Paolo Guzzanti, il Giornale 7/5/2013; Mario Cervi, il Giornale 7/5/2013; Vittorio Sgarbi, il Giornale 7/5/2013; il Giornale 7/5/2013, 7 maggio 2013
QUEL ROMANO COSI’ «BRITISH» CHE TRAFIGGEVA CON L’IRONIA
Era un rampollo della Roma borghese dignitosa e quasi spartana, orfano al collegio di via degli Orfani, dove sua madre Rosa diventò amica di mia nonna Amelia che aveva suo figlio, mio zio, nello stesso istituto. Così dispongo di alcune testimonianze sul bambino Andreotti, sempre vestito di vellutino nero e con il taccuino da giornalista in tasca, il giornalista come gioco. Sua madre commentava: «Questo figlio non mi sembra normale. O diventa qualcuno, oppure avrà una vita difficile». Diventò qualcuno, come sappiamo. Apparteneva ad una tipologia romana molto lontana da quella resa dal cinema, da Alberto Sordi o da Verdone. Andreotti apparteneva al genere cattolico, ironico, dotato di un understatement naturale, qualcosa di molto simile allo spirito britannico, mai urlato, mai enfatico, sempre molto pratico e molto distaccato. Io l’ho conosciuto in tre momenti diversi: quando frequentava la casa dei miei genitori che erano suoi amici strettissimi mentre io lo detestavo; quando diventò una delle mie prede giornalistiche e quando ci ritrovammo insieme nella Commissione Mitrokhin di cui io ero il presidente e lui uno dei quaranta componenti. Era sempre lì, in prima fila, puntuale e immobile, così come era sempre lì in prima fila, puntuale e immobile al Senato dove il suo sedile e il suo schienale appaiono ancora oggi lisi perché Andreotti aveva un senso del dovere, della presenza, della meticolosità, che non ho mai visto in alcun altro politico. Era sempre lì prima degli altri. Attento, l’aria stupita, mille foglietti per i suoi appunti, sempre in frenetica e minuta attività.
Amava i pettegolezzi, ma gli piaceva ascoltarli e registrarli nella mente. Amava anche l’avventura in politica e sullo scacchiere della politica estera. Restava impassibile di fronte ai problemi più gravi e la sua reazione istintiva consisteva nel ridurre i problemi di una banalità sconcertante, ma praticava la formula della riduzione in frammenti perché sapeva che ogni singolo frammento, preso a sé, poteva essere inglobato in un mastice colloso e poi neutralizzato. Era dunque un artista del rinvio, ma non perché volesse evitare le soluzioni, quanto piuttosto perché sapeva che non ci sarebbe stata mai alcuna soluzione.
Penso che questo modo di fare abbia contribuito a fargli fare alcuni passi falsi, come quello di lasciarsi un po’ troppo avvicinare in Sicilia da uomini chiacchierati. Dubito che Totò Riina lo abbia davvero baciato, ma penso che se si fosse trovato di fronte a una simile circostanza, avrebbe voluto vedere come andava a finire, per curiosità.
Aveva sviluppato, come Cossiga, una sorta di sindrome di Stoccolma nei confronti dei comunisti e dei sovietici. Con loro si trovava bene, a suo agio. Cosa comune a molti democristiani. Ricordo di aver accompagnato Amintore Fanfani in un lungo viaggio in Oriente e mi accorsi che in ogni aeroporto russo veniva accolto come un dio. Lo stesso avveniva per Andreotti. Da uomo degli americani che era all’inizio, diventò per indole un antiamericano discretamente ostile al mondo statunitense. Fu lui, prima ancora di Craxi presidente del Consiglio, a creare le premesse per lo scontro di Sigonella nell’ottobre del 1985, ma senza darlo a vedere. Lasciò che Craxi si esponesse al suo posto. Stimava Craxi, che di lui diceva che «tutte le volpi finiscono in pellicceria». Si circondava di gente plebea come tutti gli aristocratici romani. Il suo fedele scudiero Franco Evangelisti- «A Fra’,che te serve?»-era un cronista delle palestre di boxe della periferia romana e lui ne fece il suo braccio destro e il suo plenipotenziario nella trattativa con Enrico Berlinguer, finché quello non fu atterrato da un’intervista che concesse proprio a me e che segnò la sua fine. Evangelisti mi raccontò come funzionavano le mazzette sparse a piene mani fra i partiti e si dovette dimettere da ministro della Marina Mercantile. Quando incrociò Andreotti davanti a Montecitorio, Giulio si dice abbia sibilato soltanto «imbecille».
Ma aveva una sua profonda conoscenza della macchina statale e coltivava un profondo rispetto, direi sacrale, per la Repubblica e le istituzioni. Le sedute dell’assemblea Costituente lo videro giovane segretario d’aula e i suoi modi pacati e competenti incantarono Alcide De Gasperi che lo volle come suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio a soli ventotto anni. De Gasperi veniva da un mondo lontanissimo: era stato per anni deputato della provincia asburgica trentina a Vienna ed era un uomo lontano anni luce da quel ragazzo della buona borghesia romana,in confidenza con i pretie con l’associazionismo cattolico, un po’ monsignore e un po’ apostata per il piacere di mettersi di traverso e stupire.
