AAVV, Il Sole 24 Ore 7/5/2013, 7 maggio 2013
STATISTA O UOMO DI POTERE, I MILLE VOLTI DELL’ULTIMO DC
Gli storici di domani sapranno collocare Giulio Andreotti nella vicenda nazionale del dopoguerra; sapranno stabilire fino a che punto egli abbia saputo rappresentare lo Stato repubblicano, meritando perciò il titolo di "statista", e quanto invece abbia concesso ai vizi della peggior politica, fino a rappresentare una sorta di "trait d’union" fra mondi ambigui, quasi ai confini della legalità o addirittura oltre. Stefano Folli
Quest’ultima è l’interpretazione giudiziaria, diciamo così, del ruolo di Andreotti nella storia della Repubblica: una visione che non è stata confermata dalle inchieste, ma nemmeno definitivamente smentita. Tutto è rimasto a mezz’aria, grazie alle prescrizioni, come spesso accade nel nostro paese; per cui il personaggio Andreotti, il suo itinerario politico e il suo ruolo pubblico appaiono come una commedia del teatro di Pirandello. Un incessante "così è se vi pare", in cui ognuno si serve di quello che preferisce. C’è chi prende l’Andreotti statista, chi l’Andreotti accorto politico democristiano, chi l’Andreotti fervente cattolico, in ottime relazioni con numerosi pontefici e soprattutto con la struttura del potere vaticano, chi l’Andreotti cinico e spregiudicato amico di personaggi riprovevoli, ma capace di riscattare il proprio lato oscuro con il costante ricorso al sarcasmo e persino all’autoironia. Nessuno come lui ha attraversato l’Italia in questa forma cangiante, enigmatica, in fondo inafferrabile. Nessuno è altrettanto poco definibile, se non con le categorie della polemica politica. Ma ora che la lunga esistenza del senatore a vita si è conclusa, le polemiche dovranno cedere il passo ad analisi più serene e più capaci di cogliere la realtà mutevole e spesso insondabile di un uomo che fu sette volte presidente del Consiglio, innumerevoli altre volte ministro, ma il cui posto nella storia è ancora da decifrare. Quando si pensa agli statisti che hanno segnato la storia della Dc il nome di Andreotti, bisogna ammetterlo, non viene alla mente (o almeno così era fino a ieri, prima della grande e inevitabile retorica funeraria). Si pensa a De Gasperi, in primo luogo, di cui il giovane deputato romano fu il sottosegretario alla presidenza del Consiglio negli anni indimenticabili dell’immediato dopoguerra. Ma già allora con un tratto peculiare, con quel pragmatismo di potere per cui Indro Montanelli fu indotto a scrivere che quando De Gasperi e Andreotti, entrambi credenti, entravano in Chiesa, il primo si rivolgeva a Dio e il secondo parlava con il sagrestano. Poi, ancora a proposito di statisti democristiani, si pensa ad Aldo Moro e ad Amintore Fanfani: entrambi e in modi diversi oggetto di polemiche anche accese nel loro tempo, eppure accreditati di un pensiero politico originale e lungimirante. Una visione strategica, come si usa dire, che abbracciava non solo il destino della Dc, ma soprattutto la prospettiva dell’Italia e la sua collocazione in Europa. Ecco, è proprio questa visione di lungo periodo che sembra mancata ad Andreotti. Non si ricordano di lui pensieri lungimiranti, ma piuttosto battute sapide, spesso divertenti, benché non sempre felici. Quando il muro di Berlino era in procinto di crollare e le cancellerie occidentali stavano già confrontandosi con la realtà della riunificazione tedesca, Andreotti si compiaceva per l’esistenza di due Germanie, facendo sua, senza citare l’autore, una frase di Francois Mauriac: «Amo talmente la Germania che mi piace vederne due». Un motto di spirito molto arguto, ma pronunciato in un’altra epoca storica e quindi ormai consunto: perché ciò che aveva un senso politico nei primi anni Cinquanta poteva non averne alcuno nel 1989. In compenso Andreotti era l’autore di infiniti giochi di parole e paradossi che hanno fatto la fortuna sua e dei suoi epigoni: come la famosa frase sul potere «che logora chi non ce l’ha». Come si poteva immaginare che quest’uomo così salace e minimalista, che esprimeva un’idea del potere tanto corrosiva e distaccata, potesse ordire le trame di cui veniva regolarmente accusato? L’aurea sulfurea e diabolica di cui Andreotti era circondato era fin troppo romanzesca per essere vera, eppure è stata alimentata per anni, forse decenni, molto prima che entrassero in scena i magistrati palermitani con il grande "giallo" del bacio a Totò Riina. E non si va molto lontano dal vero se s’immagina che lo stesso Andreotti abbia incoraggiato in una certa misura la sinistra reputazione mediatica che lo circondava: e lo abbia fatto così, per amore dello spettacolo, magari per una distorta vanità personale. In fondo parliamo di un uomo che godeva fama di essere depositario di un immenso potere nell’amministrazione dello Stato, ma che poi nella Democrazia Cristiana non contò mai moltissimo, al di là del recinto della sua corrente, fondata sulla cura meticolosa del collegio