Marco Travaglio,il Fatto Quotidiano 7/5/2013; Gian Carlo Caselli,il Fatto Quotidiano 7/5/2013;Peter Gomez e Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 7/5/2013; Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 7/5/2013; Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 7/5/2013, 7 maggio 2013
MAFIA, ANDREOTTI ERA COLPEVOLE MA TUTTI IN CORO GRIDARONO: “ASSOLTO”
Lo Stato non può processare se stesso”, diceva Leonardo Sciascia. Senza prevedere che, in una breve e luminosa stagione, quella dei primi anni 90 del XX secolo, lo Stato avrebbe processato se stesso grazie a un pugno di magistrati coraggiosi, raccolti in poche Procure e Tribunali. Fra questi, quelli di Milano e di Palermo. Giulio Andreotti passerà alla storia come l’unico presidente del Consiglio (lo fu per ben sette volte) processato per mafia. Ma come sia finito il suo processo a Palermo, che per questo motivo è il più importante della storia non solo d’Italia, ma del mondo, lo sanno in pochi, e in pochissimi lo sapranno nelle generazioni future. Perché quel processo è stato il banco di prova di una delle più colossali manipolazioni mai viste nella storia dell’informazione.
Le prime rivelazioni sui rapporti di Andreotti con la mafia le raccolgono i pm di Palermo dalla bocca del pentito Leonardo Messina subito dopo l’omicidio del suo luogotenente siciliano, Salvo Lima, nella primavera del 1993. Poi, dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino uccisi con gli uomini delle scorte, si decidono a parlare altri collaboratori di giustizia: Gaspare Mutolo, Francesco Marino Mannoia e Tommaso Buscetta (che già aveva fatto il nome di Andreotti nel 1983 dinanzi ai giudici americani che lo interrogavano sul caso Pizza Connection, ma si era rifiutato di ripeterlo dinanzi a Giovanni Falcone perché “dottore, se parlo di politica ci mettono in manicomio tutti e due”). Seguiti a ruota da un’altra trentina (più vari testimoni, supportati da numerosi riscontri documentali) negli anni successivi. DOPO LE STRAGI DEL ’93
Nel gennaio del ’93 Gian Carlo Caselli arriva a Palermo devastata dalle stragi come nuovo procuratore capo e tira le somme del lavoro svolto dai colleghi. Ce n’è abbastanza per chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere contro Andreotti per 416-bis: “partecipazione all’associazione per delinquere di stampo mafioso denominata Cosa Nostra”. Il Senato, favorevole lo stesso illustre indagato, la concede. E nel 1994, dopo il rinvio a giudizio, inizia il processo del secolo. Dura cinque anni. Nel 1999 l’imputato Giulio Andreotti, che ha presenziato a quasi tutte le udienze, rispettando almeno formalmente il potere giudiziario, viene assolto dal Tribunale di Palermo in base all’articolo 530 comma 2: la vecchia insufficienza di prove, come dimostrano le 5mila pagine di motivazioni. I giudici ritengono provate numerosissime accuse portate in aula dai pm Caselli, Lo Forte, Natoli e Scarpinato, ma non le considerano sufficienti per integrare il reato contestato. Andreotti – concludono – era in contatto diretto con vari mafiosi; incontrò il giovane boss Andrea Manciaracina a quattr’occhi in una saletta d’albergo; visitò Michele Sindona mentre quest’ultimo era latitante; aveva intensi rapporti con Licio Gelli; è addirittura “possibile” il suo incontro del 1980 con il boss Stefano Bontate narrato da Mannoia; è un mentitore professionale, avendo raccontato almeno 21 bugie su aspetti decisivi delle accuse. In particolare: sei menzogne sull’affettuosa amicizia (sempre sdegnosamente negata) con i cugini Antonio e Ignazio Salvo; due sul generale Dalla Chiesa (le stesse testimoniate sotto giuramento al maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino negli Anni 80); una sull’andreottiano mafioso Bevilacqua; due su Ciancimino; dieci su Sindona; due sull’incontro con Manciaracina. Ma le prove contro di lui, alla fine, vengono ritenute contraddittorie o insufficienti per condannarlo.
