, il custode dei mille segreti. Il capo non era più curvo e neppure dritto, ma rivolto verso l’alto e inclinato un po’ a destra. Così, insieme alla bocca insolitamente socchiusa dava l’immagine indimenticabile di un uomo che alza di scatto la testa per un’ultima, improvvisa domanda: «Perché?».