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 2013  maggio 07 Martedì calendario

QUEL ROMANO COSI’ «BRITISH» CHE TRAFIGGEVA CON L’IRONIA

Era un rampollo della Ro­ma borghese dignitosa e quasi spartana, orfano al collegio di via degli Orfani, dove sua madre Rosa diventò amica di mia nonna Amelia che aveva suo figlio, mio zio, nello stesso istituto. Così dispongo di alcune testimonianze sul bambino An­dreotti, sempre vestito di velluti­no nero e con il taccuino da gior­nalista in tasca, il giornalista co­me gioco. Sua madre commen­tava: «Questo figlio non mi sem­bra normale. O diventa qualcuno, oppure avrà una vita diffici­le». Diventò qualcuno, come sappiamo. Apparteneva ad una tipologia romana molto lontana da quel­la resa dal cinema, da Alberto Sordi o da Verdone. Andreotti apparteneva al genere cattolico, ironico, dotato di un understate­ment naturale, qualcosa di mol­to simile allo spirito britannico, mai urlato, mai enfatico, sem­pre molto pratico e molto distac­cato. Io l’ho conosciuto in tre momenti diversi: quando fre­quen­tava la casa dei miei genito­ri che erano suoi amici strettissi­mi mentre io lo detestavo; quan­do diventò una delle mie prede giornalistiche e quando ci ritrovammo insieme nella Commissione Mitrokhin di cui io ero il presidente e lui uno dei quaran­ta componenti. Era sempre lì, in prima fila, puntuale e immobi­le, così come era sempre lì in pri­ma fila, puntuale e immobile al Senato dove il suo sedile e il suo schienale appaiono ancora oggi lisi perché Andreotti aveva un senso del dovere, della presen­za, della meticolosità, che non ho mai visto in alcun altro politi­co. Era sempre lì prima degli al­tri. Attento, l’aria stupita, mille foglietti per i suoi appunti, sem­pre in frenetica e minuta attivi­tà.
Amava i pettegolezzi, ma gli piaceva ascoltarli e registrarli nella mente. Amava anche l’avventura in politica e sullo scac­chiere della politica estera. Re­st­ava impassibile di fronte ai pro­blemi più gravi e la sua reazione istintiva consisteva nel ridurre i problemi di una banalità sconcertante, ma praticava la formu­la della riduzione in frammenti perché sapeva che ogni singolo frammento, preso a sé, poteva essere inglobato in un mastice colloso e poi neutralizzato. Era dunque un artista del rinvio, ma non perché volesse evitare le so­luzioni, quanto piuttosto per­ché sapeva che non ci sarebbe stata mai alcuna soluzione.
Penso che questo modo di fa­re abbia contribuito a fargli fare alcuni passi falsi, come quello di lasciarsi un po’ troppo avvicina­re in Sicilia da uomini chiacchie­rati. Dubito che Totò Riina lo ab­bia davvero baciato, ma penso che se si fosse trovato di fronte a una simile circostanza, avrebbe voluto vedere come andava a fi­nire, per curiosità.
Aveva sviluppato, come Cossi­ga, una sorta di sindrome di Stoc­colma n­ei confronti dei comuni­sti e dei sovietici. Con loro si tro­vava bene, a suo agio. Cosa co­mune a molti democristiani. Ri­cordo di aver accompagnato Amintore Fanfani in un lungo viaggio in Oriente e mi accorsi che in ogni aeroporto russo veni­va accolto come un dio. Lo stesso avveniva per Andreotti. Da uomo degli americani che era all’inizio, diventò per indole un antiamericano discretamen­te ostile al mondo statunitense. Fu lui, prima ancora di Craxi presidente del Consiglio, a creare le premesse per lo scontro di Sigo­nella nell’ottobre del 1985, ma senza darlo a vedere. Lasciò che Craxi si esponesse al suo posto. Stimava Craxi, che di lui diceva che «tutte le volpi finiscono in pellicceria». Si circondava di gente plebea come tutti gli ari­stocratici romani. Il suo fedele scudiero Franco Evangelisti- «A Fra’,che te serve?»-era un croni­sta delle palestre di boxe della periferia romana e lui ne fece il suo braccio destro e il suo pleni­potenziario nella trattativa con Enrico Berlinguer, finché quel­lo non fu atterrato da un’intervi­sta che concesse proprio a me e che segnò la sua fine. Evangeli­sti mi raccontò come funziona­vano le mazzette sparse a piene mani fra i partiti e si dovette dimettere da ministro della Mari­na Mercantile. Quando incro­ciò Andreotti davanti a Monteci­torio, Giulio si dice abbia sibila­to soltanto «imbecille».
