Mario Deaglio, La Stampa 7/5/2013, 7 maggio 2013
FAR EMERGERE REDDITI E CAPITALI CHE SFUGGONO
A chi vuole presentare proposte di carattere fiscale, specie se ricopre una carica politica, bisognerebbe regalare un manuale elementare di aritmetica e uno di contabilità.
In questi libri si insegna che i conti devono bilanciare e pertanto, se si aumenta una voce dal lato spese, occorre ridurne una, o più dallo stesso lato oppure aumentarne una o più dal lato delle entrate, in modo che si arrivi sempre al bilanciamento finale.
Chi si limita a proporre soltanto un aumento di spese (ad esempio in sussidi sociali di vario tipo) oppure soltanto una riduzione di entrate (a esempio l’abolizione dell’Imu o la riduzione delle imposte per le imprese) non presenta una proposta politica ma solleva un’istanza; non suggerisce una soluzione ma avanza una richiesta, lasciando agli altri l’onere di trovare una soluzione adatta per soddisfarla.
Se la politica è l’arte del possibile, come
sosteneva Bismarck e come praticava
Andreotti, una politica di successo
ha il suo primo requisito nel bilanciamento
dei conti, ossia nella risposta
all’interrogativo fondamentale su come
trovare le risorse per realizzare i progetti.
Se si accetta questa premessa, la prima domanda
che il governo e il Parlamento devono
onestamente porsi è se intendono rispettare
l’impegno ad azzerare il deficit pubblico
strutturale entro la fine del 2013, come a suo
tempo concordato con la Banca Centrale Europea
dal governo Berlusconi nell’agosto 2011
e accettato, nel novembre dello stesso anno,
dal governoMonti; oppure se intendonomettere
in dubbio questo limite gravoso nei prossimi
consigli europei, in una partita che non si
gioca tanto a Roma quanto in Europa.
Dall’Europa viene qualche segnale di minore
severità, soprattutto dopo che ci si è finalmente
accorti che la disciplina di bilancio
imposta da Bruxelles era eccessivamente severa
e stava precipitando l’intera zona euro
in una bruttissima caduta produttiva, creando
disoccupazione e crescente disagio sociale,
che, al limite, potrebbe mettere in forse il
regolare funzionamento dei meccanismi democratici.
Tre settimane fa, alcuni studiosi
hanno dimostrato che la base teorica delle
politiche di austerità è molto più debole del
previsto, basata su clamorosi e banali errori di
calcolo e forse non è un caso che da allora tutti i
Paesi in difficoltà sono stati trattati da Bruxelles
con un briciolo di indulgenza, che qualcuno
chiamerebbe realismo: è stato loro concesso di
far slittare di uno-due anni ilmomento del fatidico
pareggio dei conti pubblici. Tutti meno
l’Italia. Per impostare una politica fiscale dobbiamo
prima chiederci perché l’Italia è stata
messa nell’angolo.
La risposta sta nella debolezza politica internazionale,
nel calo di credibilità che l’Italia
ha posto in luce dalle elezioni fino alla recentissima
fiducia al governo Letta: da un sistema
elettorale sciagurato sono derivati una combattutissima
elezione del Presidente della Repubblica,
un Parlamento che impiega tempi
lunghissimi per compiere operazioni elementari,
come la nomina delle commissioni parlamentari,
e un’interminabile crisi di governo.
Non è un caso che, appena ottenuta la fiducia,
il presidente del Consiglio si sia precipitato
nelle capitali europee che veramente contano
per la politica economica e per quella fiscale. A
Bruxelles (e a Berlino) l’Italia deve ristabilire
la propria credibilità, cancellare il forte effetto
negativo di due mesi di crisi politica prima di
poter eventualmente richiedere, al vertice europeo
di giugno, un trattamento più mite. Per
questo occorre distinguere tra un tempo breve,
in cui vanno effettuate operazioni economiche
e fiscali di emergenza (rifinanziamento
della cassa integrazione, qualche segnale sull’Imu,
pagamento effettivo dei creditori degli
enti pubblici e simili) e un tempomedio, nell’ordine
di almeno un paio d’anni, durante il quale
occorre semplicemente riprogettare tutto il sistema
fiscale.
Ieri il governatore della Banca Centrale Europea,
Mario Draghi, non certo un focoso rivoluzionario,
ha dichiarato che da quasi vent’anni
è in atto una tendenza alla concentrazione dei
redditi delle famiglie e che per il «successo economico
» del Paese occorre «una più equa partecipazione
ai frutti della ricchezza nazionale».
Se si accetta questa impostazione bisogna riconoscere
che l’Imu è un falso problema: il vero
problema è il recupero a tassazione di redditi e
di capitali che oggi vi sfuggono. Occorre impostare
un sistema fiscale che stimoli la crescita
invece di penalizzarla. Parallelamente al sistema
fiscale va riprogettata l’intera struttura
dell’amministrazione pubblica, dalla quale è legittimo
richiedere prestazioni più efficienti.
Se non si predispone un sistema in grado riportare
alla luce redditi e capitali, i possibili
miglioramenti fiscali non potranno mai considerarsi
risolutivi e non contribuiranno molto
alla crescita del Paese. Su come riprogettare il
sistema fiscale, però, dalle forze politiche, dal
Parlamento e dalla stessa società civile non sono
giunti finora contributi significativi, frutto
di un sonno intellettuale che dura da vent’anni.
Ci si affanna sulle piccole misure, pur necessarie,
ma ci si dà pochissimo pensiero ai grandi
disegni e ai grandi provvedimenti, come all’inizio
di una legislatura si dovrebbe fare.