Umberto Gentiloni, La Stampa 6/5/2013, 6 maggio 2013
COSI’ HO ANNUNCIATO AL MONDO CHE LA GUERRA ERA FINITA
«Ero a Roma in servizio per Associated Press, rientrato velocemente da Milano dove avevo visto i corpi di Mussolini e di Claretta Petacci in Piazzale Loreto. Il 3 maggio 1945, nel nostro ufficio a ridosso dell’Hotel Excelsior, giunse la notizia della resa incondizionata della Germania: la prima resa definitiva, senza condizioni, da un teatro della seconda guerra mondiale. Con emozione ricordo che scrissi il mio Cable, poche parole di un breve telegramma per la sede centrale di New York. Bisognava far presto, bruciare sul tempo i nostri concorrenti. In Italia e in parte dell’Austria la guerra era davvero finita».
A George Bria trema la voce per l’emozione quando ricorda quel momento, il suo sguardo si riempie di nostalgia e partecipazione. Nella casa di campagna conserva copia del telegramma, incorniciato e ben custodito tra i ricordi più importanti di una vita da giornalista dedicata senza risparmio al suo lavoro. Un reporter di agenzia, inviato di guerra che ha attraversato l’Atlantico per seguire gli esiti del conflitto, prima in Italia e poi in Germania. Nei decenni successivi si mantiene fedele alla sua seconda famiglia, l’agenzia di stampa Ap, diventando uno dei pilastri del quartier generale al numero 50 di Rockefeller Plaza, nel cuore di Manhattan. «Se dovessi riassumere il mio lungo cammino in un flash di agenzia, direi: una vita curiosa in cerca di notizie».
Bria è nato a Roma, 97 anni fa. Nel luglio del 1922 il padre gestore di una farmacia a Firenze decise di tornare negli Stati Uniti preoccupato dal clima di tensione che metteva a rischio l’attività lavorativa e la serenità familiare. George ha sei anni quando la sua famiglia si trasferisce a Waterbury, una tranquilla cittadina sul fiume Naugatuck, nella contea di New Haven in Connecticut. I ricordi sono nitidi, il legame con l’Italia profondo, mai interrotto, l’accento fiorentino lo accompagna nella ricerca di parole adatte a un tempo così lontano. Parlava italiano con la madre e inglese con il padre, medico nella Grande guerra, di stanza a Vicenza. Pensare all’Italia è come riavvolgere il nastro di un secolo di relazioni e comunicazioni continue.
La seconda guerra mondiale è una svolta, anche esistenziale. Nel maggio del 1944 Bria sale su una Liberty Ship nel porto di New York. La prima tappa è in Virginia al largo di Norkfolk, la flotta comincia ad assumere proporzioni impressionanti: un convoglio di oltre 120 imbarcazioni cariche di uomini, munizioni di ogni genere, strumenti di lavoro, suppellettili e viveri. «Ho scoperto qualche tempo dopo il nostro arrivo in Europa che trasportavamo bombe per gli aerei dell’aviazione americana. Per fortuna non ci hanno colpito durante la navigazione».
La rotta punta al Mediterraneo, destinazione finale Algeri, sede dell’Alto Comando Alleato. Un viaggio di oltre due settimane che appare come un ponte sospeso tra la realtà della vita quotidiana e gli avvenimenti della storia mondiale: «Ricordo l’Oceano solcato da centinaia di imbarcazioni diverse, spesso affiancate per ore di navigazione. E poi l’arrivo delle notizie. Per motivi di sicurezza non potevamo trasmettere, ma ricevevamo gli aggiornamenti dai fronti di guerra. Ero in mezzo all’Atlantico quando ci dissero che Roma era stata liberata e pochi giorni dopo che era iniziato il D Day sulle spiagge della Normandia. Ci abbracciammo, anche tra sconosciuti. Eravamo lontani, ma ci sentivamo vicini, partecipi di ciò che avveniva a chilometri di distanza da noi».
Da Algeri decide di muoversi. Sale un piccolo aereo che lo conduce in Corsica, da lì a Napoli e poi sempre in volo giunge a Roma, tra il 10 e il 12 giugno 1944. Sono dieci i giornalisti dell’Associated Press che coprono gli avvenimenti della capitale appena liberata. «Lavoravamo 24 ore al giorno, senza soste, circondati dall’entusiasmo di chi voleva conoscerci, entrare in contatto con gli americani, o sapere come stesse proseguendo il conflitto in altre zone».
Roma lo cattura, lo coinvolge per le sue bellezze e anche per la caccia alle notizie. I romani gli appaiono talvolta disperati, in altre occasioni divertenti e sfacciati. Il suo compito è duplice: si muove alla ricerca di interlocutori credibili e interessanti (intervista Badoglio, Sforza, Nitti, Parri e altri protagonisti di quella fase concitata), mantiene lo sguardo sulla città, i suoi vicoli, i suoi abitanti in cerca di cibo dediti all’arte di arrangiarsi. Ricorda di aver sorriso alla prima scritta sui muri della città dedicata agli americani: «Meno ciarle e più spaghetti». Per mesi alloggia all’Hotel de Ville, vive in moto perpetuo attraversando la città in lungo e in largo. «Non c’era violenza, anche se era meglio spostarsi a piedi. Le gomme delle jeep erano preda di furti frequenti. Ricordo le passeggiate all’ora del tramonto come fosse ora, attimi sottratti al lavoro per ammirare la città eterna».
Bria si ferma a Roma fino al 1947, parte con De Gasperi nel celebre viaggio negli Stati Uniti, l’anno successivo segue la crisi di Berlino per tornare in Italia per un biennio che si chiude nel 1950. Da lì un itinerario a ritroso verso l’altra sponda dell’Atlantico e una scrivania accogliente. Segue l’Italia da lontano, curioso e attento alle novità. Verrebbe da chiedergli la chiave del segreto di una vitalità così longeva, ma basta osservarlo nel suo salotto, nell’Upper East Side: una grande finestra sull’East River e sulla punta settentrionale di Roosevelt Island, l’iPhone in mano e l’iPad pronto all’uso, alla ricerca di articoli e notizie dal mondo. «Non so quanto la vita possa ancora regalarmi. Cerco di godermi ogni istante, mi piace New York in inverno e dalla primavera con mia moglie ci spostiamo in campagna, al confine con il Connecticut. Gioco a tennis tutti i giorni; fino agli 85 anni ho scalato le classifiche di vari tornei, ora in campo mi muovo a fatica ma sono felice con la racchetta in mano o quando sorseggio un buon espresso».