Ma aveva una sua profonda conoscenza della macchina statale e coltivava un profondo rispetto, direi sacrale, per la Re­pubblica e le istituzioni. Le sedu­te dell’assemblea Costituente lo videro giovane segretario d’au­la e i suoi modi pacati e compe­tenti inc­antarono Alcide De Ga­speri che lo volle come suo sotto­segretario alla presidenza del Consiglio a soli ventotto anni. De Gasperi veniva da un mondo lontanissimo: era stato per anni deputato della provincia asbur­gica trentina a Vienna ed era un uomo lontano anni luce da quel ragazzo della buona borghesia romana,in confidenza con i pre­ti­e con l’associazionismo catto­lico, un po’ monsignore e un po’ apostata per il piacere di metter­si di traverso e stupire.
Le sue foto degli anni Cinquan­ta e Sessanta lo mostrano presen­tissimo nei ristoranti, al teatro, sui set cinematografici. Era mol­to amico di Federico Fellini il quale a sua volta l’adorava, co­me lui stesso mi disse: «Andreot­ti è lo spirito della Roma politica e della sensibilità romana, è un uomo competente di cinema e di televisione, è un uomo che capisce e che non parla mai a spro­posito. Preferisce non dire nulla, piuttosto che parlare di ciò che non sa». Gli album lo mostrano con tutti gli attori e le attrici del­l’epoca d’oro di via Veneto e del­la «dolce vita». Era capace di stu­pirsi e l­o faceva sgranando gli oc­chi in modo infantile, quasi irre­sistibile. Parlava con circospetta prudenza della morte, come se avesse timore ad evocarla e quando qualche mese fa fu rico­verato per una serie di problemi cardiaci, lo divertì sapere che tut­ti i giornali si erano affrettati a preparare il«coccodrillo», l’arti­colo bello e pronto in caso di morte di cui sono ricchi gli archi­vi di ogni redazione: «Il cielo può attendere» fu il suo commento.
Quando si è diffusa ieri a mez­zogiorno la notizia della sua mo­r­te mi è tornato in mente lui sedu­to sul banco della Commissione dove arrivava sempre con largo anticipo. Eravamo spesso soli lui ed io e lui mi chiedeva notizie di mia madre: «Come sta mam­mà?» diceva all’uso romano deri­vato dall’occu­pazione napoleo­nica e dall’introduzione dialetta­le di radici francesi come maman, commode, tiroir e infat­ti diceva «tiretto» per dire casset­to, come avevo sentito dire sol­tanto a mia nonna. E gli piaceva rivocare la stagione dell’infan­zia fra le strade del rione Pario­ne, dietro piazza Navona dove aveva abitato per decenni e dove abitava anche la mia famiglia. Poi arrivavano gli altri commis­sari, ognuno rientrava nel suo personaggio e Giulio Andreotti diventava un mio ostico e causti­co avversario. Così per quattro anni durante i quali ho capito piuttosto bene la fibra del perso­na­ggio che è scomparso ieri chiudendo un’epoca ormai conclu­sa per sempre, consegnata ai li­bri di storia, alle memorie, alla fossa comune del tempo.