Poi però, il 2 maggio 2003, la I sezione della Corte d’appello ribalta la sentenza di primo grado, accogliendo in parte il ricorso della Procura e “dichiara non doversi procedere nei confronti dello stesso Andreotti in ordine al reato di associazione per delinquere a lui ascritto al capo A della rubrica, commesso fino alla primavera del 1980, per essere lo stesso reato estinto per prescrizione”. Per il periodo seguente invece è confermata l’assoluzione con formula dubitativa. Dunque Andreotti ha “commesso” il reato di associazione per delinquere con Cosa nostra sino alla primavera del 1980, ma il reato è coperto da prescrizione, appena scattata nel dicembre 2002 (22 anni e mezzo dopo i fatti – primavera del 1980 – e pochi mesi prima della sentenza). E solo perché, essendo incensurato, Andreotti ottiene le attenuanti generiche. E solo perché nel 1980 non esisteva ancora il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, introdotto nel 1982: per l’associazione “semplice” le pene sono più basse e i termini di prescrizione più brevi. La data della primavera 1980 è quella dell’incontro a Palermo (pienamente accertato) fra Andreotti e il boss Stefano Bontate, all’indomani del delitto Mattarella. Ma i giudici ritengono provati anche altri vertici fra il senatore a vita e diversi boss di prima grandezza: lo stesso Bontate (nella primavera-estate 1979 a Catania, dove il boss preannunciò all’uomo politico l’intenzione di assassinare il presidente della Regione, il dc Piersanti Mattarella), Tano Badalamenti (nel 1979 a Roma, per aggiustare il processo a carico di Vincenzo e Filippo Rimi, parenti di don Tano), Andrea Manciaracina (nel 1985, a Mazara del Vallo), mentre non ritengono sufficienti le prove sul presunto incontro con Totò Riina nel 1987. Incontri diretti, dunque, e non solo mediati dai luogotenenti andreottiani in Sicilia, i cugini Nino e Ignazio Salvo (mafiosi doc che Andreotti ha sempre negato di conoscere) e Salvo Lima. Fino al 1980, dunque, l’uomo politico intrecciò “un’autentica, stabile ed amichevole disponibilità verso i mafiosi”. Che non costituisce “una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante”, ma “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo”.
I RAPPORTI DEL SENATORE
Negli Anni 70, fino almeno alla primavera 1980, “la Corte ha ritenuto la sussistenza: – di amichevoli ed anche dirette relazioni del sen. Andreotti con gli esponenti di spicco della c.d. ala moderata di Cosa nostra, Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, propiziate dal legame del predetto con l’on. Salvo Lima, ma anche con i cugini Antonino ed Ignazio Salvo, essi pure peraltro organicamente inseriti in Cosa nostra; – di rapporti di scambio che dette amichevoli relazioni hanno determinato: il generico appoggio elettorale alla corrente andreottiana, peraltro non esclusivo e non esattamente riconducibile a un’esplicitata negoziazione e, comunque, non riferibile precisamente alla persona dell’imputato; il solerte attivarsi dei mafiosi per soddisfare, ricorrendo ai loro metodi, talora anche cruenti, possibili esigenze – di per sé, non sempre di contenuto illecito – dell’imputato o di amici del medesimo; la palesata disponibilità e il manifestato buon apprezzamento del ruolo dei mafiosi da parte dell’imputato, frutto non solo di un autentico interesse personale a mantenere buone relazioni con essi, ma anche di un’effettiva sottovalutazione del fenomeno mafioso (...); – della travagliata, ma non per questo meno sintomatica ai fini che qui interessano, interazione dell’imputato con i mafiosi nella vicenda Mattarella, risoltasi, peraltro, nel drammatico fallimento del disegno del predetto di mettere sotto il suo autorevole controllo l’azione dei suoi interlocutori ovvero, dopo la scelta sanguinaria di costoro, di tentare di recuperarne il controllo, promuovendo un definitivo, duro chiarimento, rimasto infruttuoso per l’atteggiamento arrogante assunto dal Bontate”.
LA SUA AMICIZIA CON I BOSS
Come si traducono questi comportamenti alla luce del Codice penale? “Il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza”. I giudici scolpiscono così, in poche righe, la storia dei rapporti fra Andreotti e Cosa nostra, smentendo preventivamente (e profeticamente) chiunque tenti di gabellare la loro sentenza per un’assoluzione o per una prescrizione che non entra nel merito dei fatti: “L’imputato ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi. In definitiva, la Corte ritiene che sia ravvisabile il reato di partecipazione all’associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di un’esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di un’organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’Isola: a) chieda e ottenga, per conto di suoi sodali, a esponenti di spicco dell’associazione interventi paralegali, ancorché per finalità non riprovevoli; b) incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione; c) intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d) appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e) indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f ) ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi; g) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici – e non meramente fittizi– di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori[...] di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento dell’organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”.
