Mattia Feltri, La Stampa 7/5/2013, 7 maggio 2013
I NOSTRI VIAGGI DI LAVORO TRA CAVALLI E TRESSETTE"
«Ero rimasto bloccato in Cina - dov’ero andato per l’incontro fra Mikhail Gorbaciov e Deng Xiaoping - dalla rivolta di piazza Tienanmen. Quando riuscii a tornare in Italia, trovai i giornali che parlavano di me: ero favorito per diventare capo ufficio stampa del presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Non ci potevo credere. Io ero comunista. Mai militante, ma iscritto al Pci e in seguito simpatizzante. Ammiravo Giorgio Amendola che mi aveva regalato i libri di Antonio Gramsci. Eppure Andreotti voleva proprio me. Nel partito ci furono proteste, specie fra i forlaniani. Ma lui mi conosceva bene e apprezzava il mio modo di lavorare. È quello il ricordo più bello che ho di lui».
Pio Mastrobuoni, 78 anni a settembre, storico corrispondente e capo dei servizi diplomatici dell’Ansa, vide per la prima volta Andreotti a Bruxelles nel 1972. «Da giornalista l’ho seguito per anni, quando era presidente del Consiglio o agli Esteri. Era diffidente ma avemmo subito un buon rapporto perché non ho mai coltivato il pregiudizio. Non mi lasciai impressionare dai luoghi comuni e oggi penso che su di lui si sia riversata una fumisteria di accuse evoluta in una perenne presunzione di colpevolezza. Negli anni in cui sono stato al suo fianco, a Palazzo Chigi, abbiamo solidificato il nostro rapporto. Era un uomo riservato ma con un delizioso tratto di gentilezza. Era abitudinario. Di notte dormiva tre ore e dopo pranzo faceva una pennichella di un’oretta. Un giorno fu costretto a incontrare il ministro degli Esteri tedesco, Hans Dietricht Gensher, nel primissimo pomeriggio. Gli calavano le palpebre. Gli portai un caffè ma niente, crollava. Allora presi a tossicchiare per tenerlo sveglio. Gensher mi rassicurò: “Lo lasci fare”. Continuò a parlare a lungo. Io prendevo appunti ma Andreotti infine si risollevò e rispose al ministro punto su punto. Non ci potevo credere».
«In viaggio condividevamo alcuni vizietti, diciamo così. Ci piaceva giocare a carte. Se c’erano altri si giocava a tressette. Se eravamo solo noi, preferiva quel gioco stupido che è il burraco. Me lo insegnò e alla prima mano volle puntare cinquanta lire. Siccome perdeva aumentò la puntata e alla fine del viaggio mi doveva un paio di milioni (ride, ndr). Naturalmente glieli condonai. Quando sbarcavamo, se avevamo un paio d’ore libere, correvamo all’ippodromo più vicino a scommettere sui cavalli. Una volta riuscì a portare all’Arc de Triomphe pure Mitterrand, che odiava le corse. La cosa che di lui mi stupiva di più era la memoria. Ogni tanto capitava che fossimo in visita in una città e qualcuno gli si avvicinava chiedendo il permesso di salutarlo, e lui spesso sapeva come si chiamava, che faceva suo padre. Era strabiliante. Un giorno mi pregò di recuperare dal suo archivio di via Borgognona - niente di misterioso, è già stato donato alla fondazione Sturzo - una carta su cui aveva annotato qualcosa con la matita blu. Gli dissi: presidente mi dia una mano, di quand’è l’appunto, la settimana scorsa? E lui: no, saranno passati trent’anni. Dopo una ricerca estenuante lo trovai, e l’annotazione blu c’era...».
«Andreotti non era il cinico che tutti credono. Una mattina andai a prenderlo per portarlo in tv. Mi diede appuntamento nella chiesa davanti a casa. Era prima dell’alba, c’era buio pesto. In chiesa lo trovai a tentoni. Mi misi silenziosamente al suo fianco e lui continuava ad armeggiare con le tasche. Non capivo. Di colpo, mentre il sole sorgeva e filtrava dalle finestre, vidi dietro di noi materializzarsi una folla di barboni, e lui dalle tasche estrasse banconote da mille lire per ognuno di loro. Ne conosceva i nomi, uno per uno. Era un uomo che sorprendeva sempre. Andammo a Trieste e non volle parlare: in aereo lesse delle sue scartoffie e all’arrivo parlò per un’ora e mezzo di fisica teorica, lasciando tutti a bocca aperta. Lo so che la mia può sembrare una santificazione, ma io lo ricordo così. Certo aveva anche dei difetti. Il peggiore è che attorno a sé tollerava gente sgradevole, dei mediocri, degli intrallazzatori. Non sto parlando di chissà che. Non pensate subito a Mino Pecorelli o roba del genere. Proprio dei mediocri. Gli erano serviti per allargare la sua corrente e aveva imbarcato un po’ di tutto. L’altro difetto, più simpatico, era la gola. Specie se andavamo nei paesi di gran cucina come la Francia, si faceva delle scorpacciate e poi gli prendeva l’emicrania. Amava il foie gras, le ostriche, i crostacei in genere. Con me si arrabbiò una sola volta, per una notizia su Montedison che avevo dato ai colleghi creando un putiferio. Ma comunque non alzò la voce».
«Il più grande dolore è stato il terribile calvario del processo per mafia. Gli stavo vicino. Andavo a trovarlo spesso, anche a Palermo. Lo salvò la sua agenda, ne sono persuaso. Mi parlava delle cinquemila pagine di ricostruzione dell’incontro con Totò Riina e successivo bacio. Cinquemila pagine! E lui controllava l’agenda, si alzava e diceva al giudice: io veramente quel giorno ero a Tokyo... L’ultima volta l’ho sentito un paio d’anni fa, al telefono. Ma fu una conversazione amara, perché ormai eravamo invecchiati tutti e due».