Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 05 Domenica calendario

IL DEBITO RESTI LA SFIDA DEI GOVERNI

Le controversie sono un elemento fondamentale per il progresso della scienza, e dunque l’articolo che ha messo in evidenza le imperfezioni metodologiche e un errore di formula in un saggio degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff è solo un episodio come tanti nella vita quotidiana del mondo accademico. Jean Pisani-Ferry
Ma è un episodio che sui mezzi di informazione e nella blogosfera ha suscitato commenti straordinariamente accesi (e semplicistici). Growth in a Time of Debt, il breve saggio del 2010 in cui Reinhart e Rogoff sostenevano la tesi che il debito pubblico comincia ad avere effetti negativi sulla crescita economica quando raggiunge la soglia del 90% del Pil, non è mai stato considerato una pietra miliare della ricerca economica. La comunità accademica aveva accolto con un certo scetticismo questa approssimativa caratterizzazione empirica di fatti stilizzati, e i due autori hanno al loro attivo lavori di ben altro spessore. Google Scholar, il motore di ricerca per il mondo accademico, registra oltre 3mila citazioni accademiche per il saggio di Rogoff più citato, contro meno di 500 per Growth in a Time of Debt. Quello che normalmente sarebbe rimasto un semplice argomento di conversazione per addetti ai lavori, però, è diventato tema di discussione per giornalisti, commentatori e policymakers. Per tutte queste persone, la cosa che conta è che la caduta in disgrazia del saggio di Reinhart e Rogoff taglia l’erba sotto i piedi ai sostenitori del rigore di bilancio. Qualche mese fa Olivier Blanchard, l’economista capo del Fondo monetario internazionale, aveva già criticato i suoi colleghi e i governanti e alti funzionari dei Paesi avanzati per la sistematica sottovalutazione dell’impatto recessivo dei programmi di consolidamento dei conti pubblici. La débâcle del saggio di Reinhart e Rogoff è vista in generale come l’ennesima, fatale dimostrazione della fragilità delle fondamenta intellettuali dell’austerity. Ma è vero solo in parte. Prima del saggio di Reinhart e Rogoff, le tesi in favore della necessità di risanare i conti pubblici erano basate principalmente sui timori per la sostenibilità del debito pubblico. Il dubbio era se uno Stato sovrano sarebbe stato in grado di rifondere il suo debito, date certe condizioni economiche e finanziarie e date tendenze di lungo periodo come l’invecchiamento della popolazione e le incertezze sugli orientamenti futuri della politica economica. Il problema era che gli economisti non erano in grado di quantificare un debito pubblico eccessivo. Non c’era una soglia predeterminata sotto alla quale il debito era innocuo e sopra alla quale diventava pericoloso. Di conseguenza, il messaggio che arrivava alle autorità incaricate di decidere la politica economica era contraddittorio. Gli economisti erano come quei dottori che dicono ai pazienti che un po’ di vino può far bene, ma troppo fa senz’altro male, senza essere in grado di dire quanti bicchieri al giorno sia possibile bere senza correre rischi. Dicevano cose giuste, ma drammaticamente imprecise. La confusione era particolarmente acuta all’inizio del 2010, quando è stato pubblicato Growth in a Time of Debt. L’economia globale in quel momento stava appena emergendo dalla recessione più grave del dopoguerra. Un piano di stimoli globale in stile keynesiano aveva evitato il peggio e l’interrogativo di politica economica più pressante del momento era se fosse necessario continuare a sostenere l’economia o fosse invece arrivato il momento di cominciare a rimettere in ordine i conti pubblici. Alcuni dicevano che il risanamento poteva aspettare, perché l’economia era ancora in una situazione di pesante recessione: un aggiustamento troppo drastico, secondo questo punto di vista, avrebbe avuto un impatto pesante su un settore privato ancora debole. Alcuni sostenevano il contrario, argomentando che non c’era tempo da perdere, vista la portata dell’impresa. Il saggio di Reinhart e Rogoff sembrava offrire l’argomento perfetto per i fautori del risanamento rapido, e questo è il motivo per cui è stato tanto citato nei dibattiti sulle politiche economiche. L’austerità, secondo queste persone, era necessaria per arrestare l’aumento del rapporto debito/Pil e salvaguardare la crescita a lungo termine. Certo, il risanamento avrebbe potuto comportare dei costi nel breve termine, ma i benefici sul lungo periodo sarebbero stati molto maggiori. Anche se Reinhart e Rogoff non giungevano esplicitamente a questa conclusione nel loro saggio, molti lo hanno fatto per loro. Per un ministro o per un alto funzionario, la tentazione di spiegare che il risanamento doveva partite immediatamente perché ci si stava avvicinando alla soglia del 90% era troppo forte, e la maggior parte di loro ha ceduto alla tentazione. Il fatto di aver grande affidamento su dati che - ora si è scoperto - non erano affidabili lascia i falchi del rigore in una posizione difficile (a dir poco) rispetto ai loro avversari. Vale in particolare per l’Europa. Avendo promesso che un rapido risanamento dei conti pubblici avrebbe portato benefici per la crescita, mentre invece ha prodotto recessione, l’Unione Europea ha deluso i suoi cittadini. Il logoramento delle politiche di austerity sta lasciando il segno e i Governi rischiano di perdere consenso se insistono nei loro sforzi di risanamento. Il pericolo è che il discredito che è caduto sui sostenitori di un’austerità affrettata possa andare a detrimento dei fautori della responsabilità di bilancio nel lungo periodo. Se così fosse, i mercati finanziari potrebbero giungere alla conclusione che la sostenibilità del debito pubblico è seriamente a rischio, e questa percezione potrebbe avere effetti fortemente negativi sulle condizioni di finanziamento, con il risultato finale di un rallentamento della crescita (che, per ironia della sorte, darebbe ragione a Reinhart e Rogoff). Questo episodio mette in evidenza una volta di più l’importanza del rigore intellettuale. Certo, non è un credo sempre facile da rispettare. I ricercatori si lasciano tentare da risultati convincenti e in grado di suscitare l’interesse dei policymakers, che a loro volta sono tentati di privilegiare quei dati in grado di provvederli di munizioni adeguate nel dibattito interno e internazionale. Come le vicende di Reinhart e Rogoff dimostrano, cedere a l’una o l’altra di queste due tentazioni non è mai consigliabile.

Project Syndicate, 2013 (traduzione di Fabio Galimberti)