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 2013  maggio 07 Martedì calendario

LA DONNA CHE SEDUSSE LO SPIRITO DEL NOVECENTO

Forse, Alma Schindler non era «assolutamente» la più bella ragazza di Vienna.
Ma la Vienna fin de siècle, ancora intatta o quasi nella sua imperial regia potenza, era l’Otre di Eolo dell’arte e della scienza. Diventerà il Vaso di Pandora da cui sgorgherà la Grande Guerra. Ma questa è un’altra storia. Fuori i nomi, subito, dei «suoi uomini», tanto per dare l’idea, anticipando che quella che segue è una lista approssimata per difetto: Alma sposerà il compositore Gustav Mahler, l’architetto Walter Gropius, «anima» della Bauhaus, lo scrittore Franz Werfel. Amerà i pittori Gustav Klimt e Oskar Kokoschka e l’infelice musicista von Zemlinsky, affascinata dal suo «dire» tardo romantico quanto respinta dal suo aspetto fisico. Musica, architettura, letteratura. Pare che Kokoschka, dopo la turbinosa, psicotica e carnale relazione con Alma, raffigurata nel 1914 come «La Sposa del Vento», convivesse con una bambola-clone-replicante in scala naturale, realizzata da un artigiano con le fattezze della donna amata e perduta. Un’opera simbolo: protagonista del dipinto è l’uomo, non la donna che gli dorme accanto. Questo, malgré soi, sarà il destino della vedova di Mahler. Comunque una gran bellezza, Alma, figlia di un pittore paesaggista, Emil Jakob Schindler, che muore cinquantenne, nel 1892, quando lei ne ha soltanto dodici. La vedova, la cantante Anne Sofie Bergen, sposa Carl Moll, uno dei padri della Secessione Viennese. Il Ventesimo Secolo arriva con una spallata. E l’imprinting funziona, mica no.
Così, l’atanor in cui si riorganizzano gli elementi alchemici di una vita straordinaria, già borbotta sul fuoco. A mettere ordine cronologico e non solo in una successione di eventi, accadimenti, incontri, occasioni, passioni e tragedie che saturerebbe la trama di un romanzo da Comédie Humaine, arriva la biografia della saggista francese Catherine Sauvat Alma Mahler. Musa del Secolo (236 pagine, 16 euro) pubblicato in Italia dall’editrice bolognese Odoya, edita nel 2009 per i tipi della parigina Payot & Rivages. Di solito non usa e quindi lo facciamo: chapeau! al traduttore Marco Pegoraro che nulla ha tolto alla musicalità di un testo che scorre via senza mai appesantirsi, pur nell’intrico delle cronache quotidiane. E dei suoi rimandi. Un fil rouge, il diario di Alma e una messe di documenti e foto finita tra gli archivi di un’università americana, per seguire i passi di una donna che ha sgranato il rosario dei giorni come astro e come ombra di uomini che hanno traghettato l’Ottocento sulla battigia del Novecento. Ad Alma, presto non basterà la Vienna di un bel Danubio che non è più blu. New York, Berlino, Los Angeles. Con un’avvertenza: non sfogliare l’album di fotografie così da scansare lo sfregio del tempo anagrafico. Capita che il conto si pareggi prima della fine. Accennavamo alla tragedia. Alma perde nel 1907 la prima figlia, Putzi Mahler, di quattro anni. La seconda ad andarsene è Manon Gropius, uccisa diciottenne, nel 1935, dalla poliomielite. Nel frammezzo, il figlio avuto da Franz Werfel durante il matrimonio con Gropius, Carl Martin, muore a dieci mesi. Va detto che Gustav Mahler, malato di cuore, sposato nel 1902, scompare nel maggio 1911. La relazione di Alma con Gropius era già in atto, tant’è che il compositore era finito sul lettino di Freud. Annotazione neogotica: per sua volontà, il cuore venne trafitto da una lama. L’ossessione di essere sepolto vivo non lo abbandonava da anni. Una seduttrice, certo. Un’inquieta musa altalenante tra depressione, rassegnazione ed euforia, abbandoni carnali, rari sensi di colpa, rapacità.
Non una Madame Bovary di provincia. Qualcos’altro, di molto diverso. Un’artista di sé stessa, anche, che pure compone lieder e li sottopone a von Zemlinsky, chiuso in un corpo ingrato, maleodorante di vino. L’idea c’è, le dirà, la tecnica no. Ha una bella voce, Alma e si accompagna al pianoforte. Ma l’autore di Die Seejungfrau le dice il vero. Più in là non può andare. Sarà lei a convincersi di essere condizionata, poi, dalla personalità di Mahler, eccellente padre ma scarno amante, protetto sino ai quarant’anni da una sorella votata a lui più di una vestale. Non si riconoscerà nello strazio dell’incompiuta Decima Sinfonia, composta a Dobbiaco nell’estate del 1910, pregna del dolore stratificato per la morte della figlia e per il tradimento di Alma. La verità, forse, sta nell’Adagietto della Quinta Sinfonia, scritta tra il 1902 e il 1903, che tutti conosciamo “grazie” al capolavoro viscontiano Morte a Venezia, tratto dal romanzo di Thomas Mann. Quella era la visione della bellezza decadente e perduta, la stessa di quei Kindertotenlieder che reputava una maledizione, composti dal marito in amore e in memoria, come la “Pavane” di Ravel, di una bambina morta. Un’amazzone predatrice, una catalizzatrice di ésprit du temps dal Vecchio al Nuovo Mondo, un’artista più dell’essere amata che dell’amore vissuto. Il baricentro, il nodo gordiano, il giunto cardanico è lei. Amica di Berg, due volte sposa di artisti ebrei ma antisemita da tempo. La nemesi: Werfel deve fuggire per non appuntarsi sul risvolto della giacca la stella gialla con la scritta «Juden»: i due passano da Vienna alla Francia alla Spagna al Portogallo, sino a New York e a Los Angeles. Werfel sa cosa sia il genocidio: il suo libro migliore è “I quaranta giorni del Mussa Dagh” del 1933, che narra lo sterminio degli armeni cristiani perpetrato dai turchi nel 1915. La cronaca dice che anche Werfel morirà di cuore, d’infarto del miocardio, a Los Angeles, nella calda estate del 1945. Catherine Sauvat rifocalizza l’autobiografia di Alma pubblicata in Italia da Castelvecchi nel 2012, ndrnon tanto nel suo ricorrente boccato auto-assolutorio e, perché no, un tantino “malato” (il desiderio giovanile di essere violentata, la pervicacia nell’avere un uomo comunque, sposato o meno che sia, nella compiaciuta vertigine della carne e dell’intelletto, il già citato versante antiebraico), quanto nell’aderenza alla cronaca, inevitabilmente allentata dal tempo e dalla necessità di ricordare un po’ “pro domo propria”. Resta, intatta, la moviola di un’esistenza straordinaria perché fuori dall’ordinario, nella palese disparità aritmetica tra l’amore ricevuto e quello dato. Forse pensava a questo, Gustav von Aschenbach, appoggiato al bastone da passeggio, seduto sulla gondola che beccheggiava sul Canal Grande. Una sola colonna sonora era possibile. L’«Adagietto» di Mahler. E anche questa è un’altra storia.