Giuseppe Videtti, la Repubblica 5/5/2013, 5 maggio 2013
BETTIE PAGE LADY PIN-UP
Al 303 della Bowery, nella Manhattan che fu il teatro di beatnik e punk, c’è un negozio di abbigliamento rétro che porta il suo nome, Bettie Page. Top leopardati, bustier glitterati, négligée di voile rosso, culotte di pizzo, giarrettiere maliziose, pantaloni da odalisca in crêpe trasparente, abiti attillatissimi in raso nero, accessori in pelle da mistress sadomaso; quel misto di erotismo ed esotismo che hanno trasformato una pin-up nel più peccaminoso oggetto di desiderio del dopoguerra, e successivamente in un marchio formidabile che non ha mai smesso di solleticare erotomani e fashion designer. Un emporio ben più grande, sullo stile di quelli che accolgono i fan di Elvis a Graceland, sta per aprire nel cuore di Nashville, la capitale della country music che novant’anni fa diede i natali alla scandalosa signorina. È il sedicesimo punto vendita gestito dalla Tatyana Design ad essere inagurato in punti strategici degli Stati Uniti (uno, ovviamente, si trova a Las Vegas, sin city per eccellenza).
Bettie Page non avrebbe fatto quella carriera se fosse rimasta prigioniera del conformismo del sud; non sarebbe diventata un’icona celebrata in un vasto repertorio di libri, film e fumetti se la sua vita “scandalosa” non fosse ancora tema di dibattito per biografi e psicanalisti. Ultimo in ordine di arrivo,
Betty Page - La vita segreta della regina delle pin-up
(Bettie è una deformazione del vero nome, Betty Mae Page) indaga ora sul passato della brunetta esplosiva le cui la nudità, che oggi finirebbero nella pubblicità del bagnoschiuma, erano materiale pornografico scambiato sottobanco e a rischio di pene severissime. Degli anni in cui posava in topless o nuda a Miami e New York si sa praticamente tutto. Più oscuro è invece il periodo in cui si dileguò dalle scene — enigma che ha già ispirato due film usciti nel periodo in cui la rinascita del burlesque ha riportato prepotentemente a galla le immagini bondage scattate alla metà degli anni Cinquanta, quando apparve anche sulle pagine di
Playboy.
Il fatto che non avesse mai scelto un nome di fantasia è testimonianza che la Page non appartenesse al circuito delle spogliarelliste. Era una segretaria, diplomata a pieni voti, che sbarcava il lunario facendo la modella; figlia della Grande Depressione cresciuta in una famiglia in cui ogni femmina che nasceva era accolta come una disgrazia. Mamma Edna non riuscì a prendersi cura dei sei fratelli, decise di tenere con sé i maschietti e affidare le bambine a un orfanotrofio. «Era una moglie fedele, mio padre un verme. Molestò tutte e tre le sue figlie», confessò la Page sessant’anni dopo. Abusò sessualmente di lei quando aveva tredici anni. «Non mi ha mai stuprata per paura di mettermi incinta, ma mi toccava continuamente». Roy Page, un meccanico squattrinato, comprava il silenzio della piccola con gli spiccioli per il cinematografo. Ragazza modello, studentessa zelante, figlia remissiva: avrebbe fatto qualsiasi cosa per sciogliere il gelo di una madre anaffettiva. Divenne sposa precoce di un marito che le fu scippato dalla guerra e iniziò la carriera di maestra. La bellezza, una condanna. «Non potevo controllare i miei studenti, specialmente i ragazzi», raccontava, sottolineando che i più grandi non le risparmiavano apprezzamenti da scaricatore di porto. Decise di investire sul suo corpo, sacrificandolo per la propria indipendenza. Hollywood era tappa obbligata; forte accento del sud, trucco sbagliato: la Warner la tenne in ballo per ruoli di serie B. Quando tornarono a cercarla, lei per restare
accanto al marito Billy Neal tornato dalla guerra non rispose al telegramma.