in Ciociaria e su una rete capillare di amici e amici degli amici. Oggi tutti lo ricordano come "l’ultimo democristiano" e l’estremo sopravvissuto di una fase storica conclusa. Vero, certo, ma un po’ generico. Se Andreotti non fu mai segretario della Dc, una ragione ci sarà stata. Nel senso che egli fu sempre un po’ laterale rispetto al succedersi degli equilibri interni; e d’altra parte la sua predilezione nella vita pubblica andava all’esercizio del governo, piuttosto che agli arabeschi politici necessari per guidare non una corrente, bensì un partito complesso come la Dc. Quando pochi anni fa l’archivio privato del senatore a vita fu donato alla Fondazione Sturzo, chi scrive prese parte alla breve cerimonia. Era inevitabile pensare ai fantomatici segreti che quelle carte racchiudevano, in base alle leggende politiche della Prima Repubblica. Non sembra proprio che da allora le ricerche storiografiche abbiano confermato quegli scenari romanzeschi, ma chissà in futuro. Quel che è certo, Andreotti è stato l’incarnazione di una lunga, quasi eterna fase della vita politica italiana. Con i suoi pregi e i suoi limiti, emblematico come nessun altro. È stato un cattolico devoto al Vaticano, al punto che molti lo vedevano determinato a fare gli interessi della Santa Sede prima di quelli della Repubblica. Ma forse anche questa era una maldicenza. Senza dubbio Andreotti fu l’uomo della spesa pubblica, in una fase in cui non c’erano i problemi del debito e dello spread. Altri tempi, appunto: e poi non era l’unico. Ma Andreotti fu anche l’uomo che impose il trattato di Maastricht e seguì sempre in politica estera il sentiero dell’Europa, in questo fedele all’insegnamento del suo maestro De Gasperi. E il suo prestigio o la sua popolarità nelle cancellerie europee fu grande e durevole. Molto meno alla Casa Bianca, in particolare dopo il dramma dell’Achille Lauro, a metà degli anni Ottanta: l’episodio a cui qualcuno fa risalire l’inizio della fine della Prima Repubblica, che in effetti di lì a qualche anno rovinò intorno a due nomi simbolo, appunto Andreotti e Craxi, entrambi protagonisti di quella lontana disavventura nelle acque del Mediterraneo. Lo hanno accusato con pervicacia di collusioni mafiose, ma è provato che egli non allentò, semmai indurì il carcere duro dei condannati per mafia. Ad ogni modo fu trascinato nella polvere, quando la Dc era diventata troppo debole per difendersi come aveva saputo fare Aldo Moro ai tempi dello scandalo Lockheed. In questo Andreotti fu davvero l’emblema del potere democristiano declinante e della fine di una stagione: l’uomo che occorreva trascinare alla sbarra per far passare l’equazione giudiziaria secondo cui la storia d’Italia nel dopoguerra era stata una storia criminale e non una battaglia, sia pure non priva di zone d’ombra, per affermare lo sviluppo economico e le regole della democrazia. Uomo della Dc più conservatrice, con il tempo si trasformò in personaggio del dialogo e del confronto con gli antichi avversari: in una versione riduttiva e assai "andreottiana" delle convergenze parallele di Moro. Sull’onda di tali apertura tentò di ascendere al Quirinale, ma come è noto non ci riuscì (al massimo impedì ad altri di essere eletti: Forlani ne sa qualcosa). In cuor suo fu poi sempre convinto che in quel fallimento gli Stati Uniti avessero avuto una parte non irrilevante. Resta da dire che quel suo gusto aneddotico per cui era popolare presso una vasta opinione pubblica, fatta spesso di persone semplici, lo accompagnò per tutta la vita e gli permise di fissare personaggi e situazioni in gustosi quadretti, poi riuniti in una serie di libri che riscossero notevole successo. Fu autore anche di saggi storici più ambiziosi, come quello sull’omicidio di Pellegrino Rossi, il ministro liberale e riformista di Pio IX ucciso alla vigilia della Repubblica Romana. Anche qui si coglie la natura imprevedibile e contraddittoria di Andreotti, forse uomo di potere più che statista, ma di certo eccezionale incarnazione della politica in un’epoca in cui il potere temporale della Chiesa era tramontato, ma ancora aleggiava in modo impalpabile fra le due sponde del Tevere. Ma in fondo Andreotti era anche un giornalista dalla penna aguzza: il ruolo a cui era più affezionato e per il quale, chissà, vorrebbe essere soprattutto ricordato.
Stefano Folli
DALLA COSTITUENTE AL CALVARIO DEI PROCESSI –
ROMA «Siamo nelle mani della Chiesa e dell’episcopato». Così il vecchio leader socialista Pietro Nenni commentava nel gennaio del 1954 la nomina del trentaquattrenne Giulio Andreotti a ministro dell’Interno nel primo governo guidato da Amintore Fanfani. Uomo dei record, Andreotti. A soli 26 anni, nel 45, entra a far parte della Consulta che deve definire le regole per eleggere l’Assemblea Costituente. L’anno dopo viene eletto alla Costituente, l’anno dopo ancora è già sottosegretario nel primo governo della Repubblica guidato da Alcide De Gasperi.