VIA ALLA DISINFORMAZIONE
E allora, fino al 1980, niente assoluzione, ma prescrizione del reato “commesso”, e solo grazie alla concessione delle attenuanti generiche prevalenti, che la accorciano: “Alla stregua dell’esposto convincimento, si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione, il giudizio negativo espresso dal Tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente , siano nel merito fondate le censure dei pm appellanti. Non resta allora che confermare, anche sotto il profilo considerato, il già precisato orientamento ed emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione”. Parole talmente pesanti da indurre gran parte della classe politica (centrodestra, ma anche Margherita, Udeur, Sdi) e l’informazione al seguito a orchestrare la campagna di disinformazione, anzi di sterminio della verità, per ribaltare il verdetto che suona come campagna a morto per tutta la Casta. E spacciare Andreotti come “assolto”, cioè perseguitato ingiustamente dalle toghe rosse palermitane. Dalla commissione Antimafia al Parlamento, su su fino al premier Silvio Berlusconi, che in una celebre intervista al settimanale britannico The Spectator, dichiara: “Andreotti non è mio amico. Lui è di sinistra [sic]. Ma hanno creato questa menzogna per dimostrare che la Dc non era un partito etico, ma vicino alla criminalità. Non è vero. È una follia! Questi giudici sono doppiamente matti! Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. Intanto il caso Andreotti approda in Cassazione: la Procura generale di Palermo ricorre contro l’assoluzione post-1980 e la difesa Andreotti contro la prescrizione pre-1980. Il senatore, almeno lui, la sentenza l’ha letta e capita, dunque chiede di essere assolto con formula piena, ben sapendo che quella prescrizione è un’ombra infamante su gran parte della sua lunga carriera politica. Ma il 15 ottobre 2004 la II sezione penale della Cassazione conferma tale e quale la sentenza d’appello e “condanna l’imputato al pagamento delle spese processuali”. Insomma le macchie restano. E diventano indelebili. Ma ancora una volta la politica e la sottostante “informazione” si attivano immantinente per spacciare la merce avariata dell’ “assoluzione definitiva”. Con annessa beatificazione dell’imputato. Berlusconi, grande esperto in prescrizioni, si dice “molto felice per Andreotti”. Pera si rallegra per la “fine del calvario”. Casini addirittura esulta per la “sentenza liberatoria per le istituzioni”, come se ci fosse qualcosa di liberatorio nell’apprendere che, fino al 1980, un sette volte presidente del Consiglio fu alleato di Cosa nostra. Il Vaticano esprime “grande soddisfazione”. Emanuele Macaluso pubblica sul Riformista un commento dal titolo “Andreotti assolto, il Teorema è finito. Ma ora cancelleranno anche l’infamia?”, in cui parla di “Procura battuta”, di “vicenda politico-giudiziaria iniziata male, molto male dalla Procura di Palermo e chiusa da un verdetto che certamente assolve Andreotti dal reato di associazione mafiosa” Romano Prodi parla di “bella notizia”. Giuseppe Fioroni (ex Margherita ora Pd) si spinge oltre: “Andreotti esce a testa alta da accuse infamanti contro le quali ha usato solo la forza della verità”. Non male, per un imputato che già secondo il Tribunale aveva mentito 21 volte. Di fronte all’ennesima colata di menzogne, Caselli scrive un articolo su La Stampa intitolato “Ma Andreotti è stato mafioso”, per ricordare il contenuto della sentenza appena confermata. Nessuno lo può smentire, sentenza alla mano. Anche perché la sentenza non l’ha letta nessuno. Ma un coro unanime di politici di ogni colore, a Camere unificate, con l’eccezione dei Ds e Di Pietro, lo zittisce come un impiccione importuno. Il laico forzista del Csm Giorgio Spangher propone di trasferirlo lontano da Torino per incompatibilità ambientale e raccomanda di escluderlo dalla prossima corsa per la Procura nazionale Antimafia. Verrà accontentato per legge (poi bocciata dalla Consulta). Il 28 dicembre 2004 arrivano le motivazioni della Cassazione, eccezionalmente firmate da tutti e cinque i membri del collegio. I quali definiscono “logica”, “razionale”, “esaustiva”, “conseguente”, “ineccepibile”, “non censurabile” la sentenza d’appello e ricordano che la prescrizione comporta l’accertamento del reato commesso da Andreotti: “La sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione”. Non sempre è vero che, come diceva Sciascia, lo Stato non può processare se stesso. È vero però che, le rare volte in cui processa se stesso, i cittadini non devono saperlo.
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“PROVE SICURE E RISCONTRATE RIDICOLO PARLARE DI TEOREMA” -
Sul piano umano, la morte merita sempre rispetto. Dell’attività politica del sen. Andreotti non posso parlare perché non ne ho titolo. Posso invece parlare del processo di Palermo, avviato dalla Procura di quella città quando ne ero a capo, che l’ha visto imputato (in estrema sintesi) di rapporti con la mafia. In primo grado c’è stata assoluzione. In appello la sentenza del tribunale è stata parzialmente ribaltata. Mentre per i fatti successivi Andreotti è stato ancora assolto, per quelli fino all’80 è stato dichiarato colpevole, per aver COMMESSO il reato contestatogli. È evidente che chi parla di assoluzione anche per i fatti prima del 1980 è completamente fuori della realtà. Il reato COMMESSO è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente COMMESSO. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello anche nella parte in cui si afferma la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980.
PROCESSUALMENTE è questa la verità definitiva ed irrevocabile. La Corte d’appello (confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e riscontrate. In particolare ha ritenuto provati – con altre decisive parti dell’impianto accusatorio – due incontri del senatore, in Sicilia , con Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri mafiosi dello stesso calibro. Negli incontri (lo dice la sentenza) si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella, capo della Dc siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto a Cosa nostra.
Principale fonte di prova fu il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia (teste oculare di un incontro), un “pentito” rivelatosi sempre analiticamente preciso (già con Giovanni Falcone) e mai smentito. La Corte d’appello sottolinea poi che l’imputato non denunciò le responsabilità dei mafiosi incontrati, “in particolare in relazione all’omicidio di Piersanti Mattarella , malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza”. In conclusione, la Corte d’appello ha ravvisato a carico di Andreotti “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. Fissiamo altri punti: fecero ricorso in Cassazione sia l’accusa che la difesa. Ecco la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu “assoluzione” per i fatti fino al 1980. Mai visto, in oltre 50 anni di magistratura, un imputato che ricorre contro la sua assoluzione. Non esiste.
