Mattia Feltri, La Stampa 5/5/2013, 5 maggio 2013
LA STRADA INFINITA DEL CAMBIAMENTO DA
TRENT’ANNI IN UN VICOLO CIECO -
Mai ci furono così poche riforme come da quando è di moda dirsi riformisti. Giovanni Spadolini in Intervista sulla democrazia laica (Laterza, 1987) osservò: «Il riformismo dei riformatori significa interpretare lo spirito profondo delle istituzioni, quale ci è stato consegnato dai padri fondatori della Costituzione, (...) con le esigenze nuove della società». Cinque anni prima, da presidente del Consiglio, aveva promosso dieci punti di riforma costituzionale che per quanto timidamente enunciati intendevano rafforzare i ruoli del capo del governo e dello Stato. Disse alla Camera: «Reputo necessario che si formi una prassi costituzionale tale per cui il presidente del Consiglio possa proporre al presidente della Repubblica la revoca dei ministri».
Trent’anni dopo, Silvio Berlusconi ripete le stesse cose come fosse il pioniere delle terre impervie della democrazia parlamentare e i fallimenti dipendessero dall’inattesa macchinosità del potere legislativo. Però non è soltanto colpa della politica. Per fare un esempio, ecco alcuni passaggi derisori di Enzo Biagi (a proposito dei dieci punti di Spadolini) sulla Repubblica : «Dopo Mosè, e mi pare del tutto naturale, anche Spadolini... A me pare che il principio più importante sia il vecchio Settimo: “Non rubare”... Spadolini dovrebbe anche aggiungere una postilla all’editto: i massoni, come vanno considerati?...». L’idea già allora era che Spadolini, e forse l’intera classe politica, non avessero i titoli per mettere mano alla Carta. È risaputo che a Bettino Craxi non andò tanto meglio, e il suo decisionismo - un po’ figlio delle aperture di Spadolini, un po’ del presidenzialismo che aveva lanciato sull’ Avanti! fin dal 1979 - gli fece guadagnare stivaloni e orbace (fascisticamente) nelle vignette di Giorgio Forattini. E però la commissione bicamerale Bozzi - dal nome del parlamentare liberale che la presiedette - nacque proprio nel quadriennio craxiano per individuare dove la seconda parte della Costituzione avesse bisogno di aggiornamenti. Indovinate? La priorità era di superare il b i c a m e ra l i s m o perfetto (Camera e Senato chiamati al medesimo compito) attraverso il principio del silenzio assenso: una legge passa automaticamente se, approvata da un ramo del Parlamento, non solleva perplessità nell’altro. Ancora: abolizione del semestre bianco per il capo dello Stato, fiducia soltanto al premier (che dunque sostituisce i ministri senza passare dall’Aula), democrazia interna dei partiti e loro regolamentazione giuridica (i partiti sono ancora adesso gestiti come il Club della briscola). Ma quella commissione ebbe soltanto poteri consultivi e il lavoro terminòin nulla.
Le proposte dei dieci saggi nominati da Giorgio Napolitano non sono tanto dissimili. Tutti oggi concordano che l’elezione del presidente della Repubblica è da aggiornare, il bicameralismo perfetto è preistorico, i parlamentari vanno sfoltiti, la natura giuridica dei partiti e il loro finanziamento va regolato, il premier deve esercitare perlomeno più agilmente i suoi poteri. La Bicamerale del 1992-94, con presidenti Ciriaco De Mita prima e Nilde Jotti poi, fra le altre cose rafforzava le competenze regionali (sulla spinta delle proteste leghiste) e introduceva il premierato sul modello del cancelliere tedesco. Chi è giovane non ricorda la vita di quel Parlamento, ribattezzato «il Parlamento degli inquisiti» per la quantità di avvisi di garanzia ricevuti: e così le conclusioni di quella bicamerale furono clandestine. Si entrò nella Seconda Repubblica con la Costituzione della Prima e, se a questo giro non saremo baciati da improvvisa fortuna, con la medesima tenteremo di fondare la Terza. L’unica vera novità - e cioè la legge elettorale uscita dal referendum sull’uninominale del 1993, per cui il premier lo si elegge e non viene nominato dopo le elezioni - non è mai stata tradotta nella Carta; in quel caso i governi Monti e Letta non sarebbero nati: ma per una sola riforma, cinque legislature furono insufficienti.
Alla ristrutturazione complessiva si dedicò pure la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema (1997-98). L’elenco è il solito: premierato o semipresidenzialismo, riduzione dei parlamentari, sepoltura del bicameralismo perfetto, riconversione federalista eccetera. Finì a pesci in faccia (soprattutto a causa di Berlusconi). E per cui da lì in poi le riforme sono state fatte a colpi di maggioranza, come quella del titolo V per mano del governo Amato (2001), che introdusse dozzinali norma di devoluzione per ingolosire gli elettori del Nord. Come a colpi di maggioranza si fece la riforma federalista di Roberto Calderoli nella legislatura 2001-06: il Senato sarebbe diventato “delle Regioni” ma un referendum popolare, votato più con spirito di fazione che riformista, abrogò la legge. Lo si ricorda a proposito casta e anticasta: con quella legge già dal 2008 avremmo oltre duecento parlamentari in meno.