Ventisette anni e poche prospettive, fino a quando non incrociò Jerry Tibbs, un poliziotto di colore con la passione per la fotografia. Iniziò la carriera da pin-up nei Camera Clubs, modella a ore per professionisti e/o erotomani in incognito. Lo stile Bettie Page nacque negli squallidi scantinati di Brooklyn e Manhattan dove venivano allestiti i set: capelli neri con la frangetta, occhi blu, forme perfette. Bettie posò dal 1950 al ’57 e nell’arco di questi anni fu ritratta in una grandissima quantità di scatti che non ha uguali nella storia della fotografia, alcuni dei quali pubblicati sui girlie magazine, gli antenati di Playboy, molti dimenticati e recuperati solo negli anni Novanta. Le molestie erano consuetudine, la rassegnazione causa di molte occasioni perdute. «Nel 1955 mi chiamò Howard Hughes», raccontava. «Disse che voleva farmi un provino nel suo studio. Ma io avevo sentito dire che non avrebbe fatto niente a meno che non fossi andata a letto con lui. Non sono una di quelle. Non l’ho mai richiamato ». Confessò anche di aver ricevuto una telefonata in incognito da Katharine Hepburn, intrigata dalle sue foto bondage con altre donne. «Mi sono stesa sul letto e ho chiuso gli occhi. Ha fatto tutto lei. Avrei potuto vendere la storia alla rivista
Confidential, allora nessuno sapeva della sua doppia vita. Ma non volevo che i miei fan pensassero che anch’io fossi lesbica». A nessuno passò mai per la mente una cosa del genere. Tanto meno a Frank Sinatra che la invitò nella sua villa di Palm Springs per presentarle un amico che si rivelò essere J. F. Kennedy (il futuro presidente ebbe anche un flirt con Tempest Storm, la rossa incendiaria del burlesque). Fecero sesso a bordo piscina. «Aspettavo da tanto», le disse, «ho tutte le tue foto».
Con tutto quel materiale “pornografico” che circolava in buste chiuse per gli States non meraviglia che nel 1960 l’Fbi aprisse un file su Bettie Page (reso pubblico nel 2010) nel corso di una gigantesca inchiesta sull’influenza nefasta della stampa erotica. Dopo gli interrogatori e una serie di episodi di stalking Bettie volò via da New York e cominciò una nuova vita. L’illuminazione avvenne in una chiesa di Miami la notte di capodanno del 1960. Ma chi voleva una missionaria ex pin-up e pluridivorziata? Visse in solitudine, perseguitata dai suoi fantasmi, più incline alla follia che alla preghiera. L’angelo nero che turbava i sogni degli uomini diventò una psicopatica che brandiva coltelli e pistole in preda a deliri mistici. Diagnosi: schizofrenia paranoide. Nel 1982, dopo l’ennesima aggressione, fu condannata e internata per dieci anni in una casa di cura per malattie mentali. Il suo nome era diventato un brand quando fu dimessa. Non le restò che riavvicinarsi ai fratelli e consultare un avvocato (l’ultimo di tanti truffatori) per cercare di recuperare i diritti sulla sua immagine e tirare avanti con gli introiti dell’autobiografia The life of a pin-up legend (2006). Sarebbe morta in miseria se Hugh Hefner,l’editore di Penthouse, non le avesse dato una mano. Nell’opuscolo commemorativo che fu distribuito al funerale, nel 2008, c’erano le sue ultime parole: «Non ho cercato di essere scandalosa o di essere una pioniera. Non ho cercato di cambiare la società o di anticipare i tempi. Non ho pensato di essere un’emancipata e non credo di aver fatto qualcosa d’importante. Sono solo stata me stessa. Non conosco altro modo di essere o di vivere». E difatti ha creato uno stile. Imitabile. La Madonna di Sex e la Uma Thurman di Pulp fiction — dive più fortunate — ringraziano.