La prescrizione è rinunciabile, ma l’imputato non lo fece, convinto che sarebbe stato assolto anche per i fatti fino al 1980, ma la Cassazione gli diede torto. La formula “reato COMMESSO” è nel dispositivo della sentenza d’appello. Sono 10 semplici righe. Sarebbe bastato leggerle per cancellare ogni dubbio.
INVECE la verità è stata stravolta o nascosta: il popolo italiano – in nome del quale le sentenze vengono emesse – è stato truffato. Buscetta (che di Andreotti non volle parlare a Falcone: “Sennò ci prendono per pazzi”) in realtà ne aveva già parlato nel 1985 al pm Usa Richard Martin, che confermò la circostanza (sotto giuramento) in pubblica udienza del processo Andreotti. Con il che diventa ridicola qualunque accusa di “teorema”. Con una sorta di distrazione di massa per cancellare la verità, le cronache (invece che sugli incontri con Bontade) si incentrarono pressoché esclusivamente sul “bacio”, che la Corte ritenne non riscontrato ma senza denunciare per calunnia chi ne aveva parlato. Ricorrendone tutti i presupposti, la Procura esercitò l’azione penale, che è obbligatoria. Non farlo sarebbe stato illegale, disonesto e vile. Nessuno quindi ha mai pensato di riscrivere la storia d’Italia. Chi ha nascosto la verità e non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase si è (almeno parzialmente) formato il consenso, ha reso un pessimo servizio alla trasparenza democratica del nostro Paese.
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DALLA P2 A PECORELLI IL SUO NOME NON MANCA MAI -
Chi non vuol far sapere una cosa – diceva Giulio Andreotti – non deve confidarla neanche a se stesso”. È forse l’unica legge che abbia sempre rispettato. Non c’è praticamente scandalo della Prima Repubblica che non l’abbia visto coinvolto, anche se è sempre uscito indenne da tutto: 26 richieste di incriminazione alla commissione parlamentare Inquirente (regolarmente respinte) e due processi penali (mezzo prescritto per mafia; condannato in appello e assolto in Cassazione per l’omicidio Pecorelli).
I banchieri di Dio. Nel1955 è ministro delle Finanze. Il conte Marinotti, patron della Snia-Viscosa, gli presenta Michele Sindona, un fiscalista che ha fatto fortuna nella natia Sicilia commerciando al mercato nero con la mafia e gli Alleati. Andreotti resta colpito dalla sua “genialità”. Intanto non si accorge dei debiti miliardari accumulati da Giambattista Giuffré, “il Banchiere di Dio”: un ex impiegato di banca di Imola che raccoglie risparmi promettendo interessi del 70-100% e li spiega alle Fiamme Gialle come “un miracolo della divina provvidenza”. Ma ha ottimi santi in Paradiso e non succede nulla. Fino al crac. Nel 1958, ad accusare Andreotti in Parlamento per omessa vigilanza provvede il suo successore, il psdi Luigi Preti. Il Divo verrà scagionato da una commissione d’inchiesta.
Banane & aeroporti. Nel ‘64 salta fuori una truffa che, in barba alle gare d’asta, permetteva di assegnare la commercializzazione delle banane a imprese amiche. Finisce nei guai l’ex ministro dc Trabucchi. Ma l’Ad dei Monopoli Banane è un raccomandato di Andreotti. Lui, sulla sua rivista “Concretezza”, ricorda l’esempio di Di Nicola che mai raccomandò nessuno, ma poi elogia l’arte del “nobile interessamento”, “routine pesante non priva d’incomprensioni e amarezze. Onore a Di Nicola, ma anche a quanti servono il prossimo in un modesto contatto umano”.
A proposito di pie raccomandazioni, fa molto chiacchierare la vicenda del nuovo aeroporto di Fiumicino, costato decine di miliardi più del previsto, costruito su aree dei Torlonia e affidato per la progettazione al col. Giuseppe Amici, condannato per collaborazionismo col fascismo. Una commissione parlamentare criticherà Andreotti: ordinò accertamenti su Amici, ma poi in Senato riferì gli esiti “affrettatamente”, coprendo le sue responsabilità.
Golpe & dossier. Agli anni di Andreotti alla Difesa risalgono le manovre golpiste del generale De Lorenzo. E le schedature del Sifar su 150mila cittadini. Compreso Scelba, “reo” di avere un’amante. Due colonnelli dell’Arma lo informano di avere indagato sulla sua vita privata e lui apostrofa il Divo in piena Camera : “È vero che stai indagando su di me?”. Lui naturalmente nega. Così come negherà di aver saputo qualcosa delle manovre di De Lorenzo e del Sifar. Pietro Nenni nei suoi diari si domanderà: “E allora, a chi faceva capo il Servizio?”.Proprio al Divo spetta far distruggere i fascicoli del Sifar nell’inceneritore di Fiumicino. Invece qualcuno li fotocopia e li passa a Gelli, che li nasconde all’estero per ricattare tutto e tutti. Nel ’66 Andreotti lascia la Difesa per l’Industria: per traslocare il suo archivio vengono mobilitati sei camion militari.