Sette volte presidente del Consiglio - tra cui il governo di solidarietà nazionale durante il rapimento di Aldo Moro (1978-1979), con l’astensione del Partito comunista italiano, e il governo della "non-sfiducia" sempre da parte del Pci (1976-1977) - e ventidue volte ministro, il Divo Giulio, o Belzebù (soprannome non proprio elogiativo affibbiatogli da Bettino Craxi) ha attraversato tutta la storia repubblicana. La leggenda vuole che fu lo stesso Papa Pio XII a volerlo alla guida della Fuci, l’associazione universitaria cattolica, al posto di Aldo Moro richiamato alle armi. Era il 1942. Moro, La Pira, Saraceno, Ferrari Aggradi, Vanoni, Taviani, Capogrossi. Con loro, nel 1943, il giovanissimo Andreotti partecipa al Convegno di Camaldoli nel quale viene elaborato un documento le cui indicazioni si ritroveranno nel primo programma della Dc. Andreotti conserverà sempre amicizie e rapporti con queste persone che militeranno nella sinistra cattolica, ma non sarà mai assimilabile a quei gruppi che si ritroveranno nella Dc nella corrente di "Iniziativa democratica" di Fanfani, con Moro, La Pira ed altri. Anzi, Andreotti è sempre stato scettico sulla stessa definizione di "sinistra democristiana". «Non so chi abbia detto al presidente De Gasperi che il Vaticano è preoccupato per l’ascesa di Fanfani "uomo della sinistra". Se Fanfani è di sinistra io sarei l’imperatore del Giappone», ebbe a dire in quegli anni. Andreotti è sempre stato descritto, dai suoi stessi compagni di partito, come esponente della destra Dc. E le parole di Nenni quando per la prima volta fu nominato ministro nel ’54 confermano l’immagine "destrorsa" e "clericale" che ne avevano gli avversari politici. Più che la destra, Andreotti ha in realtà sempre rappresentato l’anima moderata della Dc o meglio ancora la continuità e centralità democristiana. E l’interesse di Andreotti è sempre stato rivolto alle istituzioni più che al partito. Non è un caso che non ha mai ricoperto incarichi di rilievo nella Dc. I suoi obiettivi veri, le ragioni delle sue preoccupazioni e delle sue aspirazioni hanno sempre trovato la loro naturale sede nell’attività di governo e nell’impegno parlamentare.
Continuità e centralità democristiana, anche agli occhi del Vaticano e degli alleati statunitensi. Per questo - nonostante il vivo scetticismo con il quale Andreotti, più in sintonia con Mario Scelba, guarda alla fase che alla fine degli anni Cinquanta sboccherà nel primo centrosinistra con il Psi - su insistenza del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e del segretario della Dc Aldo Moro viene confermato ministro della Difesa. Un cambiamento del titolare della Difesa in questa circostanza sarebbe stato interpretato in seno alla Nato come un mutamento della politica estera dell’Italia, è la motivazione dei dirigenti Dc. Dopo l’ondata del Sessantotto e l’avanzata della destra nelle elezioni del ’72, il primo governo Andreotti (con il liberale Giovanni Malagodi) appare come la naturale reazione dei ceti conservatori spaventati dall’urto delle contestazioni studentesche e operaie. Ma non è un caso che dopo le elezioni del 1976 - con il Pci che raggiunge il record storico del 34,5% dei voti - proprio ad Andreotti viene affidato l’incarico di formare il primo governo della non sfiducia da parte del Pci di Enrico Berlinguer. Proprio lui, che aveva impersonato l’anima critica della Dc per il rapporto con il Psi e ogni cedimento verso il Pci, ora appare l’uomo che può esprimere al meglio quella politica di Moro che lavora per l’astensione del Pci e per aprire la nuova fase politica del compromesso storico. Chi meglio di Andreotti può garantire agli occhi delle gerarchie vaticane e soprattutto agli occhi della Nato la continuità?
La mattina in cui Moro viene rapito dalle Brigate rosse, il 16 marzo del 1978, il Parlamento si appresta a votare la fiducia a un nuovo governo Andreotti di solidarietà nazionale, questa volta con il voto favorevole del Pci. Ore drammatiche. Durante le quali il Pci accetta di votare comunque la fiducia malgrado Andreotti abbia rifiutato tutte le richieste della sinistra (riduzione del numero dei ministri, inclusione di alcuni indipendenti, esclusione di ministri quali Antonio Bisaglia e Carlo Donat Cattin apertamente contrari alla politica di solidarietà nazionale). Andreotti e Berlinguer in quei difficili mesi interpretano insieme, per ragioni diverse, la linea della fermezza e della ragione di Stato. Durissime le parole di Moro dalla prigionia Br nei confronti di Andreotti. Con la morte di Moro muore di fatto anche l’operazione politica da lui voluta e governata fino a quel momento da Andreotti. Fatta la riforma sanitaria, la richiesta del Pci di una partecipazione più diretta all’attività di governo viene respinta dalla Dc. Andreotti si dimette nel giugno del 1979 chiudendo definitivamente una fase politica.
