Antonio Maria Mira, Avvenire 7/5/2013, 7 maggio 2013
11 ANNI DI PROCESSI: ASSOLTO
Tredici aprile 1993. Giulio Andreotti , la borsa nera stretta al petto, assediato da centinaia di giornalisti provenienti da tutto il mondo, attraversa il cortile di S.Ivo alla Sapienza, luogo legato al suo passato nella Fuci. Ma questa volta si sta recando alla Giunta per le immunità del Senato che deve decidere sulla richiesta di autorizzazione a procedere inviata dalla Procura di Palermo, con la gravissima accusa di associazione mafiosa. Sei anni dopo anni, 23 ottobre 1999, palazzo Giustiniani, nel suo ufficio da senatore a vita, Giulio Andreotti attende davanti al televisore la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Palermo. È assoluzione e lui, dopo un attimo, ma solo un attimo, di commozione, commenta tranquillo: «Sono contento personalmente e come cittadino. Il sistema anche se lento funziona».
In queste due immagini è racchiusa e ben spiegata la vicenda giudiziaria che, per più di undici anni, ha accompagnato la vita del ’presidente’. Processi accettati, seguiti con attenzione e puntigliosità, spesso presente in aula, senza mai alzare la voce contro i magistrati, «difendendosi nei processi e non dai processi», come ripeteva sempre. Sempre assolto, alla fine, mentre però molti suoi ’uomini’ venivano condannati o peggio, come Salvo Lima, uccisi dalla mafia. «Dovetti fare molta forza a me stesso per non crollare - ci raccontò a proposito del primo episodio . Però è stata una mortificazione che forse bilanciava i troppi onori che avevo avuto nel passato». Certo le battute non le risparmiava e, a proposito dei suoi accusatori, parlava di «pentiti avventizi e pentiti di ruolo». E anche quando arrivarono le condanne, o prescrizioni non molto favorevoli (ritenuto, comunque, in contatto con Cosa nostra fino al 1980), la sua reazione rimaneva soft. «Secondo me è inutile drammatizzare. E poi non è che uno diventa anarchico alla mia età», disse il 18 novembre 2002, in occasione della condanna a 24 anni, in appello, per il delitto Pecorelli. Aggiungendo che «qualche incrinatura» nella sua fiducia nei confronti della giustizia si era prodotta ma, precisando subito, «sul caso singolo, non sul sistema. Se uno non lo rispetta, veramente poi non si sa dove si scivola». Niente accuse dirette ma molti dubbi. Non parlava di complotto nei suoi confronti ma, spiegava, «un suggerimento evidentemente c’è stato ». Aveva detto che ne avrebbe parlato dopo la definitiva assoluzione. Non lo ha mai fatto, tenendosi il ’mistero’. Un altro dei soprannomi che gli avevano affibbiato era Belzebù, il politico dietro a ogni scandalo, a ogni mistero. E lui un po’ ci scherzava ma neanche tanto.
«Forse era fatale. Sono stato per decenni ballerino di prima fila e quindi si diceva: ’Siccome è lì, lui sicuramente c’entra, deve sapere tutto’. E pensare che una delle cose che mi dà più soddisfazione è di non aver mai applicato il segreto di Stato». Vero. Anzi durante il suo ultimo Governo ha tolto quasi tutti quelli che erano stati posti negli anni precedenti. A cominciare da quello su Gladio, la struttura supersegreta della Nato, costituita per ’insorgere’ in caso di invasione da parte delle forze del Patto di Varsavia e in chiave anticomunista. Il pm veneziano Felice Casson gli chiese di poter accedere alle carte dei servizi segreti. Andreotti, tra la sorpresa generale, non solo gli diede il ’via libera’ ma addirittura rivelò l’esistenza di Gladio al Parlamento. «Cossiga non me lo ha mai perdonato», ci disse più volte, pregandoci di non scriverlo. Così come era convinto che quella scelta non fosse stata digerita da ambienti atlantici. «I Servizi hanno pensato che volessi togliere loro un giocattolo dalle mani e hanno ritenuto, anche in modo cretino, che lo facessi per ingraziarmi i comunisti». Che, in effetti, per alcuni giorni in quel 1990 cercarono di capire se la vicenda Gladio fosse un’apertura nei loro confronti. Per poi decidere di usarla, invece, proprio contro Andreotti. Di certo non era la prima volta che il ’Presidente’ lasciava tutti di stucco. Lo aveva fatto dopo la strage di piazza Fontana rivelando che il neofascista Guido Giannettini era uno 007, in contatto proprio con la cellula veneta di Ordine Nuovo considerata responsabile della stagione stragista. Attentati che, ci disse una volta, «hanno sicuramente dietro ambienti dei servizi e della destra, anche quella parlamentare». Iniziative, soprattutto quella di Gladio, che Andreotti vedeva legate alle successive sue disavventure giudiziarie. «Non volevano mettermi in panchina, perché la panchina presuppone che uno possa tornare in campo, ma proprio fuori gioco». Sospettando una ’manina’ Usa. «Certo l’America non ha mai amato la Dc.