Petroli/1. Nel 1973 tre pretori di Genova – Almerighi, Brusco e Sansa – scoprono che dal 1966 il Parlamento ha approvato sgravi fiscali ai petrolieri in cambio di tangenti ai partiti di governo: 13 miliardi in sei anni. Tra i beneficiari c’è Andreotti, il cui nome in codice (“Andersen”) viene ritrovato nel taccuino dell’ufficiale pagatore dell’Unione Petrolifera. L’Inquirente archivia, cioè insabbia.
Bombe & bobine. Nel ’74 Andreotti torna alla Difesa. Il generale Maletti del Sid indaga sul golpe Borghese del 1970 e gli consegna un rapporto di 56 pagine. Lui riferisce al Parlamento, ma il giornalista Mino Pecorelli l’accusa di aver alleggerito il “malloppo” trasformandolo in “malloppino”. Il capitano Labruna racconterà che a fine luglio ‘74, in una riunione nello studio del Divo, si era deciso di tagliare dalle bobine degli interrogatori le parti in cui si citavano Gelli e altri fedelissimi di Andreotti coinvolti nel golpe. C’è poi il mistero di Guido Giannettini, il giornalista legato alla destra eversiva e al Sid, vicinissimo al Divo. Che però lo smaschera con una clamorosa intervista. Le sue reticenze al processo sulla strage spingono i giudici a chiedere all’Inquirente di indagarlo per falsa testimonianza. Invano.
Petroli/2. Nel 1974 i ministri della Difesa, Andreotti, e delle Finanze,Tanassi (Psdi) nominano il generale Raffaele Giudice comandante della Guardia di Finanza. Si scoprirà poi per la sua nomina i petrolieri hanno pagato tangenti a Dc, Psi e Psdi. E che Andreotti ha ricevuto varie lettere di raccomandazione pro Giudice dal cardinal Poletti. Giudice, iscritto alla P2, blocca subito le indagini su un mega-contrabbando di combustibili che ha causato un’evasione fiscale per 2mila miliardi. La Procura di Torino chiederà all’Inquirente di processare Andreotti per interesse privato. Richiesta respinta.
A Fra’ che te serve? Nel 1975 i fratelli palazzinari Gaetano, Francesco e Camillo Caltagirone, alla canna del gas, ottengono prestiti dall’Italcasse (noto feudo Dc) per 209 miliardi. Sono intimi di Andreotti ed elemosinieri della sua corrente. Pecorelli minaccia di pubblicare le fotocopie di una serie di assegni “consegnati brevi manu” al Divo. Nel 1979 verrà ucciso: delitto senza colpevoli.
Sindona, mafia e P2. Nel 1973, all’hotel Woldorf Astoria, davanti al gotha della mafia italo-americana, Andreotti celebra Sindona come “il salvatore della lira”. Il banchiere ricambia, finanziando la campagna referendaria Dc contro il divorzio. Un anno dopo fa crac. Elabora un piano di salvataggio che costerebbe ai contribuenti italiani 257 miliardi. E inizia a ricattare la Dc e Andreotti, che lo appoggia e lo incontra durante la latitanza. Ma la Banca d’Italia, col governatore Baffi e il vicedirettore Sarcinelli, si oppone. E così il commissario liquidatore della Banca Privata, Ambrosoli. Nel 1979 i giudici di Roma arrestano Sarcinelli e incriminano Baffi con accuse false. E un killer della mafia uccide Ambrosoli. Che, sulle sue agende, annotava: “Andreotti è il più intelligente della Dc, ma il più pericoloso”, “Andreotti vuol chiudere la questione Sindona a ogni costo”. Nei diari di Andreotti, Ambrosoli non è mai citato. “Ambrosoli se l’è cercata”, dirà Il Divo. Nel 1984 la Camera discute delle sue responsabilità politiche nel caso Sindona. L’aula è semideserta. Il Pci si astiene. Andreotti è salvo. Due anni dopo Sindona muore per un caffè al cianuro.
Gelli ed Eni-Petromin. Il 17 marzo 1981 i giudici milanesi Turone e Colombo scoprono gli elenchi (incompleti) della P2: 962 persone, fra cui molti fedelissimi di Andreotti. I giornali ne parlano dal ’74. Marco Pannella, nel ‘77, ha rivolto un’interrogazione ad Andreotti per sapere se avesse ricevuto Gelli a Palazzo Chigi. Ma lui ripete di aver conosciuto Gelli solo di vista, negli Anni 50, all’inaugurazione della Permaflex di Frosinone. Bugia smentita da vari testimoni. Tra le carte sequestrate al Venerabile, i numeri di telefono di Andreotti e uno strano bigliettino di auguri del Divo: “Siate come l’uccello posato per un istante su dei rami troppo fragili, che sente piegare il ramo e che tuttavia canta sapendo di avere le ali”. Clara Canetti vedova di Roberto Calvi rivelerà che secondo il marito era Andreotti il vero capo della P2 (e aveva subìto “minacce di morte direttamente da Andreotti”, prima di finire impiccato a Londra). Tesi ripresa anche da Craxi nell’articolo “Belfagor e Belzebù”. Lo scontro fra Bettino e Giulio risale all’affare Eni-Petromin: un megacontratto concluso nel 1984 dal governo Andreotti per importare petrolio dall’Arabia Saudita, con tangente del 7% (100 miliardi) gli andreottiani e alla sinistra Psi ostile a Craxi per scalzarlo dalla segreteria.