Gli anni Ottanta vedono non a caso ancora una volta Andreotti protagonista come ministro degli Esteri nei governi guidati, ed è la prima volta nella storia repubblicana, dal socialista Bettino Craxi. Rapporti difficili quelli con il leader Psi. Tuttavia la consonanza è più profonda di quello che appare. Forte della sua pluridecennale esperienza di uomo politico, Andreotti favorisce il dialogo fra Usa e Urss. Al di là dei proverbiali scontri con Craxi, nella gestione filoaraba della politica estera («i vicini di casa non ce li scegliamo», è una delle battute di questo periodo) Andreotti è in consonanza con il premier, schierandosi con lui nella questione della risoluzione negoziata del dirottamento della nave Achille Lauro. E svolge un ruolo di tramite tra Craxi e la Dc. Gli scontri fra il carismatico leader socialista e il segretario democristiano Ciriaco De Mita sono all’ordine del giorno, tanto che i giornali parlarono dell’esistenza del triangolo Caf (Craxi-Andreotti-Forlani). E quando il Caf sottrae a De Mita la guida del governo, nel 1989, Andreotti è nuovamente chiamato alla presidenza del Consiglio, fino al 1992. Ma siamo oramai al crepuscolo della prima repubblica che Andreotti ha tanto contribuito a plasmare. Anche se pochi ancora se ne rendono conto. Sta per scoppiare Tangentopoli. Alle elezioni politiche la Lega sta per eleggere 80 parlamentari. Eppure il Caf progetta organigrammi per ricollocare Craxi a Palazzo Chigi e Andreotti al Quirinale. Nel corso della campagna elettorale la Mafia uccide l’onorevole Salvo Lima, legatissimo ad Andreotti e in rapporti con Cosa Nostra. Un omicidio inquadrabile negli avvenimenti che caratterizzano a Palermo la guerra tra cosche e lo sterminio di una di esse (Bagarella e soci) per mano dell’altra (Riina e soci). Terrorismo mafioso, che aggredisce le istituzioni massacrando uomini di Stato, magistrati, carabinieri, poliziotti. Fino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Non sfuma solo l’elezione al Quirinale, ma inizia per Andreotti un calvario personale lungo un decennio. Un processo che inizia con l’autorizzazione a procedere del Senato nel 1993 e si conclude in Cassazione oltre dieci anni dopo, il 15 ottobre del 2004. L’accusa è associazione delinquere. Assoluzione per insufficienza di prove in primo grado. Ma la sentenza di appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilisce che Andreotti ha «commesso» il «reato di partecipazione all’associazione per delinquere» (Cosa Nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». Per i fatti successivi alla primavera del 1980 Andreotti è invece assolto. La Cassazione conferma la sentenza di appello. Chiaro-scuro, come tutto quello che ha a che fare con Andreotti. Dopo la sentenza della Cassazione Andreotti, che ha diligentemente presenziato a tutte le udienze che lo riguardavano evitando polemiche, riceve le congratulazioni di tutto il mondo ex democristiano e celebra una sorta di vittoria di fatto. Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo negli anni dell’inchiesta, precisa indignato: «L’imputato è dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa Nostra per averlo "commesso" fino al 1980. Il delitto è commesso, ma prescritto, e solo per questo motivo all’affermazione di colpevolezza non segue la condanna».
Ci piace concludere con le parole di Emanuele Macaluso, ex comunista siciliano ora nel Pd, partito in cui militano molti degli eredi di Andreotti: «Nei miei scritti ho sostenuto che Andreotti aveva responsabilità politiche serie in ordine al rapporto tra mafia e politica, tra mafia e apparati pubblici. Ma questa relazione comincia e finisce con Giulio Andreotti? O sono i governi, guidati dalla Dc, che negli anni della Guerra fredda e della contrapposizione al comunismo hanno inglobato la mafia, intrecciata strettamente con parti della società, nel blocco sociale e politico che ha garantito il potere?». Sempre Macaluso cita un’intervista del democristiano Giuseppe Alessi al Corriere della sera nel novembre del 2002: «Dovevamo fermare il comunismo a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell’immediato dopoguerra era meglio governare con i mafiosi che consegnare il Paese ai comunisti di Stalin». Nel bene e nel male, è la storia del nostro Paese. E Andreotti ha contribuito a farla.
Emilia Patta
LA DIGNITÀ ANCHE NEI MOMENTI DIFFICILI –
Non chiedetemi di mettere un’etichetta. «Padre? Amico? Cliente?» mi hanno chiesto in queste ore. Ma il mio rapporto con Giulio Andreotti sfugge a ogni definizione. A cominciare dal fatto che, benché lo abbia difeso, probabilmente tra i due sono stata io a ricevere di più. Stargli accanto è stata una formazione permanente e senza dubbio una parte di me è rimasta segnata dalle sue parole, da quelle che diceva e da quelle che non diceva. Dai suoi gesti. Tuttora, davanti a un problema mi viene da chiedermi cosa avrebbe fatto, o detto, lui.
È stato innegabilmente un uomo straordinario e ha avuto per anni un grande potere. Ma si è sempre sentito uno come gli altri, ed è sempre stato vicino alla gente. Era uno che rispondeva di proprio pugno a tutti quelli che gli scrivevano, perché rispettava allo stesso modo il ministro e il tassinaro. E perché credeva che la politica fosse anche questo: rispondere di proprio pugno a chi scrive. Nel suo studio di piazza di San Lorenzo in Lucina – lo stesso che adesso occupo io – il sabato mattina c’era una vera e propria processione di gente semplice che andava a trovarlo per chiedergli un consiglio, un parere, persino una piccola elemosina. Lui li ascoltava, tutti, e a tutti cercava di dare una mano.
Quello che contava, per lui, non erano cariche, gradi o titoli. Per lui, di cose e persone contava l’essenza. Infatti nessuno lo ha mai sentito alzare la voce: «Sono i contenuti che contano», mi diceva, «non è che alzando la voce diventano più forti».
Evitare il superfluo, andare dritto al punto, ricercare concretezza e semplicità erano fra i tratti più spiccati del suo carattere. Chiunque abbia avuto con lui una certa familiarità avrà notato ogni tanto, dietro la sua aria imperturbabile, certi impercettibili fremiti di fastidio o disappunto di fronte a interlocutori prolissi. Era convinto che parlare sottraesse tempo al fare, e il fare era per lui l’unica cosa che contava davvero. Un atteggiamento mentale, prima ancora che uno stile di vita e di lavoro, che definiva «concretezza» (non a caso, il periodico da lui fondato e diretto per anni si chiamava proprio così, «Concretezza») e che lo ha sempre contraddistinto: con chiunque andasse a chiedergli un parere o un aiuto limitava la conversazione all’essenziale, ma poi si prodigava senza risparmio per trovare una soluzione, riservando a tutti la stessa disponibilità.
Probabilmente, è proprio perché non si è mai sentito superiore alla gente che percepiva in maniera così intensa la superiorità delle istituzioni, alle quali ha sempre tributato un rispetto assoluto, autentico, sincero, sostanziale.