Le sue foto degli anni Cinquanta e Sessanta lo mostrano presentissimo nei ristoranti, al teatro, sui set cinematografici. Era molto amico di Federico Fellini il quale a sua volta l’adorava, come lui stesso mi disse: «Andreotti è lo spirito della Roma politica e della sensibilità romana, è un uomo competente di cinema e di televisione, è un uomo che capisce e che non parla mai a sproposito. Preferisce non dire nulla, piuttosto che parlare di ciò che non sa». Gli album lo mostrano con tutti gli attori e le attrici dell’epoca d’oro di via Veneto e della «dolce vita». Era capace di stupirsi e lo faceva sgranando gli occhi in modo infantile, quasi irresistibile. Parlava con circospetta prudenza della morte, come se avesse timore ad evocarla e quando qualche mese fa fu ricoverato per una serie di problemi cardiaci, lo divertì sapere che tutti i giornali si erano affrettati a preparare il«coccodrillo», l’articolo bello e pronto in caso di morte di cui sono ricchi gli archivi di ogni redazione: «Il cielo può attendere» fu il suo commento.
Quando si è diffusa ieri a mezzogiorno la notizia della sua morte mi è tornato in mente lui seduto sul banco della Commissione dove arrivava sempre con largo anticipo. Eravamo spesso soli lui ed io e lui mi chiedeva notizie di mia madre: «Come sta mammà?» diceva all’uso romano derivato dall’occupazione napoleonica e dall’introduzione dialettale di radici francesi come maman, commode, tiroir e infatti diceva «tiretto» per dire cassetto, come avevo sentito dire soltanto a mia nonna. E gli piaceva rivocare la stagione dell’infanzia fra le strade del rione Parione, dietro piazza Navona dove aveva abitato per decenni e dove abitava anche la mia famiglia. Poi arrivavano gli altri commissari, ognuno rientrava nel suo personaggio e Giulio Andreotti diventava un mio ostico e caustico avversario. Così per quattro anni durante i quali ho capito piuttosto bene la fibra del personaggio che è scomparso ieri chiudendo un’epoca ormai conclusa per sempre, consegnata ai libri di storia, alle memorie, alla fossa comune del tempo.
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ADDIO ANDREOTTI, ASSO DELLA POLITICA E STATISTA MANCATO -
Quando si accennava alla sua vecchiezza, Giulio Andreotti diceva di sentirsi in prorogatio : in linguaggio calcistico un tempo supplementare che la provvidenza gli aveva concesso. La prorogatio è finita, e l’uomo che ha impersonato al meglio il peggio della politica italiana deve affrontare la postuma ondata dei ricordi, dei rimpianti, dei giudizi, delle accuse. Il divo Giulio, che fu durante sette decenni una presenza costante sulla scena pubblica, parlava spesso della morte, anche della sua. Nella introduzione a uno dei numerosi «Visti da vicino» aveva ipotizzato l’opportunità d’una biografia autorizzata che lo riguardasse, e della quale per maggiore sicurezza lui stesso fosse autore: ad evitare o almeno a controbilanciare le malignità dei molti detrattori. Cito. «L’autobiografia, in fondo,è anche un’assicurazione sulla morte. Ad evitare che, senza che abbiate più la possibilità di reagire, qualcuno vi attribuisca virtù mai avute e vi addebiti ingiustamente atti e comportamenti negativi, magari ignorando quel che di voi andava deplorato».
Non eviterà. La sua esistenza, così lunga e così densa d’avvenimenti, si presta a tutto. Alle sperticate lodi commemorative e alla spietata damnatio memoriae.
Credo tuttavia che nessuno potrà negare ad Andreotti quella che è stata la sua qualità più evidente: una capacità di lavoro quasi sovrumana, protagonista di innumerevoli incontri nazionali e internazionali non s’è mai presentato anche a uno solo senza avere letto e valutato le carte. Non ha lasciato senza risposta neppure una lettera, a molto rispondendo con biglietti vergati nella sua scrittura minuta e chiarissima, una scrittura antica. Di questa assiduità epistolare ho avuto più volte prova personale nei commenti a qualche mia nota che lo riguardava. Poiché recensendo un suo libro avevo affermato, riferendomi ad alcuni passaggi, che la sua penna era a volte intinta nel veleno, m’aveva ironicamente promesso d’intingerla, da allora in poi, nel miele. Dalle voci che correvano su un Andreotti Belzebù, avvelenatore in senso figurato o forse addirittura in concreto, Montanelli aveva tratto spunto per un controcorrente in cui lodava il coraggio di Craxi. Durante un discorso di presentazione del suo governo alla camera Craxi aveva due volte fatto cenno di voler bere; per due volte Andreotti, ministro, gli aveva porto il bicchiere colmo d’acqua, e per due volte Craxi aveva bevuto.