Le ombre Moro e Dalla Chiesa. Nel 1982 il generale Dalla Chiesa viene inviato a Palermo come prefetto. Lì, abbandonato da tutti, viene ucciso da Cosa Nostra dopo 100 giorni. Nel suo diario ricorda l’ultimo incontro con Andreotti: “Andreotti mi ha chiesto di andare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia si è manifesta per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato cui attingono i suoi grandi elettori … Il fatto di raccontarmi che intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo morto in America è giunto in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso”. Nel 1986 Andreotti sarà interrogato come teste al maxi-processo. E smentirà il diario di Dalla Chiesa: il generale “dev’essersi confuso”. Nel 1990, durante i lavori di ristrutturazione di un covo milanese delle Br perquisito nel ‘78 dagli uomini di Dalla Chiesa, vengono ritrovate 400 pagine di documenti del sequestro Moro: lettere inedite e una copia del memoriale già consegnato ai giudici dall’Arma 12 anni prima. Pecorelli aveva insinuato che il documento fosse incompleto. Ora c’è la conferma: il nuovo memoriale contiene riferimenti a Gladio e accuse durissime ad Andreotti. Nel‘92 è proprio Cosa Nostra, col delitto Lima e la strage di Capaci, a sbarrargli la strada verso l’agognato Quirinale. E a trascinarlo davanti ai tribunali degli uomini. E poi a quello della Storia.
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“A FRA’ CHE TE SERVE?”, IL CERCHIO MAGICO DI GIULIO -
Testa china e spalle deformate dalla famosa gobba, Giulio Andreotti ha sempre ricordato un cardinale che porta il Santissimo in processione, come intuì già nel 1955 Leo Longanesi. Ed è per questo che avendo le mani così occupate sono stati i suoi fedelissimi a sporcarsele per lui, nelle tenebre senza fine del potere andreottiano. A partire dal suo storico braccio destro Franco Evangelisti. All’inizio degli anni ottanta, Paolo Guzzanti intervistò Evangelisti, allora ministro della Marina mercantile, per Repubblica. Gli chiese: “Ministro, lei ha preso soldi da Caltagirone?”. I Caltagirone erano e sono una grande famiglia di palazzinari romani. Lo sventurato Evangelisti rispose: “Sì, da Gaetano. E chi se lo ricorda quanti. Ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: ‘A’ Fra’, che te serve?’”. Guzzanti non mollò la presa: “E lei che faceva?”. Evangelisti: “Io? Niente. Pigliavo la penna e ci mettevo sopra il mio nome a stampatello, perché Gaetano il mio nome non lo metteva: lo lasciava sempre in bianco”. Gli assegni servivano a finanziare corrente e campagne elettorali. Un anno fa, Guzzanti ha aggiunto un dettaglio inedito. Disse Evangelisti, sempre in romanesco: “A’ Guzza’ fidete, qua rubbamo tutti”.
L’intervista fu letale per il ministro fedele nei secoli al Divo Giulio. Dette le dimissioni e la sua vicenda gettò un po’ di luce sul tratto romano del potere allo stesso tempo più feroce ed ordinario della Prima Repubblica, quello andreottiano.