Ricordo molto bene la sera del 17 novembre 2002, quando il professor Coppi e io arrivammo in casa sua dopo la condanna in appello nel processo per l’omicidio di Carmine Pecorelli – io stessa avevo comunicato la notizia al presidente per telefono. Mentre alcuni familiari piangevano, inveivano, si arrabbiavano, lui era seduto immobile alla scrivania: più pallido del solito e con uno sguardo angosciato, ma fermissimo, composto, la voce sempre pacata. Un esempio indimenticabile, commovente. E quando Stefano Andreani, dell’Asca, telefonò per chiedergli se voleva rilasciare una dichiarazione, lui si limitò a una delle sue solite frasi, stringate e incisive: «Ditegli che ho comunque fiducia nella giustizia».
Sento di aver imparato moltissimo da lui, anche negli atteggiamenti minimi, quotidiani. L’ossessione di arrivare in anticipo agli appuntamenti, per esempio, l’ho sempre avuta ma mi si è sicuramente aggravata "per contagio". Come la puntigliosità nel compiere il mio dovere, sempre, comunque, a qualsiasi costo. Senza dubbio, però, la dignità con la quale incassò quella sentenza di condanna è stata l’insegnamento più importante, qualcosa che ancora oggi – oggi più che mai – mi scuote nel profondo. E solo gli addetti ai lavori sanno che non ha mai, mai, nemmeno una volta, chiesto il rinvio di un’udienza quando sarebbe stato strategicamente utile. Si è sempre opposto a che attaccassimo i pubblici ministeri, anche quando la durezza dei colpi ricevuti avrebbe richiesto reazioni molto forti. Non ha infierito contro i pentiti che hanno mentito: era consapevole del ruolo determinante di alcuni di loro nella ricostruzione della storia della mafia e si rendeva conto che screditarne uno avrebbe finito per screditarli tutti. A noi difensori chiedeva dunque di confutare le dichiarazioni sulla base di fatti e documenti, senza mai affermare o lasciar intendere che i pentiti potessero non essere attendibili.
In definitiva, non ha mai voluto che l’interesse personale prevalesse su quello pubblico.
E in questa fase in cui si parla di antipolitica mi è tornato in mente quando ricordava la zia Mariannina, che guardando il fumo uscire dai comignoli di Montecitorio sbuffava: «Ecco i chiacchieroni che perdono tempo». Con la sua scelta di concretezza, il presidente Andreotti ha saputo essere un grande politico: un politico amato, a volte oggetto di critiche ma certamente mai chiacchierone o perditempo.
Mi ha commosso che anche in occasione di un ricovero al Policlinico Gemelli – dove, con garbo e rispetto, non mancava mai di ringraziare medici e infermieri per le cure ricevute –, la sua preoccupazione fosse stata: «Trattatemi come gli altri pazienti». Era un uomo con un profondissimo senso della giustizia e dell’uguaglianza: ed è stato proprio il suo sentirsi uguale a tutti, a tutti senza distinzioni, a renderlo diverso da ogni altro.
Giulia Bongiorno
«IL GRAN MAESTRO NEL GIOCO A SCACCHI DELLA POLITICA ITALIANA» –
NEW YORK. Dal nostro corrispondente
Giulio Andreotti alleato americano sul fronte antisovietico, avversario per le politiche su Israele e palestinesi, per quelle nel Mediterraneo e su alcuni fronti economici. Un personaggio considerato, fra chi lo ha conosciuto, complesso, indecifrabile, imprevedibile. Soprattutto opportunista, se necessario: se si doveva portare avanti una tesi o un obiettivo di politica italiana, Andreotti non faceva sconti neppure all’America.
Un gigante: «Il gran maestro nel gioco a scacchi della politica italiana», sintetizza Richard Gardner, uno degli ambasciatori americani a Roma che ha avuto a che fare con Andreotti fra il 1977 e il 1980. Su quegli anni Gardner ha scritto un libro: Missione in Italia sul fronte della guerra fredda. Quando lo raggiungiamo al telefono Gardner non sa ancora della morte del leader. La sua è una reazione di sorpresa, quasi un tono misto di antagonismo e rispetto per un interlocutore percepito più come avversario che come partner: «Duro: era la sua fama – dice Gardner – mi ricordo quando gli feci visita per la prima volta a Palazzo Chigi, mi aspettavo di uscirne scorticato vivo. Mi espose la sua visione politica con pacatezza. Eravamo d’accordo su quasi tutto. Ammiravo la lucidità, l’intelligenza, la determinazione. Quell’incontro non mi preparò a quel che sarebbe successo da lì a poco, quando uscì dal governo e di fatto mise i bastoni fra le ruote a un obiettivo politico e militare chiave per l’alleanza Atlantica».
Gardner ricorda che si era raggiunta un’intesa per schierare missili Cruiser in territorio italiano come deterrente per l’Unione Sovietica. Pochi giorni prima che la discussione sui missili cominciasse Gardner riceve la visita di due leader politici italiani, Carlo Donat Cattin e Valerio Zanone: «Mi portano una notizia allarmante. Andreotti aveva scritto una lettera a Gerardo Bianco, il presidente democriscriano della Camera, proponendo un emendamento alla mozione del governo sulle forze nucleari di teatro che seguiva la proposta del Pci: rimandare ogni decisione e consentire l’avvio di negoziati sulla riduzione delle armi. Poi si andò avanti lo stesso e l’eroe della situazione fu il presidente del consiglio di allora Francesco Cossiga». Gardner ricorda che secondo lui Andreotti voleva aprire ai comunisti italiani per coinvolgerli in un governo che avrebbe guidato lui. A quel punto la metamorfosi da democristiano di destra e democristiano di sinistra si era compiuta. E in un telegramma alla Casa Bianca Gardner riassume: «Non crediamo che l’intervento di Andreotti avrà effetto sulla posizione del governo italiano, la sua intenzione è ambigua e poco collaborativa, preoccupante perché arriva da un leader che ha espresso il suo impegno verso Nato e Usa. Andreotti usa la sua levatura internazionale per indebolire il governo e la decisione del suo partito sul Tnf allo scopo di avanzare una strategia più compiacente al Partito Comunista».
