Luca Ricolfi, La Stampa 5/5/2013, 5 maggio 2013
PARLIAMO DI TASSE SENZA IDEOLOGIE
E’ passata una settimana dal giuramento del governo Letta, e alcune cose stanno diventando chiare a tutti. La più importante è che, contrariamente a quanto si poteva sperare, Pd, Pdl e Scelta civica non hanno sottoscritto alcun accordo, patto o programma sulle cose da fare. In sostanza: hanno deciso di salire tutti sulla medesima barca, ognuno con la sua ciurma di viceministri e sottosegretari, ma per ora navigano a vista.
Questa assenza di un piano preciso risultava evidente fin dal discorso con cui Enrico Letta ha chiesto la fiducia, un discorso ricco di analisi sensate e di propositi condivisibili, ma del tutto carente sui due punti decisivi: esplicitazione delle priorità (cosa è urgente e cosa è rimandabile), indicazione delle coperture (dove trovare i soldi). E infatti, nel vuoto di questa duplice omissione, si sono immediatamente inseriti innumerevoli distinguo, avvertimenti, minacce, che rischiano di far naufragare il vascello governativo prima ancora che esso esca in mare aperto. Se ministri, viceministri e sottosegretari si sentono autorizzati a rilasciare quotidianamente interviste e dichiarazioni di ogni genere, è innanzitutto perché non esiste un piano d’azione chiaro ed esplicito cui richiamare le forze che sostengono il governo.
In questa situazione è inevitabile che le questioni più spinose, prima fra tutte quella dell’Imu e delle tasse, occupino il dibattito pubblico. Personalmente avrei preferito un governo che avesse chiesto la fiducia dicendo chiaramente che cosa intendeva fare in materia di tasse, quali fossero le sue priorità, e se intendeva oppure no restituire l’Imu versata nel 2012. E lo avrei preferito per una ragione semplicissima: l’incertezza danneggia l’economia, e l’eccesso di esternazioni di ministri e politici non fa che aumentare l’incertezza. Capisco benissimo che un disegno di legge in materia fiscale richieda una verifica preliminare dei conti pubblici e una messa a punto meditata delle nuove norme, capisco assai meno che cosa abbia impedito e impedisca di indicare fin da subito almeno l’indirizzo generale dei provvedimenti che si preparano, come è normale che sia da parte di un governo politico.
Ma ormai le cose sono andate così, il governo ha preferito prendere tempo non solo sul piano tecnico ma anche su quello politico, quindi prepariamoci: per settimane si discuterà di Imu, di Iva, di tasse vecchie e nuove, di sgravi e di aggravi. In questa situazione, che cosa può fare un giornale?
Probabilmente una cosa soltanto: aprire una discussione vera, il più possibile aperta e informata, mettendo in campo dati, analisi e idee. Ma soprattutto: una discussione senza pregiudizi, senza ideologie e partiti presi. Una discussione in cui ci si senta liberi di dissentire, anche da se stessi ovvero da quel che si è scritto o pensato in passato.
E’ quel che faremo nei giorni prossimi, invitando chi si è occupato di fisco e tasse a intervenire con la massima libertà e spregiudicatezza. E, per rompere il ghiaccio, comincio a farlo io stesso, con un paio di interrogativi provocatori.
Primo. Siamo sicuri che l’Imu sia un’imposta così innocente, sotto il profilo degli effetti sulla crescita?
Dico questo in chiave autocritica, perché è capitato anche a me di sostenere la tesi che le imposte sul patrimonio siano fra le meno dannose ai fini della crescita, un’idea peraltro molto diffusa fra gli studiosi. Però, dopo aver osservato gli effetti del primo anno di super-imposta sulla casa, sono assai meno sicuro di quel che fino a qualche tempo fa mi pareva relativamente scontato. Mi sembra che i difensori dell’Imu abbiano sottovalutato l’ampiezza di tre effetti che il passaggio dall’Ici all’Imu ha comportato: la perdita di posti di lavoro in edilizia, la riduzione della ricchezza patrimoniale degli italiani, il calo della domanda di consumi conseguente a tale riduzione (il livello dei consumi non dipende solo dal reddito, ma anche dal patrimonio). Su questo, qualche tempo fa, «La Stampa» ha ospitato una piccola polemica fra Renato Brunetta e me: dopo un anno di cura-Monti, propendo a pensare che, almeno per un paese come l’Italia, molto dipendente dall’edilizia e pieno di proprietari di casa, la sua posizione drammatizzante sugli effetti dell’Imu fosse più ragionevole della mia posizione tranquillizzante.
Secondo interrogativo. Siamo sicuri che, sempre ai fini della crescita, un’Iva bassa sia una priorità?
E’ chiaro che nessuno si augura più Iva, e che l’ideale sarebbe tagliare alcune spese superflue per evitare l’aumento (automatico) dell’imposta. E tuttavia colpisce l’enfasi dei media sull’Iva, e la contemporanea modesta attenzione dell’opinione pubblica al Ttr (Total tax rate), ossia all’imposizione complessiva sul profitto commerciale, che in nessuno dei 34 paesi Ocse raggiunge il livello stratosferico che ha in Italia (68,3%). Eppure, a pressione fiscale costante, un aumento dell’Iva compensato da una riduzione equivalente del Ttr avrebbe effetti positivi su crescita, occupazione e bilancia dei pagamenti (l’Iva grava sulle importazioni, ma non sulle esportazioni). Se, come è verosimile, non si riuscirà a ridurre la spesa pubblica improduttiva, e si finirà solo per spostare il peso fiscale da una tassa all’altra, forse, prima ancora di chiederci come evitare l’aumento dell’Iva, dovremmo chiederci come ottenere una diminuzione del Ttr, senza la quale è difficile immaginare una ripresa dell’occupazione.
Avrei, in materia di tasse, anche qualche altro interrogativo, ancora più politicamente scorretto degli altri due. Ma per ora mi fermo qui. L’importante è cominciare finalmente ad affrontarlo, questo nodo che pesa sul futuro dell’Italia. E farlo nel modo più libero e disincantato possibile, senza riflessi condizionati e pregiudizi. Almeno sulle tasse, sarebbe bello che la smettessimo di chiederci, alla Giorgio Gaber, «che cos’è di destra?» e «che cos’è di sinistra?», ma soltanto che cosa si può fare, di concreto, per ridare un po’ di speranza a chi non ne ha più.