Alberto Gentili, Il Messaggero 7/5/2013, 7 maggio 2013
ANDREOTTI, PREMIER 7 VOLTE, HA FATTO LA STORIA DELLA REPUBBLICA
«Alla vita lunga ci ho fatto l’abitudine. Certo, se dipendesse da me chiederei una proroga». Giulio Andreotti ha sempre scherzato sulla morte e sulla sua longevità. «Il merito non è mio se campo tanto. Mi ha avvantaggiato il fatto di essere stato deboluccio da ragazzino. Mi sono riguardato...», disse qualche anno fa. Il riferimento alla cagionevole costituzione fisica è una costante. Famoso un aneddoto che amava raccontare: «Quando feci la visita di leva e fui scartato il maggiore che mi visitò disse: lei non durerà sei mesi. Quando diventai ministro della Difesa cercai quel maggiore, volevo invitarlo a colazione per dimostrargli che ero vivo. Non fu possibile: era morto lui». Insomma, «deboluccio», ma inossidabile nonostante i «feroci attacchi di mal di testa».
IL SACRESTANO
Per questa diversità, per fuggire alle angherie dei suoi coetanei prepotenti, fin da bambino Andreotti scelse come seconda casa la sacrestia. E come amici preti seminaristi. Soprannome: «Il sacrestano». Un nomignolo che lui mal sopportava, ma che anticipava il destino di uomo del Vaticano. Fu a Segni, paesino della Ciociaria dove viveva lo zio cappellaio, che Andreotti cominciò a familiarizzare con quel mondo vestito di nero e odoroso di cera. Morto il padre maestro elementare nel 1922, quando Giulietto aveva appena due anni, Andreotti trovò in don Giuseppe Del Giudice il surrogato della figura patema. La madre, Rosa Falasca, donna forte, segnata , dai lutti e profondamente religiosa, impartì a Giulietto un’educazione spartana. «Non ho mai baciato mia madre», rivelò.
Fin da piccolo, Andreotti sembrava indossasse il doppiopetto grigioferro dei ministri. Alcide De Gaspari quando, a 27 anni Giulietto diventò sottosegretario alla presidenza del Consiglio, disse: «Peccato, Andreotti ha la prudenza di un vecchio». Uscito dal liceo Tasso senza brillare (media poco sopra il 6), si iscrisse a Giurisprudenza e prese la tessera della Fuci, la federazione degli universitari cattolici.
LE RADICI CULTURALI
La Fuci era l’epicentro dell’antifascismo culturale sostenuto dalla Chiesa e tra gli assistenti spirituali formatisi sull’umanesimo di Jacques Maritain c’era un tal Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI.
Discreto, defilato ma attivissimo, Andreotti si trovò ben presto al vertice della Fuci a fianco di Aldo Moro, un barese di due anni e mezzo più grande. I due non si presero sin dall’inizio. Ottimo e sorprendente, invece, il rapporto con papa Pio XII, con il quale Andreotti riuscì a stringere un legame quasi filiale: Giulietto preparò gran parte della tesi in diritto canonico durante le lunghe attese nell’anticamera del Pontefice. Ma poi era il Papa a far saltare qualche volta i programmi del cerimoniale trattenendosi a parlare con quel giovane ossuto, ironico e pratico.
DE GASPERI
L’altra fortuna di Giulietto fu un incontro casuale nel ’38 con De Gasperi nella biblioteca vaticana. E da lì a cascata cominciò a frequentare Guido Gonella, Giuseppe Spataro, Mario Scelba: l’embrione del futuro gruppo dirigente della Dc.
De Gasperi fece avere ad Andreotti nel ’43 un lavoro al Popolo, giornale ancora semiclandestino. E il 19 agosto del ’44 lo impose - susuggerimento di monsignor Montini - a capo del movimento giovanile della Dc. Conservatore e antifascista, Andreotti nel ’52 riuscì a convincere Pio XII a fermare alle elezioni comunali di Roma l’operazione-Sturzo: l’alleanza elettorale aperta ai neofascisti.
RECORD DI GOVERNO
Sette volte presidente del Consiglio - la prima nel 1972, l’ultima nel 1992 quando stava per eclissarsi la Prima Repubblica; otto volte ministro della Difesa; tre volte ministro delle Partecipazioni statali; due volte ministro delle Finanze; ministro del Bilancio; ministro dell’Industria; una volta ministro del Tesoro; ministro dell’Interno (il più giovane della storia repubblicana a soli 34 anni); Andreotti ha bruciato tutti i record della politica.