Gardner chiarisce che la sua riserva è legata a un contenzioso che li vedeva schierati su fronti opposti. Poi gli chiediamo un giudizio sul film Il Divo: «M’è parso esagerato nella sua cattiveria. Implica quasi che lui fosse un criminale e coinvolto con la mafia: su questo lo difendo. Penso che sia un film diffamatorio. Per me è ingiusto. Racconto le difficoltà del personaggio, ma elogio le sue qualità e su Andreotti non c’erano le ombre di cui si parla nel film».
Mario Platero
COSA PENSAVANO DI LUI GLI ALTRI LEADER EUROPEI –
Abile negoziatore
Giulio Andreotti oltre a essere convinto atlantista, amico della Santa Sede e simpatizzante del mondo arabo, rivestì un ruolo chiave nei negoziati europei, spinse per il processo di integrazione europea e della moneta unica, trovando alleati in Francia e Germania ma creando malumori in Gran Bretagna.
Helmut Kohl
L’ex cancelliere tedesco trovò in Andreotti un grande alleato della famiglia democratico-cristiana sui progetti di integrazione europea e di unione monetaria ma anche un critico del progetto di riunificazione della Germania, che portò a qualche momento di tensione tra i due uomini politici.
Margaret Thatcher
«Sembrava nutrire una solida avversione nei confronti dei principii e riteneva che qualsiasi uomo integro fosse votato al ridicolo». È il giudizio al vetriolo della lady di ferro su Andreotti al quale non perdonò mai di averla messa all’angolo nei vertici Ue presieduti dall’Italia su Atto Unico e Unione monetaria.
François Mitterrand
Il presidente socialista francese ha condiviso con Andreotti la diffidenza sul progetto di riunificazione tedesca e la spinta verso una moneta unica europea.
Mitterrand e Andreotti hanno anche avviato iniziative comuni in Medio Oriente che tenevano conto delle esigenze del mondo arabo.
L’ALLEATO STORICO DELL’ALA «ROMANA» DELLA CURIA –
Forse solo a Giulio Andreotti è capitato di andare a pranzo con un cardinale poco prima che diventasse papa e ricevere dal porporato rivelazioni sul possibile esito del Conclave. È il 1958 e Angelo Roncalli, il patriarca di Venezia emergente papabile, incontra l’esponente Dc in Laguna. Il cardinale si confida: «Ho ricevuto un messaggio di augurio da De Gaulle», dice il futuro Giovanni XXIII, che era stato nunzio apostolico a Parigi nel dopoguerra, «ma questo non vuol dire che in tal senso votino i cardinali francesi. So che vorrebbero eleggere Montini». Fu eletto lui, e Andreotti lo aveva capito, e lo disse a suo modo. Questo è uno dei mille episodi vissuti da Andreotti che ha sempre fiutato in anticipo l’aria che tirava Oltretevere e ne ha filtrato i rapporti con l’Italia, almeno fin quando è finita la prima repubblica e altre logiche poi son subentrate.
Una leggenda circolava nei palazzi della politica: il celebre archivio di Andreotti è stato segretamente trasferito in Vaticano. Custodendo per sempre i segreti della storia repubblicana. Una leggenda sfatata quando l’archivio fu donato all’Istituto Sturzo.
Ma di segreti e fatti riservati accaduti Oltretevere – mai riferiti nei suoi numerosi libri, uno su tutti Ad ogni morte di papa – Andreotti ne deve aver appresi molti, da quando frequentava la biblioteca vaticana da giovane presidente della Fuci e da dove ebbe inizio la sua storia all’ombra di Alcide De Gasperi. Ma anche di papi e cardinali.
