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 2013  maggio 05 Domenica calendario

OTTORINO MANCIOLI L’ARTISTA TENNIS

Fu davanti al muro che rimasi folgorato. Era, il muro, quello del vecchio Tennis Club Parioli di Roma, divenuto Circolo dei Giornalisti in seguito a dislocazioni causate dall’Olimpiade del 1960. Era stato, il vecchio Parioli, la sede nella quale noi tennisti azzurri ci si rifugiava, durante gli allenamenti della Nazionale, a partire dagli Anni Cinquanta. Qualche volta, nei momenti in cui un gioco quale il tennis necessita di meditazione, mi era accaduto di ribattervi la palla, contro quel muro, per scoprire le ragioni di un’improvvisa insufficienza, della crisi di un colpo. Ma non riuscivo a immaginare che il muro potesse diventare il luogo di illustrazione degli sport dei quali una vocazione mi aveva spinto a occuparmi, sulle pagine della Gazzetta dello Sport, e poi del Giorno,
sempre nella benefica ombra di un fratello maggiore, Gianni Brera.
Su quel muro c’erano affreschi che, pure nella mia modestissima cultura di visitatore di pinacoteche, e caricaturista per diletto di tennisti, mi parevano straordinari: diciotto sport, divisi geometricamente l’uno dall’altro in sette metri per due, ma tanto egualmente ispirati e, nello stile, somiglianti da rimanere attoniti. Erano gemelli, quegli affreschi, a disegni che Brera era andato pubblicando sulla Gazzetta quando ne era direttore, e della quale, diciottenne tennista, ero divenuto collaboratore.
Mi ricordavo di avergliene parlato con curiosità, di quei disegni, e Gianni mi aveva risposto: «È Mancioli. Cacciatore e paracadutista come me. Ci siamo conosciuti alla Scuola di Viterbo del 1941, una élite di sciagurati, un po’ come i goliardi che eravamo appena stati, e forse eravamo ancora. Poi sono accadute varie cose, certo più drammatiche per lui. L’hanno spedito in Africa, a El Alamein. Ma, soprattutto perché il cielo era in mano degli inglesi, mandano i paracadutisti a dare il cambio alla Divisione Brescia. Mentre vanno di pattuglia su una camionetta, la notte, saltano in aria. Ci sono i neozelandesi pronti a prenderli prigionieri. Ma Ottorino ha tre bombe a mano. E fa parte di un club molto esclusivo: “Prigionieri mai”. Finisce che fa saltare una camionetta, ma con un Thompson gli bucano una spalla. Appena tornato a Roma sarà costretto a disegnare con la sinistra, a diventare, come dici tu, bimane. Anche adesso, quando spesso andiamo insieme a caccia, tira come fosse mancino».
Questo dialogo non figura certo nel carteggio 1955-1988 tra Brera e Mancioli, morto nel 1990, che viene conservato con amore da Laura, uno dei due figli sopravvissuti all’eclettico pittore perdiletto, giacché campò facendo il medico come sua principale attività. Ma il ricordo mi fu sufficiente, dopo un’occhiata ai disegni apparsi sulla Gazzetta, per inquadrare, almeno un poco, quell’opera veramente inattesa. Alla fine della contemplazione mi affrettai dal Segretario del Circolo dei Giornalisti per domandargli se non sembrasse il caso di proteggerla, quella che era sicuramente un’opera d’arte. Alla sua sorpresa, dissi che era possibilissimo ricoprire il dipinto con una plastica trasparente, di quelle che si usano nei quadri per difenderli dal sole. «E chi gioca a muro, che fa?» rispose il poveretto, scettico. Affermai che lo spessore della vetrina in plastica non avrebbe impedito il palleggio. Ma, da questo, e da un successivo tentativo presso amici giornalisti, non venne nessun aiuto, e ora il dipinto appare, mi dicono, trasformato in una successione di macchie. Tutto ciò fa parte del destino non certo felice che contrassegnò la vita di Mancioli.
Subito dopo la guerra venne “epurato”, come si diceva allora di chi era stato fascista. Mi domando, e sempre mi domandai, io che vengo da una storica famiglia di antifascisti, cosa avrebbe potuto fare un giovane pittore, se non partecipare a mostre in qualche modo collegate con il Partito. Alla cui dipendenza, in qualche aspetto, furono correlati i bozzetti relativi al Mondiale di scherma, a Merano nel 1939, o alla Triennale d’Oltremare — vedi il destino di El Alamein — nel 1940 e, precedentemente, nel 1932 le opere inviate alle Olimpiadi dell’Arte a Los Angeles, nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino, o il Premio nazionale per l’illustrazione del libro, a pari merito col più noto Spazzapan.
Il carteggio con Brera, ai suoi tempi spesso retrocesso non meno di Mancioli in serie B, illustra tra l’altro il passaggio alla democrazia di chi nacque fatalmente sotto il fascismo. E ci aiuterebbe a capire qualcosa di più di noi stessi.
Ci limiteremo, per ora e forse per sempre, ad ammirare le gigantografie tratte da immagini di Mancioli, e molte delle sue opere, che appariranno in quella che fu, curiosamente, la sede dei processi alle Brigate Rosse, altra ferita del Paese, all’ingresso del Foro Italico, nel corso degli Internazionali di Tennis. Così come in altre nazioni storicamente più felici, nelle annuali mostre create dal Tennis Museum di Wimbledon, e dal Tenniseum del Roland Garros, anche il Foro Italico (ex Mussolini) potrà gloriarsi di un grande artista che ebbe, in vita, soltanto da lamentarsi di chi avrebbe dovuto esser fiero di lui.