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ADDIO ANDREOTTI, ASSO DELLA POLITICA E STATISTA MANCATO -
Quando si accennava alla sua vecchiezza, Giulio Andreotti diceva di sen­tirsi in prorogatio : in linguag­gi­o calcistico un tempo supple­mentare che la provvidenza gli aveva concesso. La prorogatio è finita, e l’uomo che ha impersonato al meglio il peggio della politica italiana deve affronta­re la postuma ondata dei ricor­di, dei rimpianti, dei giudizi, delle accuse. Il divo Giulio, che fu durante sette decenni una presenza costante sulla scena pubblica, parlava spesso della morte, anche della sua. Nella introduzione a uno dei numerosi «Visti da vicino» aveva ipotizza­to l’opportunità d’una biogra­fia autorizzata che lo riguardas­se, e della quale per maggiore si­curezza lui stesso fosse autore: ad evitare o almeno a controbi­lanciare le malignità dei molti detrattori. Cito. «L’autobiogra­fia, in fondo,è anche un’assicu­razione sulla morte. Ad evitare che, senza che abbiate più la possibilità di reagire, qualcuno vi attribuisca virtù mai avute e vi addebiti ingiustamente atti e comportamenti negativi, maga­ri ignorando quel che di voi an­dava deplorato».
Non eviterà. La sua esisten­za, così lunga e così densa d’avvenimenti, si presta a tutto. Alle sperticate lodi commemorati­ve e alla spietata damnatio me­moriae.
Credo tuttavia che nes­suno potrà negare ad Andreotti quella che è stata la sua qualità più evidente: una capacità di la­voro quasi sovrumana, protago­nista di innumerevoli incontri nazionali e internazionali non s’è mai presentato anche a uno solo senza avere letto e valutato le carte. Non ha lasciato senza risposta neppure una lettera, a molto rispondendo con bigliet­ti vergati nella sua scrittura mi­nuta e chiarissima, una scrittu­ra antica. Di questa assiduità epistolare ho avuto più volte prova personale nei commenti a qualche mia nota che lo ri­guardava. Poiché recensendo un suo libro avevo affermato, ri­ferendomi ad alcuni passaggi, che la sua penna era a volte in­tinta nel veleno, m’aveva ironi­camente promesso d’intinger­la, da allora in poi, nel miele. Dalle voci che correvano su un Andreotti Belzebù, avvelenato­re in senso figurato o forse addi­rittura in concreto, Montanelli aveva tratto spunto per un con­trocorrente in cui lodava il co­raggio di Craxi. Durante un di­scorso di presentazione del suo governo alla camera Craxi ave­va due volte fatto cenno di voler bere; per due volte Andreotti, ministro, gli aveva porto il bicchiere colmo d’acqua, e per due volte Craxi aveva bevuto.
Autore molto popolare e mol­to lodato, Andreotti aveva in re­altà - secondo Montanelli e secondo me- una prosa un po’ le­gnosa e burocratica. Ma raccon­tava sempre cose interessanti, e inseriva nelle pagine notazio­ni folgoranti. «Non è un umori­sta, è un battutista» sosteneva Indro. Aggiungo un piccolo par­ticolare a questi cenni editoria­li. Uno dei libri della Storia d’Ita­lia Montanelli-Cervi avrebbe dovuto essere intitolato «L’Ita­lia di De Gasperi». Ma l’editore Rizzoli, che aveva appena man­dat­o in libreria un volume di An­dreotti su De Gasperi, ci pregò di cambiare. E il libro si chiamò «L’Italia del miracolo».