Uno su tutti: Pio XII. Eugenio Pacelli ha rappresentato il cuore del "partito romano" della Curia, quello a cui Andreotti ha sempre fatto riferimento, e a cui sono appartenuti in epoche diverse i cardinali Alfredo Ottaviani e l’amico Fiorenzo Angelini, l’ultimo porporato ancora in vita vero figlio della lupa capitolina, per tutti "Sua Sanità". Un blocco d’ordine fieramente anticomunista in cui si muoveva anche monsignor Roberto Ronca, e che ottenne da Pio XII il trasferimento a Milano di Giovanni Battista Montini come arcivescovo, di fatto rimuovendolo dalla sua posizione-chiave di Prosegretario di Stato per gli affari ordinari. L’operazione fu fondamentale per capire il clima dell’epoca. Anche De Gasperi e la sua politica centrista era avversato dal blocco conservatore della curia che faceva capo ad Ottaviani. Dice lo storico Andrea Riccardi: «Come molti ecclesiastici il senatore è convinto che, da Roma, le cose del mondo, anche religiose, si vedano in una prospettiva migliore». È in questa prospettiva – quella del Papa-Vescovo di Roma, rispolverata da papa Francesco, ma su altri presupposti – che si può leggere il rapporto tra Andreotti e la Chiesa, dove le sponde del fiume tendono a unirsi. Non c’è un legame con un papa, ma con il Papa. Naturale il particolare feeling con l’ala diplomatica della Santa Sede, da cui Pacelli proveniva. I suoi referenti privilegiati negli anni sono stati i cardinali Domenico Tardini, ma anche Agostino Casaroli e Achille Silvestrini. Con la morte di Pio XII viene un po’ a mancare un punto di riferimento al vertice. Ma gli anni cambiano e nella Dc avanzano nuovi protagonisti: Fanfani stringe un rapporto con il potente sostituto Angelo Dell’Acqua, poi Cardinale Vicario, mentre di Montini, dal 1963 Paolo VI, è noto il rapporto con Aldo Moro e prima con De Gasperi. E il rapimento dello statista, con Andreotti alla guida del governo, mette in luce una politica Italia-Vaticano distillata in anni di relazioni con la mediazione democristiana: il papa amico di Moro limita il suo intervento a un appello, rimanendo leale nei confronti del governo italiano e della linea della fermezza abbracciata dalla Dc e prima di tutti dal presidente del Consiglio. Poi arriva il papa straniero, che per un romano può essere uno shock. Ma Andreotti lo accoglie con simpatia, superando le riserve del mondo ecclesiastico italiano a lui amico. La storia recente della Chiesa non si può comprendere se non si tiene conto di quello che è stata la politica di cui il senatore è stato al centro. Forse non è un caso che un anno fa, quando le sue condizioni si erano aggravate, sia stato ricoverato al Gemelli nel giorno della visita tanto attesa di Benedetto XVI al grande policlinico romano. Per anni ha diretto la rivista 30 giorni, dedicata alla Chiesa nel mondo, uno dei pochi organi di stampa italiani ad aver dedicato ampi servizi al cardinale Jorge Mario Bergoglio, da lui incontrato più di una volta.
Carlo Marroni
QUELLE RELAZIONI «DISINVOLTE» NELLA FINANZA BIANCA –
Raccontò lo stesso Giulio Andreotti in un appunto di qualche anno fa su 30 Giorni, la rivista che ha diretto molti anni: «Con il patriarca Luciani mi ero incontrato solo una volta. Era venuto a Palazzo Chigi per manifestare la sua preoccupazione per la lotta sottile che si stava sviluppando contro le banche cattoliche». In particolare l’interesse del cardinale, allora patriarca di Venezia arrivato a Roma senza i paramenti del porporato, era per il destino della Banca Cattolica del Veneto, che se la passava davvero male.
Finanza e Curia. Due filoni della storia andreottiana vissuti come convergenze parallele, come dimostrano i molti episodi che hanno costellato (e spesso gettato ombre oscure) la sua lunga vita. Relazioni pericolose, come quella con Michele Sindona, da lui elogiato pubblicamente, con lo Ior, dove si sono addensati sospetti di suoi conti segreti, e i sospetti in altri casi, come il crack di Gianbattista Giuffrè, "il banchiere di Dio". In ogni caso quella del Presidente è sempre stata una grande e spesso disinvolta attenzione verso la branca romana e papalina della "finanza bianca", contrapposta sia a quella nordica di matrice liberale sia soprattutto a quella laica che per molti decenni ha ruotato attorno a Mediobanca. Tanto che non poche volte ha visto Andreotti contrapposto più o meno direttamente a Enrico Cuccia e al gruppo di imprenditori e manager che a lui facevano riferimento. Ma questo non ha impedito negli anni ad Andreotti di creare attorno a sé un nucleo di finanzieri, banchieri e imprenditori di alterne fortune. Su tutti - in epoche recenti - Cesare Geronzi, che sotto l’ombrello andreottiano (ma non solo) ha costruito negli anni ’90 la Banca di Roma, poi diventata Capitalia. Un legame solido, che in certi momenti ha costituito un crocevia di rapporti con altri protagonisti della finanza romana. Un sistema di relazioni e di potere finanziario-immobiliare che tuttavia non ha mai rappresentato un disegno strategico. In perfetto stile di pragmatismo andreottiano, dove la politica dei piccoli passi (e il più delle volte "dei due forni") era il progetto in sé. E così sono cresciuti, e talvolta prosperati, (e il più delle volte caduti) uomini come Sergio Cragnotti, che nella imprenditorialità romana ha costruito un gruppo in quel momento forte - poi sfociato in uno dei maggiori scandali finanziari della storia del paese - fino all’acquisto della Lazio calcio, poi sponsorizzata dalla Banca di Roma. Ma anche figure non poco discusse come Giuseppe Carrapico - cui fu affidata la strategica mediazione sul caso Mondadori - fino a Renato Bocchi, che per una breve stagione si mosse con destrezza spregiudicata nella giungla immobiliare della capitale.
Ma anche manager come Franco Nobili, che nell’89 a sorpresa fu nominato alla presidenza dell’Iri (battendo Franco Viezzoli sul filo di lana): un vecchio amico cattolico e democristiano, fortissimo nel mondo delle costruzioni cui sempre a inizio degli anni ’90 si affiancò l’imprenditore Carlo Lavezzari alla testa della neonata, e sin da subito assai poco fortunata Iritecna, dove furono fuse Italimpianti e Italstat. È in effetti in coincidenza con il suo ultimo governo 89-92 che il suo potere sulle partecipazioni statali si consolidò dopo la scomparsa prematura del ministro Piga. Infatti assunse per due anni l’interim del ministero di Via Sallustiana, luogo simbolo del potere politico sull’economia della prima repubblica ormai alla fine, in anni in cui furono decise partite molto importanti (qualcuna dagli effetti disastrosi) come la fusione Enimont, la nascita di Banca di Roma e il riassetto dell’acciaio incentrato sull’Ilva. Ma le relazioni andreottiane in economia e finanza hanno potuto contare, per molti anni, su un peso massimo come Lamberto Dini, dal 1979 al 1994 direttore generale della Banca d’Italia. Una sorta di contraltare al laico di formazione azionista Carlo Azeglio Ciampi, che da Andreotti non fu mai amato. Anzi, nonostante fosse Governatore della Banca d’Italia non è mai stato da lui ricevuto a palazzo Chigi.