IN CASA CALTAGIRONE, una sera, furono ospiti per un ricevimento Andreotti, Vincenzo Scotti, Flaminio Piccoli, Giovanni De Matteo capo della Procura di Roma (il sinistro porto delle nebbie, garanzia d’insabbiamento), i magistrati Claudio Vitalone (portavoce andreottiano in Procura, poi senatore) e Renato Squillante, il comandante della Guardia di finanza Raffaele Giudice, piduista e protagonista dello scandalo petroli. Una scena tetra e degna di Todo Modo: il film simbolo della Dc come male assoluto, ispirato dal libro di Leonardo Sciascia e all’insegna dell’ambiguo motto gesuitico: “Todo modo para buscar la voluntad divina”. “Ogni mezzo per realizzare la volontà divina”, anzi democristiana. Di milioni di lire, Evangelisti, ambasciatore del capo pure presso Michele Sindona, ne maneggiò davvero tanti. Compresi i trenta versati per comprare il silenzio del giornalista Mino Pecorelli, l’inventore del nomignolo “Divo Giulio”. In cambio, la sua rivista, OP, rinunciò a pubblicare in copertina alcuni assegni andreottiani girati allo spione del Sid Guido Giannettini. Pecorelli, poi, venne ucciso nel 1980. Occhi sporgenti e colorito giallo, Evangelisti fu il primo costruttore della corrente andreottiano. Erano in cinque, nel 1954. Lui, Andreotti, Amerigo Petrucci, Nicola Signorello e monsignore Fiorenzo Angelini. Fu l’incipit del radicamento dell’andreottismo a Roma e nel Lazio. La corrente aveva il nome dato alle giovanili delle squadre di calcio: “Primavera”. Come però ha spiegato Paolo Cirino Pomicino, proconsole del Divo Giulio a Napoli e in Campania (originariamente in tandem con Enzo Scotti), gli andreottiani non sono mai stati una vera corrente. Piuttosto una federazione di potentati regionali: “Come capocorrente Andreotti è sempre stato un flop. Era così preso dalle attività di governo e dai problemi internazionali che non aveva tempo e voglia di occuparsi delle alleanze con i dorotei o delle nomine dei presidenti di commissione. Per questo atteggiamento la corrente andreottiana è stata un grande esempio di federalismo: nel Lazio comandavano Nicola Signorello e Franco Evangelisti, in Sicilia Salvo Lima, in Campania Enzo Scotti e io, in Piemonte Vito Bonsignore, in Veneto Settimo Gottardo, in Toscana Tommaso Bisagno, in Emilia Nino Cristofori, in Lombardia Luigi Baruffi”. Pomicino ha raccontato anche il suo primo incontro con Andreotti, che dà la cifra quasi mediocre di un uomo enigmatico e dal cinismo leggendario: “Mi diede subito l’impressione di una straordinaria normalità. Infatti non ricordo nulla di quello che ci disse quel giorno. E allora perché quest’uomo di straordinaria normalità, poco abile nei giochi di partito, più salottiero nell’eloquio che trascinatore di folle è diventato così potente?”.
LA RISPOSTA è nei tre pilastri dell’andreottismo, vangelo puro nel clan di Belzebù: i rapporti internazionali, l’appoggio dei papi e della curia vaticana, il legame con l’amministrazione dello Stato. Quello dei grand commis, infatti, costituiva un dossier che Andreotti seguiva in prima persona. Non a caso è lo schema perpetuato dall’andreottismo della Seconda Repubblica, con la benedizione di Silvio Berlusconi. Ossia la “ditta” di Gianni Letta e del faccendiere pregiudicato Luigi Bisignani, piduista evoluto nella P4. Gestionismo e tirare a campare, sempre nel segno di Todo Modo. Un altro esempio di questo legame vitale ed eterno sono i governi tecnici, vera oasi per gli andreottiani erranti della Pubblica amministrazione. Nel governo Dini del ribaltone, anno 1995, c’erano tanti devoti del Divo Giulio: lo stesso premier, i giudici Filippo Mancuso e Antonio Brancaccio, il generale Domenico Corcione, Gaetano Rasi e Piero Giarda. Quest’ultimo è stato ministro con Monti. Le prime parole di Giarda furono queste: “Ascolterò tutto e tutti, sono andreottiano”. Finanche nelle orecchie a sventola. Un caso a parte è l’ex senatore del Pdl, fascista dichiarato, Giuseppe Ciarrapico: è stato missino e andreottiano allo stesso tempo. Nella mappa pomiciniana della corrente federalista manca un nome che ancora fa incazzare i sopravvissuti dell’ortodossia andreottiana. Quello del romano Vittorio Sbardella, che Giampaolo Pansa soprannominò lo Squalo. Ex fascista che sognava un nuovo compromesso storico, Sbardella è stato il volto dell’andreottismo romano e laziale dopo Evangelisti. Con lui, Andreotti divenne ciellino, star indiscussa dei Meeting di Rimini. Lo sbardellismo è stato vorace, incurante dell’invisibilità di altri andreottiani. La Capitale era in mano a “Vittorione”, il tesoriere Giorgio Moschetti alias il Biondo e Pietro Giubilo detto il Monaco. Giubilo fu sindaco della città, così come il professore Enrico Garaci, che si guadagnò l’appellativo di “Signor Nessuno”. Sbardella ruppe con la corrente nel ‘92, dopo la nomina di Andreotti a senatore vita. Lo stesso Divo Giulio sentenziò alla cena dei festeggiamenti: “Adesso siete sciolti da tutti gli obblighi”.
SBARDELLA AVEVA denti da Squalo, Salvo Lima, invece, d’acciaio. Glielo dissero un giorno, nel 1957: “Tu come dentrificio adoperi il Sidol per i tuoi denti d’acciaio”. Con Lima e Ciancimino a Palermo, i cugini esattori Nino e Ignazio Salvo, Nino Drago a Catania, l’andreottismo entra in quella zona grigia dove mafia e politica s’incontrano e che ha mascariato Andreotti in modo indelebile. A Palermo c’era il più alto tasso mondiale di sedi di partito: 48 sezioni della Dc. Lima fu ammazzato nel marzo del ‘92. Un avvertimento delle cosche per i patti non mantenuti. Fino a ieri, Andreotti è sopravvissuto anche a Lima.