Autore molto popolare e molto lodato, Andreotti aveva in realtà - secondo Montanelli e secondo me- una prosa un po’ legnosa e burocratica. Ma raccontava sempre cose interessanti, e inseriva nelle pagine notazioni folgoranti. «Non è un umorista, è un battutista» sosteneva Indro. Aggiungo un piccolo particolare a questi cenni editoriali. Uno dei libri della Storia d’Italia Montanelli-Cervi avrebbe dovuto essere intitolato «L’Italia di De Gasperi». Ma l’editore Rizzoli, che aveva appena mandato in libreria un volume di Andreotti su De Gasperi, ci pregò di cambiare. E il libro si chiamò «L’Italia del miracolo».
Andreotti non può avere, a mio avviso, la qualifica di statista. Dello statista gli mancavano l’altezza della visione, il fervore d’un progetto, all’occorrenza l’audacia del rischio. Caratteristiche, ad esempio, di un Cavour. La sua filosofia di governo era condensata nella frase secondo cui «è meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Andreotti è stato la quintessenza del politico, se volete del politico politicante, disinvolto fino al cinismo. Ma che livello, il suo, se confrontato con quello d’altri attuali esponenti della Nomenklatura. Era colto, d’una cultura vera, non quella imparaticcia cui deputati e senatori attingono occasionalmente per simulare d’essere ciò che non sono. Ha dimostrato eccezionale pazienza nel subire con compostezza un insistente calvario giudiziario, l’alternarsi di condanne e assoluzioni per reati gravissimi. Un giorno mi disse che senza i diritti d’autore non avrebbe potuto sostenere le spese legali dei numerosi processi, solo le copie di quelle migliaia o decine di migliaia di pagine costavano una fortuna.
Tanti esponenti del mondo politico e tanti italiani comuni hanno pensato e continuano a pensare tutto il male possibile di Giulio Andreotti. Per questo riguardo messo un po’ in imbarazzo dal famoso detto secondo cui a pensar male si fa peccato, ma il più delle volte s’indovina. Fu costante bersaglio del sistema mediatico - nel cinema, nella televisione, nei quotidiani - peraltro assecondandolo. Si prestò nel film Il tassinaro con Alberto Sordi a una comparsata che il banchiere Cuccia avrebbe di sicuro disdegnato. Credo che la sua fede religiosa, un po’ ostentata nella ritualità, fosse autentica, e che Montanelli fosse stato malizioso osservando che «De Gasperi dialogava con Dio, Andreotti col prete». Comunque Andreotti non se ne adontò, dialogare col prete non era per lui, universitario cattolico già in tempo fascista e frequentatore assiduo dei palazzi vaticani, un difetto, era un pregio. E osservò sommessamente che a lui il prete rispondeva, quasi sospettando che Dio non rispondesse a De Gasperi.
Nel lascito di Andreotti c’è tutto. La diga democristiana del 18 aprile 1948 e degli anni successivi contro la minaccia comunista, la diffidenza per il centrosinistra, poi la «non sfiducia» berlingueriana, infine i voti contrastanti, da senatore a vita sul governo Prodi: cui una volta diede la fiducia, e un’altra la negò. Le contraddizioni imbarazzavano un De Gasperi, non un Andreotti. Sulla cui figura i moderati italiani, a cominciare da Silvio Berlusconi, furono e ritengo siano tuttora lacerati. Come ideologo e militante dell’anticomunismo -nei tempi della guerra fredda- Andreotti merita la loro approvazione. Ma poiché personificava la prima Repubblica corrotta, volubile, instabile, rissosa, cancellata da Tangentopoli fu un modello da rifiutare. Molti frequentatori del Palazzo si sono proclamati eredi della Dc, auspicandone la resurrezione. Probabilmente Andreotti, che aveva grande fiuto politico, non ha mai condiviso queste speranze. La prima Repubblica è morta, la Dc è morta, adesso è morto anche il loro campione, passato dal prete a Dio.
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ANDREOTTI MUORE VIVE L’ODIO -
Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente ieri, 6 maggio 2013; l’altra, moralmente e politicamente, vent’anni fa il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell’Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l’Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l’ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell’Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell’occupazione francese.
La matrice della violenza era chiara.Dopo l’indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall’Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l’assassinio di Aldo Moro (ma già allora l’obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l’interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall’accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante. L’inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un’ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti. Così, con perfetto coordinamento, l’azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell’Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent’anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell’odio.
Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all’università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di poterlo processare veramente, da magistrato.
La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Ilprocesso allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare.
Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni. Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l’attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l’omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso. Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero.
Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall’ 80 al ’92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata. Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia.
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L’ARCHIVIO DEI MISTERI CON 3.500 FALDONI -
Leggendario come il suo proprietario:è l’archivio di Giulio Andreotti. «I segreti li aveva, e se li è portati con sé. Chi è un uomo se li porta dietro», ha detto Licio Gelli. Quei segreti sono custoditi nei 3.500 faldoni (200 dedicati al Vaticano) che costituiscono l’archivio del «Divo Giulio», il più temuto d’Italia. È chiuso nel caveau blindato dell’Istituto Don Sturzo,dove i principali esponenti della Dc hanno lasciato le carte. Andreotti l’ha alimentato quotidianamente e naturalmente non è consultabile dal pubblico.