Matteo Persivale, Corriere della Sera 06/05/2013, 6 maggio 2013
MCCARTHY E I FANTASMI DI FACEBOOK: FALSI DAL WEB
MCCARTHY E I FANTASMI DI FACEBOOK: FALSI DAL WEB - Poco prima del ritorno in auge della discussione sul se — e in caso affermativo sul come — regolamentare ulteriormente il web in Italia, dibattito riacceso dal presidente della Camera Boldrini, un fotomontaggio diffuso via Facebook aveva colpito la terza carica dello Stato, il cui volto era stato applicato digitalmente sul corpo di una bagnante nuda. Esempio classico di come la tecnologia possa confondere il confine tra vero e falso — tra notizia e bufala — in modi che avrebbero affascinato Orson Welles, falsificatore via radio di invasioni marziane e ammiratore dei falsari d’arte.
Ma come capita spesso quando si parla di cose serissime, la sintesi più acuta si deve a un umorista: Peter Steiner, autore di vignette raffinate come quella che, vent’anni fa, su The New Yorker, illuminò una delle caratteristiche principali dell’allora neonato web. Un cane seduto alla scrivania davanti alla tastiera di un computer dice a un altro cane: «Su Internet, nessuno sa che sei un cane». «Cos’è la verità?», ci interroga da quasi duemila anni il Vangelo di Giovanni, e il cagnolino di Steiner aveva capito subito che Internet, tra le tante rivoluzioni, ne avrebbe portata una particolarmente difficile da assimilare: confondere ancora di più la risposta a quella domanda.
Nel 1993 del cane di Steiner non c’erano ancora Facebook, Twitter o gli smartphone, ma da quasi subito ci fu chi realizzò falsi più o meno riusciti. False notizie diffuse in modo virale, pedofili che si spacciano per ragazzini nei forum per giovanissimi, email mandate da qualcuno che si fa passare per un altro, di male in peggio fino alla Borsa in subbuglio per bufale uscite da qualche forum e rimbalzate nel mondo in pochi minuti, hacker in cerca di password e numeri di carta di credito. L’innovazione rende tutto sempre più facile, a partire da quel fotomontaggio che nel 1997 sembrava rappresentare la principessa Diana morente tra le lamiere della Mercedes nel tunnel dell’Alma a Parigi e ora appare maldestro, fino a opere oggi molto più sofisticate (il ritocco di immagini di guerra che è costato il posto a più di un fotoreporter e un po’ di credibilità a molte agenzie prestigiose, vedi il caso di Adnan Hajj che aggiunse fumo nel cielo sopra Beirut durante i bombardamenti israeliani del 2006).
Facebook fa regolari «purghe» di account finti e fornisce agli utenti istruzioni lodevolmente chiare su come segnalare account falsi. Secondo le stime ufficiali dell’azienda californiana il 7,2% degli account è falso. Facebook ha più di un miliardo di utenti. Il 7,2% di un miliardo è 72 milioni.
Twitter ora cerca di arginare un po’ il fenomeno con quello sbaffino azzurro a fianco del nome utente che garantisce a tutti che si tratta di un account verificato e non di un impostore, ma chi non gode del canale preferenziale accordato a molti personaggi pubblici si trova a fare i conti con falsi account, i «fake» reperibili ovunque nei quali si posta spesso a casaccio — «for the lulz», cioè «per cazzeggiare» come si dice in slang nella patria di Internet e dei falsi — e a volte in malafede.
Il «fake» può essere benigno, chiaramente scherzoso (anche se non manca mai chi li prende sul serio), con risvolti situazionisti come il falso Gianroberto Casaleggio (@casalegglo) il cui assurdo argomentare su Twitter (ieri pomeriggio: «Basta falsi miti. Letti a una piazza e mezza solo per persona e mezza») si fa beffe del teorico del M5S (gli autori: un collettivo di satira, Diecimila.me). O come l’account di «Kim Kierkegaardashian» (@KimKierkegaard) che sempre su Twitter mixa con arguzia le osservazioni della reginetta del reality trash Kim Kardashian con quelle lasciate ai posteri dal sommo pensatore danese Søren Kierkegaard (1813–1855), padre dell’esistenzialismo il cui bicentenario è stato commemorato proprio ieri da Google sulla homepage.
Il regista austriaco Michael Haneke che gira film tanto cupi (La pianista, Caché, Amour) da far sembrare Kierkegaard un mattacchione ha subito la stessa sorte, un «fake» con il suo nome su Twitter nel quale un inglese spiritoso prestava a Haneke la voce di un bizzarro amante dei gatti dallo spelling atroce che si esprimeva con abbreviazioni giovanilistiche e emoticon campate in aria. L’editore del riservatissimo romanziere americano Cormac McCarthy si trovò a dover smentire che l’anziano scrittore avesse aperto un account Twitter (era falso) e qualche giorno fa è toccato a Nick Harkaway, scrittore in proprio, smentire che il John le Carré di Twitter fosse davvero dell’autore de La talpa e La spia che venne dal freddo (Harkaway lo sa bene: le Carré è suo padre).
Matteo Persivale