Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 04 Sabato calendario

LE TASSE IN MANO A FASSINA RISCHIAMO UN ALTRO VISCO

«Capisco la scelta di tenermi fuori». Così parlò, meno di una settimana fa, il giovane turco Stefano Fassina per spiegare la sua mancata nomina a ministro. Roba forte, da alta politica. Mica conflitti di poltrone o equilibri da far torna- re in casa Pd. «Credo sia prevalso – si legge infatti nell’intervista al Corriere della Sera di domenica scorsa – un segno di continuità con il governo Monti, che una figura come la mia non poteva garantire. Il mio profilo non sarebbe stato coerente con quel team eco- nomico-sociale». Chiaro? Mica tanto. Anche perché, cinque giorni dopo, forse per la fatale distrazione dei «poteri forti», il governo si è ricordato di Fassina distogliendolo da quella che per lui, almeno fino al week end scorso, era «la priorità»: «Voglio concentrarmi sulla ricostruzione morale ed intellettuale del Pd».
La missione è accantonata. Non si sa cosa ci perde (o ci guadagna) il partito, orfano di cotanto architetto. O, al contrario, cosa ci guadagna o ci perde Enrico Letta con l’arrivo del luogotenente di Bersani che tanto lo fece infuriare con una lettera manifesto al Foglio titolata «Rottamare l’agenda Monti» spedita nell’ottobre scorso quando l’ex premier era ancora (quasi) intoccabile.
Ma, al di là delle trame di partito, c’è innanzitutto da chiedersi come la pensa il neo viceministro dell’Economia, cui Enrico Letta ha affidato una delega delicata, quella alla riforma fiscale. Sull’abolizione dell’Imu, in realtà, Fassina si è già espresso. «Cancellare l’Imu? Io ne faccio un discorso pratico: se improvvisamente abbiamo trovato 10-12 miliardi da spendere ben venga, ma non sarà così. Altrimenti, meglio evitare l’aumento dell’Iva che pesa sui consumi e quindi sull’attività produttiva delle imprese e sul lavoro e cancellare l’aumento dei ticket previsto per il 2014. Queste misure sarebbero più eque e utili all’economia». Insomma, all’apparenza poca ideologia e tanto realismo nelle scelte: ma il risultato non cambia. Del resto, a lui si deve la proposta di un’imposta progressiva sui grandi valori immobiliari, pari allo 0,5% per i valori compresi da 1,2 ad 1,7 milioni di euro e allo 0,8% per importi oltre 1,7 milioni di euro. Guai a chiamarla patrimoniale, semmai una «proposta per l’equità fiscale dei patrimoni». Certo, questa proposta, avanzata in campagna elettorale, non è destinata a far molta strada in questo governo. Ma i sogni, anche quando restano nel cassetto, hanno il loro peso. Del resto, Fassina il suo apprendistato in materia di fisco l’ha fatto nientemeno che alla scuola di Vincenzo Visco, tra il 2006 ed il 2008 («due anni difficili, ma molto istruttivi per me») che lo volle con sé al Nens, il pensatoio di partito in cui stringe i rapporti con Bersani. E non è certo un mistero la vicinanza di Fassina alla Cgil, che di certo non fa mistero del ricorso alla patrimoniale come pietra miliare della «riforma fiscale».
Ma Fassina è troppo abile per farsi rinchiudere in una gabbia rigida. Sulle colonne del Foglio, tre anni fa, in una lunga intervista, non esitò a scagliarsi contro il collega di partito Cesare Damiano, che invocava un «contributo fiscale di solidarietà» per finanziare la cassa integrazione ordinaria. «Posso dire senza problemi che è sbagliata la proposta del gruppo Pd alla Camera. Il bisogno di introdurre altre tasse sinceramente io non lo vedo proprio». In quell’occasione Fassina diede pure il benservito ad una creatura del suo maestro: «Gli studi di settore oggi sono sinonimo di un insostenibile carico fiscale e contributivo per una parte consistente della platea di lavoratori autonomi e per questo andrebbero rapidamente aboliti». E ancora: «Parliamoci chiaro: c’è davvero qualcuno convinto che la spaventosa pressione fiscale che si ha in Italia – con aliquota individuale massi- ma al 43% contro una media del 35,7% nel resto dell’Europa – sia utile alla crescita del paese? Sinceramente credo di no».
Da allora, si sa, la pressione fiscale è cresciuta ancora, sia per le nuove gabelle che per la caduta dell’economia, a sua volta frutto in buona parte della caduta dei consumi. E Fassina, da buon keynesiano con un debole più per Paul Krugman che per Karl Marx, sa che la cosa più urgente è ridar ossigeno alle imprese. Ma come? Attraverso la politica economica di Stato, così cara alla Cgil ed ai giovani turchi? Oppure, forse, è il caso di rifarsi al Fassia pensiero di qualche anno fa, quando l’ex bocconiano si trasferì a Washington, tra il 1999 ed il 2005, prima presso la banca di Sviluppo Interamericano (un anno) poi al Fondo Monetario (cinque anni). I suoi lavori sono senz’altro significativi. Nel saggio dal titolo «Pension Reform in Small Emerging Economies: Issues and Challenges» , scritto in collaborazione con Dowers e Pettinato, i tre autori spendono parole di apprezzamento per il grado di finanziarizzazione dell’economia cilena frutto del sistema pensionistico a capitalizzazione creato nel 1981 (epoca di Pinochet).
Ancor più illuminante il saggio del 2004 sullo Zambia, co-firmato dall’illustre neo vice ministro. Come favorire la crescita? «Le riforme – si legge nella ricerca – aiuteranno a ridurre la disoccupazione (incrementando la flessibilità nel mercato del lavoro ed abbassando i costi del lavoro relativi al capitale), e migliorare la gestione della spesa pubblica grazie alla rimozione di ostacoli all’investimento e alla crescita del settore privato, e lo sviluppo del settore finanziario». A chi dar retta? Al Fassina neoliberista o al giovane turco che chiede un robusto intervento dello Stato nell’economia?