Carlo Marroni
DAL RIGORE DI MAASTRICHT ALL’ESPLOSIONE DEL DEBITO –
Un’esperienza lunga e controversa, vissuta per decenni ai massimi vertici istituzionali del Paese, che nel campo dell’economia ha lasciato il segno, su fronti e versanti i più disparati. Quando, il 7 febbraio del 1992, nella cittadina olandese di Maastricht i capi di stato e di governo si riunirono per dar vita a uno dei pilastri della costruzione europea, il Trattato che avrebbe dato origine all’Unione economica e monetaria, a rappresentare il governo italiano c’era proprio lui, Giulio Andreotti. Era la settima volta che presiedeva il governo. Agli Esteri c’era Gianni De Michelis, al Tesoro Guido Carli. Ispirata al consueto realismo, che spesso sconfinava nel cinismo, la prima dichiarazione a caldo di Andreotti: «Dopo il vertice di Maastricht dobbiamo assolutamente rimboccarci le maniche per riassorbire il debito pubblico, ma evitando di fare delle curve a U che possono anche essere rischiose».
«Un severo percorso di risanamento - osserverà qualche anno dopo rievocando quelle giornate - era ormai comunque inevitabile, anche senza i vincoli di Maastricht. Con la globalizzazione dei mercati non si può più competere tirandosi dietro, ad esempio, un’elevata inflazione». Era la proiezione dello spettro degli anni anni Settanta, quando l’inflazione a due cifre erodeva redditi e risparmi, trascinata dall’impennata del prezzo del petrolio. La decisione dei paesi arabi produttori di petrolio di quadruplicare, in seguito alla «guerra del Kippur», il prezzo del greggio che passò da 3 a 12 dollari per barile, aveva innescato una crisi che scosse dalla fondamenta le economie dei paesi occidentali. E l’Italia ne subì pesantemente le conseguenze.
Andreotti presiedeva il suo secondo governo (Dc-Psdi-Pli) in carica dal 26 giugno del 1972 al 12 giugno del 1973. Quando tornò a palazzo Chigi, il 29 luglio del 1976, l’indice dei prezzi al consumo era al 17%. La spesa pubblica, che nel 1970 era al 38% del Pil, a fine decennio avrebbe toccato quota 46,3%. È in questi anni che si determina lo squilibrio dei nostri conti pubblici. All’esplosione della spesa non fece seguito un analogo andamento delle entrate, che nel 1970 erano al 33% del Pil, per crescere ma solo al 36,5% nel 1979. L’incremento del disavanzo ne fu l’inevitabile conseguenza: dal 3,6% del 1970 al 10,2% del 1979. Andreotti guidò in quegli anni ben tre governi: un monocolore Dc dal 29 luglio 1976 al 16 gennaio 1978, un governo a maggioranza Dc-Pri-Psdi dal 20 marzo 1979 al 31 marzo di quello stesso anno.
Nel mezzo c’era stato l’accordo Lama-Agnelli sul punto unico di contingenza, ma anche la riforma fiscale del 1973, la prima grande riforma organica del sistema tributario dopo quella varata da Ezio Vanoni all’inizio degli anni Cinquanta. Drastica limitazione della spesa pubblica, incremento delle entrate per ridurre il disavanzo, interventi pubblici in settori strategici tra cui l’edilizia, l’energia e l’agricoltura: gli impegni programmatici che Andreotti assunse davanti al Parlamento nel luglio del 1976, proprio mentre si preparava la nuova stagione politica (il compromesso storico), si trovarono a fare i conti con le restrizioni imposte dalla Banca d’Italia e con le manovre che il governo fu costretto a varare per far fronte alla crisi.
E fu proprio il governo Andreotti a imporre agli italiani la medicina amara dell’aumento dell’Iva, del blocco parziale della scala mobile per i redditi più elevati. Misure che si accompagnavano all’aumento del tasso di sconto dal 12 al 15%, all’incremento dal 30 al 50% del finanziamento obbligatorio in valuta dei crediti all’esportazione. L’effetto sui conti pubblici fu immediato, con il fabbisogno che scese nel 1977 al 12,5% dal 13,2% del 1976. Ma la grave crisi acuì le tensioni sociali e l’attacco terroristico allo Stato raggiunse proprio in quei mesi il suo culmine, fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro.
Quando Andreotti tornò a palazzo Chigi per presiedere gli ultimi due governi (Dc-Psi-Psdi-Pli) era il 22 luglio del 1989. Situazione radicalmente mutata, dopo la stagione dei governi Craxi, Goria e De Mita. Non quella del debito pubblico, che proprio in quel decennio raddoppiò in valore assoluto. È la pesantissima eredità che quella classe politica e di governo ha lasciato sulle spalle delle generazioni future. Tra il 1989 e il 1992, con Andreotti a Palazzo Chigi, il debito passò in rapporto al Pil dal 93,1 al 105,2 per cento. E il conto da pagare fu salatissimo, in quel drammatico autunno del 1992, con l’Italia fuori dal meccanismo di cambio europeo e a un passo dalla bancarotta.
Dino Pesole