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“UN’ALLUSIONE INATTESA E SPALANCAVA PORTE CHIUSE A TUTTI GLI ALTRI” -
Era presto, di mattina. Nello studio le tende erano tirate e dominava la penombra”. Del suo primo incontro con Giulio Andreotti, diventato applaudito dipinto cubista in quel di Cannes, sempre a maggio, proprio cinque anni fa, Paolo Sorrentino ricorda l’ambigua luce della fotografia d’insieme. “La grande gentilezza”. L’equivoco durato il soffio dei convenevoli: “Credeva volessi acquistare i diritti di un libro e si affrettò a dirmi che li aveva già comprati Carlo Lizzani”. Il muro di cinta eretto una volta intuito che un ragazzo di 38 anni, mentre era ancora in vita, si proponeva di raccontarne nel “Divo” 50 anni di incontrastata reggenza. “Parlò per tre ore senza dire nulla di veramente importante”.
Abilità innata.
Aveva un tono tenue, calmo, riflessivo: “Se trascorresse qualche giorno con me rimarrebbe deluso. Capirebbe che ho una vita normalissima, incapace di lasciare tracce significative”. Conversava amabilmente, minimizzava il suo ruolo nella Storia italiana e poi, all’improvviso, con un’allusione inattesa, spalancava porte di mondi a cui era evidente che i comuni mortali non avessero accesso.
Vi incontraste anche una seconda volta.
In maniera più formale e per certi versi meno rilassata. Andreotti credeva che non avremmo mai realizzato il film. Era scettico.
Invece il Divo arrivò, vinse il Premio della Giuria a Cannes e irritò l’oggetto dell’indagine: “È una mascalzonata” disse Andreotti.
Non avevo nessuna intenzione di fare un film ideologico ed è ovvio che in una narrazione su Andreotti, con le sue reti intricatissime di date, ipotesi, deduzioni e controdeduzioni, per sbilanciare il quadro bastava una scena, un taglio di montaggio in più o in meno, una scelta. Forse venne disturbato da alcuni aspetti, ma nel complesso protestò blandamente. Non si muovono i fili del Paese per mezzo secolo senza imparare l’arte di sopire qualsiasi rumore di fondo.
Nell’impermeabilità, come in molti altri aspetti, Andreotti non aveva rivali.
La filosofia era lasciarsi sfiorare dalle cose senza turbamenti. Era un uomo molto contraddittorio, baciato dalla rarissima abilità di farsi amare anche in virtù delle sue stesse contraddizioni. Sapeva essere riservato e mondano, concreto e idealista, sottile e popolare fino a sfiorare, senza mai toccarli davvero, i territori del trivio. In Andreotti convivevano molte anime, nel “Divo” provai a restituire le apparenti incoerenze di una persona e di una personalità indecifrabili.
In un monologo particolarmente duro, Andreotti si assume crude responsabilità sulle pagine più nere della Repubblica. “Abbiamo un mandato divino”. E anche: “Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo”.
Erano frasi mie, ovviamente. Andreotti non le aveva mai pronunciate, ma a me sembrava che il solo fatto di detenere il potere, di gestirlo, di raffrontarsi alla sua complessità e alle sue ramificazioni, contenesse al suo interno la possibilità di peccare. Di sbagliare. Di assumere decisioni controverse. Di avere a che fare con il male.
Sembrava eterno, Andreotti.
Da alfiere di una politica conservatrice, in cui l’immobilità delle cose era un valore tutto sommato avvertito come più fresco e vivo della novità, Andreotti era diventato un monumento. E i monumenti, quando resistono a epoche caotiche e movimentate, sono indistruttibili. Inamovibili. Danno l’idea di esistere da sempre.
E di essere quasi invisibili.
Andreotti divenne molto presto il più misterioso degli uomini pubblici. Silenzioso. Presente, ma assente. Preciso. Laconico. Imperturbabile. C’era e non c’era. Scriveva e fondava le trame della Prima Repubblica senza mostrarsi inutilmente.
Una specie di J. D. Salinger senza giovinezza.
Sceglieva le occasioni. Conduceva una vita riservata. Alla creazione del mito e all’infittirsi del mistero non fu estranea e anzi contribuì la sua fisicità. Poteva rivelarsi una risorsa e lui, che era intelligentissimo, lo capì fin da giovane. All’epoca, solo per dare i parametri di una vicenda sterminata, lavorava come sottosegretario di De Gasperi con delega al cinema. Parliamo di fine anni 40.
Che cosa rappresenta la scomparsa di Andreotti?
L’ultimo grande vecchio, l’incarnazione del potere. La guida di una politica diversa e distante ere geologiche da quella odierna. Era il testimone e l’apostolo di un’arte di palazzo che per quanto criticabile, dubbia e anche sordida, conteneva nel suo nucleo qualche valore smarrito che sarebbe bello ritrovare.
Addirittura da rimpiangere?
C’era una forma i cui confini non dovevano essere travalicati né traditi ed esisteva, al di là delle ipocrisie e delle convenienze di parte, una prospettiva in cui cultura politica, grandi scuole, idealità e divergenze erano fonte di confronto e arricchimento. Di tutto questo non c’è più nulla. Della ditta, Andreotti era l’ultimo rappresentante.