Sempre presente, dall’Assemblea costituente in Poi. Suo anche il primo «governo di solidarietà nazionale» sostenuto anche dal Pci, nato proprio il 16 marzo del 1978, giorno del rapimento di Moro.
Sua l’invenzione, nel luglio del ’76 del governo della «non fiducia»: un monocolore Dc che si reggeva sull’astensione di tutti i partiti, Msi-Dn escluso. E sua la «politica dei due forni», secondo la quale il partito di maggioranza relativa avrebbe dovuto allearsi alternativamente a Pci e a Psi, in ragione di chi dei due partiti «facesse il prezzo del pane più basso». Invenzione che lo rese inviso a Bettino Craxi, ma con cui però coniò il Caf (acronimo di Craxi-Andreotti-Forlani) per arginare Ciriaco De Mita.
LA PRIMA REPUBBLICA
Tant’è che fu proprio Andreotti, il 22 luglio del 1989 a succedere a De Mita per poi restare al governo fino al 28 giugno del 1992 e infine passare la mano a Giuliano Amato.
Insomma: l’uomo, l’emblema, della Prima Repubblica. Cominciata con AndreoTti, finita con Andreotti. E non c’è scandalo o trama che non lo veda in qualche modo chiamato in causa. Una grandinata di accuse ma mai una prova certa, mai una condanna.
Anche se nel 2004 la Corte di Cassazione, pur stabilendo la prescrizione del reato di concorso in associazione mafiosa, scrisse: «La sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione».
BELZEBU’
Per ben 27 volte i giudici chiesero di poter indagare su Belzebù, il nomignolo che accompagnò Giulietto nell’età adulta.
Dall’avvelenamento di Sindona nel carcere di Pavia con un caffé al cianuro, allo scandalo Lockheed; dai dossier del Sifar finiti nelle mani della P2 di Licio Gelli, agli omicidi di Guido Calvi e Mino Pecorelli; dallo scandalo petroli, agli omissis sugli atti del tentato golpe Borghese. Ma mai una volta al contrario di Silvio Berlusconi è stato tirato in ballo per questioni di donne ed era da sempre legato alla moglie Livia da cui ha avuto quattro figli. «Non sono un angioletto, ma non credo che la donna sia solo carne», disse una volta. Seguì la solita battuta: Altrimenti le bambole nei negozi porno sarebbero da preferirsi, non comportando problemi di sorta».
AMORE ROMA
Romano e romanista, Andreotti portò Dino Viola in senato. E fu lui ad evitare la cessione di Paulo Roberto Falcao. Ed è nella Capitale che Andreotti, grazie ai legami con Franco Evangelisti e Vittorio Sbardella, costruì la fortuna elettorale sua e della potente corrente: partito il 2 giu_gno del 1946 con 25.261 voti, il 15 giugno del 1987 raggiunse 329.599 preferenze. Tredici volte di più. Poi, Giulietto o Belzebù - scegliete voi - non ebbe più bisogno di presentarsi alle elezioni: nel 1992 Francesco Cossiga, che lo detestava, lo nominò senatore a vita.
IL DECLINO
Da quel momento Andreotti cominciò pian piano ad evaporare. Un po’ per l’elezione a presidente della Repubblica sfumata all’ultimo momento a causa dell’assassinio di Giovanni Falcone a Palermo: la morte di Salvo Lima, avvenuta appena due mesi prima, d’improvviso tornò alla ribalta facendo apparire impraticabile l’ascesa di Andreotti al Quirinale. E un po’ perché l’avvento di Silvio Berlusconi che, con il suo partito ad personam, tolse humus e linfa al grande regista e cerimoniere della politica.
L’ARCHIVIO
Conclusione del senatore - a vita: «Ora avrò più tempo da dedicare al mio archivio». Milioni e milioni di documenti che lui ha sempre assicurato essere «inoffensivi».
Ma non solo le carte segrete e la Roma sono state la sua passione. C’è stato il cinema, tanto da impersonare se stesso nel «Tassinaro» di Alberto Sordi. Ci sono state le corse dei cavalli, i gialli Mondadori, la canasta, i francobolli. Ci sono stati l’amore per il latino e Marco Tullio Cicerone, una collezione di statuette del presepe napoletano e una di campanelli c campanacci di tutto il mondo. Soprattutto, un’ironia che a volte sconfinava nei cinismo. Qualche tempo fa disse: «Io passare alla storia? La storia è una cosa seria, io appartengo alla cronaca. Se non fossi nato l’Italia sarebbe andata avanti lo stesso, e nessuno se ne sarebbe accorto».
Alberto Gentili