Fabrizio Roncone, Corriere della Sera 07/05/2013, 7 maggio 2013
«CON ME DICEVA ANCHE LE PAROLACCE. MA GLI HO DATO DEL LEI FINO ALL’ULTIMO»
Giulio Andreotti raccontato da Paolo Cirino Pomicino.
«Lo conobbi nel ’74, ero un trentenne assessore al Comune di Napoli e lui il ministro del Bilancio. Con un altro giovane democristiano, Pino Amato, poi massacrato dalle bierre, avevamo deciso di entrare nella sua corrente. Gli detti subito del "lei", e sempre, fino all’ultimo, ho continuato a dargli del "lei". Ma con un privilegio: ho sempre avuto la possibilità di dirgli se, magari, pensavo stesse facendo una sciocchezza. Una volta, alla vigilia di un congresso, mi guardò serio: "Scusa, Paolo: stai per caso insinuando che sono uno stronzo?". Era rarissimo sentirgli dire parolacce, la interpretai come una dimostrazione di grande complicità».
Paolo Cirino Pomicino, 73 anni, da Napoli, fu uno dei grandi capi della Dc. Temuto. Riverito. Due volte ministro. Il più eccentrico degli andreottiani (corrente potente e assai discussa, si andava da Salvo Lima e si finiva a Vittorio Sbardella, lo squalo).
«Più che uomo di partito, però, Giulio era uomo di governo. Si era formato accanto a De Gasperi, questo ebbe sempre un peso. Certo i suoi uomini sapeva comunque difenderli, anche quando erano nel mirino. Fui personalmente testimone di un episodio che ho riferito ai giudici di Palermo. L’episodio è questo: un giorno vidi entrare Salvo Lima e Giovanni Falcone nel leggendario studio che Andreotti aveva a Roma, in piazza San Lorenzo in Lucina. Quando uscirono, chiesi a Giulio: "Scusa, ho visto bene?". E lui: "Sì, certo. Falcone è venuto a spiegarmi le ragioni per le quali ha accusato di calunnia il pentito Pellegriti, che aveva accusato Salvo d’essere il mandante dell’omicidio Mattarella"...».
Pausa (Pomicino sospira). È un aneddoto che porta diritti al rapporto Andreotti-mafia, e al convincimento dei giudici di Palermo che Andreotti ebbe rapporti molto ravvicinati, concreta collaborazione, con Cosa nostra, almeno fino al 1980. Pomicino decide di chiudere l’argomento con un esercizio retorico che si apre a molte obiezioni. «No, ecco, appunto... e se di mafia dobbiamo parlare, è ragionevole pensare che il campione dell’antimafia, cioè Falcone, girasse con un mafioso e insieme andassero a trovare addirittura Belzebù? No, non è credibile. Per questo, la storia che Andreotti avesse rapporti con Cosa nostra è una delle tante leggende metropolitane...».
Non è una leggenda che, nei suoi memoriali, Aldo Moro riservò ad Andreotti i giudizi più severi.
«Moro scrisse cose che, al suo posto, in quella condizione, avremmo probabilmente scritto anche noi. Però io ce l’ho ancora davanti lo sguardo lacerato di Giulio, in quei giorni, nella solitudine di chi governa e che è costretto a scegliere tra la vita dell’amico e la tutela dello Stato. Voglio dire che, in quei tragici giorni, Giulio si comportò da statista. Un rango che, sul piano internazionale, gli era già riconosciuto da tempo. Ricordo infatti che nel 1976, alle prese con il governo delle cosiddette "larghe intese", con il Patto di Varsavia da una parte e il Patto Atlantico dall’altra, il cancelliere tedesco Helmut Schmidt, di ritorno da un G5 a Lisbona, fece sapere che gli alleati occidentali avrebbero sostenuto un simile governo italiano solo a condizione che alla sua guida ci fosse, appunto, Giulio Andreotti».
Poco fa, la voce di Pomicino è finita sui siti di corriere.it e di Repubblica.it. Poche battute a caldo, l’emozione che si scioglieva in lacrime. Anche adesso, a tratti: sospendiamo un momento, onorevole?
Pomicino ha come un guizzo.
«Sa chi fu il primo a far entrare Arafat a Montecitorio? Fu lui, Giulio, che ha sempre tentato di concertare tra la giusta difesa di Israele e le ragioni dei palestinesi. Ebbe un eccellente rapporto anche con gli Stati Uniti, e però non esitò a usare la mano ferma, nella notte di Sigonella, quando la nostra sovranità nazionale fu messa a rischio. Ripeto: era uomo di governo, e infatti non fu mai segretario della Dc. Il rapporto più forte? Con Forlani. Nel ’73, Forlani era segretario e Giulio stava a Palazzo Chigi e... furono fatti fuori dai dorotei e dalla sinistra di base che portarono alla segreteria Fanfani. Il quale, incontrando Andreotti, gli disse: "Giulio, dove ti eri cacciato ieri sera? Peccato, abbiamo dovuto decidere senza di te..."».
Scriveranno che Andreotti se ne è andato con i suoi segreti.
«Giulio porta con sé i segreti che tutti i grandi uomini di Stato, per il bene dello Stato, portano con sé... Era l’ultima domanda?».
Sì.
«Allora però dobbiamo concludere così: dobbiamo dire che Giulio ha garantito a questo Paese lunghi anni di libertà e democrazia, anche a coloro che la libertà l’hanno scoperta solo recentemente...».
Fabrizio Roncone