Andreotti non può avere, a mio avviso, la qualifica di statista. Dello statista gli mancava­no l’altezza della visione, il fer­vore d’un progetto, all’occor­renza l’audacia del rischio. Caratteristiche, ad esempio, di un Cavour. La sua filosofia di governo era condensata nella frase secondo cui «è meglio ti­rare a campare che tirare le cuoia». Andreotti è stato la quintessenza del politico, se volete del politico politicante, disinvolto fino al cinismo. Ma che livello, il suo, se confronta­to con quello d’altri attuali esponenti della Nomenklatu­ra. Era colto, d’una cultura ve­ra, non quella imparaticcia cui deputati e senatori attingo­no occasionalmente per simu­lare d’essere ciò che non so­no. Ha dimostrato ecceziona­le pazienza nel subire con compostezza un insistente calvario giudiziario, l’alter­na­rsi di condanne e assoluzio­ni per reati gravissimi. Un gior­no mi disse che senza i diritti d’autore non avrebbe potuto sostenere le spese legali dei numerosi processi, solo le copie di quelle migliaia o decine di migliaia di pagine costava­no una fortuna.
Tanti esponenti del mondo politico e tanti italiani comuni hanno pensato e continuano a pensare tutto il male possibile di Giulio Andreotti. Per questo riguardo messo un po’ in imba­razzo dal famoso detto secon­do cui a pensar male si fa pecca­to, ma il più delle volte s’indovi­na. Fu costante bersaglio del si­stema mediatico - nel cinema, nella televisione, nei quotidia­ni - peraltro assecondandolo. Si prestò nel film Il tassinaro con Alberto Sordi a una comparsata che il banchiere Cuccia avrebbe di sicuro disdegnato. Credo che la sua fede religiosa, un po’ ostentata nella ritualità, fosse autentica, e che Monta­ne­lli fosse stato malizioso osser­vando che «De Gasperi dialogava con Dio, Andreotti col pre­te». Comunque Andreotti non se ne adontò, dialogare col pre­te non era per lui, universitario cattolico già in tempo fascista e frequentatore assiduo dei pa­lazzi vaticani, un difetto, era un pregio. E osservò sommessa­mente che a lui il prete rispon­deva, quasi sospettando che Dio non rispondesse a De Ga­speri.
Nel lascito di Andreotti c’è tut­to. La diga democristiana del 18 aprile 1948 e degli anni successi­vi contro la minaccia comuni­sta, la diffidenza per il centrosi­nistra, poi la «non sfiducia» ber­lingueriana, infine i voti contra­stanti, da senatore a vita sul go­verno Prodi: cui una volta diede la fiducia, e un’altra la negò. Le contraddizioni imbarazzavano un De Gasperi, non un Andreot­ti. Sulla cui figura i moderati ita­liani, a cominciare da Silvio Berlusconi, furono e ritengo siano tuttora lacerati. Come ideologo e militante dell’anticomuni­smo -nei tempi della guerra fredda- Andreotti merita la loro approvazione. Ma poiché personificava la prima Repubblica corrotta, volubile, instabile, ris­sosa, cancellata da Tangentopo­li fu un modello da rifiutare. Mol­ti fr­equentatori del Palazzo si so­no proclamati eredi della Dc, au­spicandone la resurrezione. Probabilmente Andreotti, che aveva grande fiuto politico, non ha mai condiviso queste speran­ze. La prima Repubblica è mor­ta, la Dc è morta, adesso è morto anche il loro campione, passato dal prete a Dio.
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ANDREOTTI MUORE VIVE L’ODIO -
Giulio Andreotti è morto due volte: una biolo­gicamente ieri, 6 maggio 2013; l’altra, moralmente e politicamente, vent’anni fa il 27 mar­zo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudizia­ria una contrapposizione etica e ideologica. Andreot­ti è il simbolo dell’Italia che non trova pace e verità ne­anche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infa­manti, frutto di una perversione fanatica paragona­bile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolge­va l’Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presi­dente della commissione Cultu­ra della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l’ambascia­tore e alcuni esponenti politici «laici» dell’Algeria mostrando­mi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata cru­deltà, teste e arti mozzi, sventra­menti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Al­ge­ria e chiesi ragioni di tanta vio­lenza. Mi fu spiegato che si tratta­va di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti mo­derati ancora legati alla tolleran­za derivata dagli anni dell’occu­pazione francese.
