Stefania Falasca, Avvenire 8/5/2013, 8 maggio 2013
I MIEI OTTO PONTEFICI
Una volta Federico Fellini si divertì a disegnare una caricatura di Giulio Andreotti, e guarda caso, lo ritrasse vestito da cardinale. C’è chi ha letto tutto il curriculum politico del senatore Andreotti avendo come chiave interpretativa i suoi legami con i Palazzi d’Oltretevere. L’aneddotica sui rapporti tra il senatore e il Vaticano è stato un genere di largo consumo, che talvolta è tracimato nel luogo comune o nel leggendario. Scrivendo per 30 giorni, la rivista internazionale che Andreotti iniziò a dirigere dal 1993 fino alla sua chiusura, ho avuto l’opportunità di registrare spesso lo sguardo sulle vicende e le realtà della Chiesa, rimanendone di frequente spiazzata.
Mi ha sempre colpito il modo con cui Andreotti guardava al vescovo di Roma. Tante volte nelle riunioni di redazione, citando anche don Primo Mazzolari, ci ripeteva il criterio per cui il cattolico (e il romano) vuole bene al Papa: naturaliter , a prescindere di chi sia la persona che ricopre pro tempore il ruolo di successore di Pietro. Per lui era bene essere devoti ’al’ Papa, chiunque sia, e non a ’questo’ o a ’quel’ Papa. Ricordo una riunione di redazione nel suo studio a piazza San Lorenzo in Lucina quando disse proprio così, con la sua pacata saggezza romana: «Un Papa per i romani è il Papa e basta, questo o quest’altro fa la stessa cosa». E questo spiega i rapporti di stima e di amicizia che ha avuto con tutti i Papi che ha incontrato: da Pio XI a Benedetto XVI, senza mai sconfinare nella piaggeria o nella ’papolatria’. Ebbe modo di incontrare due volte a Roma anche l’allora cardinale Bergoglio. Una prima volta nel giugno del 2006 a San Lorenzo fuori le Mura, dove è la tomba di Alcide De Gasperi, in occasione di una celebrazione per le cresime amministrate dall’arcivescovo di Buenos Aires; Andreotti e sua moglie Livia lo salutarono all’uscita della Messa. Una seconda nel marzo del 2009, nella medesima circostanza.
Certo, è evidente che un legame particolare lo ha unito a papa Montini, che era stato suo assistente ai tempi della Fuci e con cui ha condiviso anche il dolore per l’assassinio del comune amico Aldo Moro.
Su 30 giorni fece pubblicare la proposta di trasformare in festa nazionale il 20 settembre, data della presa di Porta Pia: alla riunione di redazione ci ripeté proprio le parole con cui Paolo VI definì provvidenziale la fine del potere temporale dei Papi. Aveva poi sempre manifestato l’istintiva ritrosia riguardo alla prassi invalsa di iniziare i processi di beatificazione dei Pontefici a poco tempo di distanza dalla loro morte. Secondo lui era opportuno attendere un congruo lasso di tempo, almeno cinquant’anni, per lasciar sedimentare controversie e incomprensioni e verificare se davvero intorno alla figura del Pontefice si consolida nel tempo una durevole e fondata fama sanctitatis.
Si è sempre indugiato anche sui rapporti di Andreotti con molti membri del Collegio cardinalizio. È nota, tra le altre, la foto che ritraeva il giovane Andreotti durante una gita nelle campagne intorno a Segni in compagnia di tre giovani – Pericle Felici, suo fratello Angelo e Vincenzo Fagiolo – destinati a diventare tutti e tre cardinali di Santa Romana Chiesa. Ma ho potuto verificare più volte di persona che la familiarità e le relazioni coi porporati erano solo una parte di una più ampia filigrana di amicizie, preghiere, corrispondenze, piccoli gesti di aiuto concreto che legavano Andreotti a un’innumerevole e variegata schiera di sacerdoti, religiosi, missionari di ogni parte del mondo. Mi era capitato diverse volte, trovandomi nei luoghi più lontani, di incontrare qualcuno che mi diceva: salutami il direttore e ringrazialo ancora di quella volta che ci ha aiutato.
Soprattutto un aiuto discreto e silenzioso.
In questo modo ha dato frutto quell’apertura davvero cattolica, cioè universale, che è così connaturale alla fede che aveva ricevuto da bambino. Ci aveva raccontato tante volte di aver conosciuto la geografia e i problemi che sentiva alla Lega missionaria studenti, quando era giovinetto. Roma, per lui, è sempre stata il posto in cui passano tutti, una ’postazione’ unica per arrivare con lo sguardo ai problemi e alle speranze degli uomini in ogni parte del mondo. Per questo, anche negli ultimi anni, era rimasto sempre diffidente verso quelli che teorizzano lo scontro di civiltà, richiamandosi in maniera pretestuosa a un malinteso ’orgoglio’ cattolico. Per Andreotti – ce lo ha ripetuto spesso – la fede è un regalo. Quando si riceve, si dice semplicemente grazie, non si monta in superbia.