Franco Bechis, Libero 7/5/2013, 7 maggio 2013
QUANDO AL DIVO GIULIO DIMEZZAI LO STIPENDIO
Non era facile dirglielo. E devo averlo fatto proprio male, perché dopo un’ora di amabilissima chiacchierata e di lunghi giri di parole nel suo studio da senatore a vita a palazzo Giustiniani, Giulio Andreotti si era stretto la giacca da camera di lana intorno al collo, e chino su alcuni fogli, mi disse: «Allora, vuole licenziarmi? Non avete più bisogno di me?». Era il 2004, ero direttore de Il Tempo e Andreotti era una delle prime firme del quotidiano: da alcuni anni curava tre giorni alla settimana la rubrica delle lettere, cui per contratto si aggiungevano quattro editoriali al mese. Un commentatore di prestigio, e un contratto importante anche per il peso economico che aveva. L’editoria iniziava a sentire i morsi della crisi, tutti i gruppi cercavano di ridurre le proprie spese, e il quotidiano romano non faceva eccezione. Dall’amministrazione avevo ricevuto il compito di ritrattare il compenso di Andreotti, con la speranza di arrivare a un taglio del 50%. Non sapevo proprio come dirglielo quel giorno. Non fu evidentemente felice il giro di parole che trovai per entrare in argomento: «Allora, vuole licenziarmi?». No, mai nemmeno immaginato. Eppure quel mio infortunio fu quasi una fortuna, perché di fronte al timore della rottura unilaterale del rapporto di collaborazione, fu quasi un gioco da ragazzi dimezzare “lo stipendio” a quell’uomo che aveva fatto la storia d’Italia. «So di essere stato ben pagato in questi anni», disse Andreotti, «ma sa, ne avevo bisogno perché i miei difensori, il professore Coppi e Giulia Bongiorno, hanno onorari assai salati. Ora i processi sono finiti, e ne ho meno bisogno. Però mi piacerebbe continuare a rispondere alle domande dei lettori del Tempo. Scrivere mi fa sentire ancora in vita anche alla mia età...». Quando disse “ancora in vita”, non sembrò un vezzo: la voce si incrinò, era sincero.
Quelle risposte ai lettori continuarono per anni, arrivando puntuali ogni settimana dalla sua segreteria cui passava i testi rigorosamente scritti a mano. Spesso in tre-quattro righe sapeva regalare una notizia con una capacità che molti giornalisti non hanno. Se aveva qualcosa che voleva dire, trovava la lettera giusta per porre la domanda e probabilmente se la scriveva lui stesso per l’occasione. Non era mai banale. Per gli editoriali si faceva sentire di tanto in tanto. Spesso gli toccavano coccodrilli di altri famosi d’Italia che aveva conosciuto nel profondo, e in quell’occasione rivelava sempre una chicca inedita. Così fece quando se ne andò Gianni Agnelli, e dopo anche per il fratello Umberto di cui ricordò in poche righe l’esperienza politica. Raccontò Giovanni Paolo II attraverso la storia dell’albero di Natale in piazza San Pietro che il papa volle a fianco del presepe mettendo fine a una secolare disputa (perfino nella famiglia Andreotti) fra simboli pagani e simboli cristiani del 25 dicembre. Tre anni dopo la morte di Bettino Craxi, senza preavviso, inviò in risposta a un biglietto di auguri pasquali qualcosa di più di un ricordo inedito dei giorni di Sigonella. Una busta arrivata al giornale con un breve biglietto: «Caro direttore, poiché vedo che continuano a dirsi inesattezze su Sigonella, credo opportuno pubblicare la lettera di Reagan a Craxi. Ecco l’articolo, che intitolerei “Caro Bettino”». Dopo quasi 20 anni, quasi per caso, un documento che ribaltava gran parte della storia del gelo americano con lettera giusta per porre la domanda e probabilmente se la scriveva lui stesso per l’occasione. Non era mai banale. Per gli editoriali si faceva sentire di tanto in tanto. Spesso gli toccavano coccodrilli di altri famosi d’Italia che aveva conosciuto nel profondo, e in quell’occasione rivelava sempre una chicca inedita. Così fece quando se ne andò Gianni Agnelli, e dopo anche per il fratello Umberto di cui ricordò in poche righe l’esperienza politica. Raccontò Giovanni Paolo II attraverso la storia dell’albero di Natale in piazza San Pietro che il papa volle a fianco del presepe mettendo fine a una secolare ’Italia dopo il dirottamento dell’Achille Lauro e l’assassinio da parte di un commando palestinese di un turista americano sulla sedia a rotelle.
Era uno dei tanti documenti che sbucava fuori sempre per caso da quel temutissimo e leggendario archivio di Giulio Andreotti. Ne è stata custode per una vita la mitica signora Enea (Vincenza Enea Gambogi), la fedelissima segretaria del più longevo politico della democrazia cristiana. Ne aveva lei le chiavi prima nell’ufficio privato di piazza Montecitorio, poi al terzo piano dello stabile di piazza San Lorenzo in Lucina 26. C’erano documenti ri vati protetti come si deve fare, ma gran parte dei faldoni che mi capitò di scorgere da lontano (per dieci anni ho lavorato il piano sopra quell’ufficio), raccoglievano in scrigni il tesoro più tipico di un leader politico della prima Repubblica, il vero segreto delle decine di migliaia di preferenze che i romani per decenni (finchè non divenne senatore a vita) gli tributarono ad ogni competizione elettorale: le raccomandazioni. Faldoni interi riguardavano il periodo in cui fu ministro della Difesa (in 8 governi diversi), e due raccomandazioni di sicuro portavano la firma di Palmiro Togliatti. La prima lettera era una richiesta di licenza straordinaria per un giovane di Reggio Emilia, Elio Giovannetti, militare a Merano, con un fratello operaio (Brenno) ricoverato in ospedale per gravi ferite all’addome. La seconda raccomandazione di Togliatti era per un altro giovane militare che doveva essere trasferito da Palermo a Messina. Per ognuno di quei fogli c’era uno schedario minuziosamente compilato, con la risposta al raccomandante e se era possibile con la notizia del caso risolto. Era così che la politica manteneva il suo consenso nei decenni. Ed era su cose così che si fondava il consenso nella prima Repubblica. Naturale che ad Andreotti non piacesse troppo la seconda Repubblica. Guardava stupito però quel Silvio Berlusconi che ben conosceva quando era imprenditore. Non lo amava all’epoca (fu per Berlusconi che la sinistra dc rischiò di fare cadere l’ultimo governo Andreotti, che tirò a campare ancora qualche mese dopo lo strappo), non sarebbe stato un suo punto di riferimento dal 1994 in poi. Eppure qualcosa del cavaliere lo colpiva. Una volta gli scappò perfino una espressione inusuale: «È un genio», confidando tutta la sua ammirazione per quella scelta di fare una campagna elettorale per le regionali sulla nave Azzurra che toccò ogni costa di Italia. Uno stupore che poi fu ripagato da Berlusconi, quando candidò Andreotti nel 2006 alla presidenza del Senato quasi commuovendolo.