La matrice della violenza era chiara.Dopo l’indipendenza il ri­pristino delle tra­dizioni aveva de­terminato una riabilitazione reli­giosa attraverso alcuni maestri inviati dall’Iran a insegnare le leg­gi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa inte­gra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, ti­tolari di un rigore e delle conse­guenti azioni pu­nitive contro i non abbastanza osservanti. Per­ché faccio questo parallelo? Per­ché, gli anni della contestazione stu­dentesca, a parti­re dal 1968, e an­cor prima con la denuncia delle «trame» del Palaz­zo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una genera­zione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cri­stiana e i suoi inossidabili espo­nenti. Da questo clima derivò, ov­viamente, l’assassinio di Aldo Moro (ma già allora l’obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democra­zi­a cristiana da parte delle Briga­te Rosse. Forme estreme, violen­te, ma radicate nella convinzio­ne c­he il potere politico fosse die­tro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato diffi­cile, essendovi fra gli iscritti, il ge­nerale Dalla Chiesa, Roberto Ger­vaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l’interventismo giudiziario, per riconoscere i me­todi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall’accusa di asso­ciazi­one segreta e da ogni altra re­sponsabilità penalmente rilevan­te. L’inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è rite­nuta un’ingiuria. E, con tangen­topoli e la fine di Craxi, arrivò an­che il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per cor­ruzione o per finanziamenti ille­citi. Così, con perfetto coordina­mento, l’azione partì da Paler­mo. Andreotti, come avviene nel­le rivoluzioni, fu accusato di tut­to: di associazione mafiosa e di as­sassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di que­gli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magi­strati. Giornali come il Fatto Quo­tidiano, rappresentanti dell’Ita­lia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di paci­ficazione politica per gli ultimi vent’anni quando Andreotti è vit­tima persino da morto del contra­rio della pace, cioè dell’odio.
Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all’universi­tà, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Bel­zebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di poterlo processa­re veramente, da magistrato.
La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di in­tercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché so­lo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Ilproces­so allo Stato doveva essere esem­plare, non diversamente da quel­lo rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministe­ri e giudici veri. E di cosa dibatte­vano come prova regina? Del ba­cio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto ap­pariva a me irrituale e irregolare.
Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni. Perché Andreotti doveva esse­re processato ­a Palermo come ca­po corrente di un partito quando tutta l’attività politica si era svol­ta a Roma e il suo collegio eletto­rale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parla­mento come presidente della Re­pubblica, fu indagato dalla magi­stratura a Perugia per l’omicidio Pecorelli e a Palermo per associa­zione mafiosa. Per dieci anni si di­fese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e per­dendo ogni ruolo politico. In que­gli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendente­mente dalla colpa, della sua con­danna. Ma la condanna è il processo stesso. Andreotti era diven­tato un appestato, non meritevo­le di alcuna continuità intellet­tuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quan­do smontavo nella mia trasmis­sione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, al­la guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fos­se superato, e pure il senso del ri­dicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero.
Alla fine fu assolto. Ma la for­mula non poteva essere più am­bigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risul­tava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dal­l’ 80 al ’92. Una assoluzione salo­monica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata. Perché ciò che è prescri­tto non può essere considera­to reato, in assenza di quella veri­tà giudiziaria che si definisce sol­tanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpian­gono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fanta­siosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quin­di non della giustizia.
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L’ARCHIVIO DEI MISTERI CON 3.500 FALDONI -
Leggendario come il suo proprietario:è l’archivio di Giulio An­dreotti. «I segreti li aveva, e se li è portati con sé. Chi è un uomo se li porta dietro», ha detto Licio Gelli. Quei segreti sono custoditi nei 3.500 faldoni (200 dedicati al Vaticano) che costituiscono l’archi­vio del «Divo Giulio», il più temuto d’Italia. È chiuso nel caveau blindato dell’Istituto Don Sturzo,dove i principali esponenti della Dc hanno lasciato le carte. Andreotti l’ha alimentato quotidianamente e naturalmente non è consultabile dal pubblico.