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 2013  maggio 05 Domenica calendario

4 articoli – BANDITI, BRIGANTI, RIBELLI E GUERRIGLIERI - BARABBA, SOLO UN DELINQUENTE - Si può diventare famosi per caso, come è capitato ad alcuni personaggi minori nella vicenda di Gesù

4 articoli – BANDITI, BRIGANTI, RIBELLI E GUERRIGLIERI - BARABBA, SOLO UN DELINQUENTE - Si può diventare famosi per caso, come è capitato ad alcuni personaggi minori nella vicenda di Gesù. Tra questi una figura alquanto controversa è Barabba, che gli evangelisti introducono proprio al culmine del processo romano intentato contro Gesù di Nazareth: è presentato come «carcerato famoso» (Matteo), «detenuto a seguito di una sommossa» (Marco), «brigante» (Giovanni), «assassino» (Luca). Sebbene famoso allora tra la popolazione di Gerusalemme, il suo ricordo nella storia è legato però al fatto di essere stato graziato al posto di Gesù. Un governatore romano, Ponzio Pilato, che le fonti antiche dipingono come crudele e corrotto, è sorpreso per il silenzio di un uomo che le autorità ebraiche gli hanno consegnato, accusandolo di sedizione, dato che si è dichiarato Messia: l’accusato non si difende. Il silenzio è rotto solo da un dialogo incentrato sulla verità, ma chiuso dalla famosa frase di Pilato: «Che cos’è la verità?». Autorità ebraiche e loro accoliti, con un vasto pubblico — probabilmente di curiosi — restano all’esterno del Pretorio per non contaminarsi in casa di un pagano, ma intendono far sentire la loro voce. E il cinico procuratore fa ricadere su di loro, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, la responsabilità della decisione suprema. Il giudice abdica al suo ruolo e la folla decide: dev’essere graziato Barabba. Ma davvero il giudice abdica al suo ruolo? È l’accusa rivolta da sempre a Pilato. Sarebbe tuttavia importante chiarire se la sentenza di condanna per Gesù e di liberazione per Barabba sia stata l’esito di incapacità (o non volontà) di decisione da parte del governatore; in tal caso ben si attaglierebbe a lui la denuncia di Roberto Benigni: «Chi non sceglie lascia il potere alla folla. E la folla sceglie Barabba. Sempre». Come si può, però, ricavare dai quattro Vangeli, il governatore non è affatto uno strumento nelle mani dei sacerdoti o della folla, dato che è ben consapevole del motivo per cui gli hanno consegnato Gesù. L’evangelista Marco afferma che Pilato sapeva che «glielo avevano consegnato per invidia», una motivazione che non va letta solo in chiave psicologica, ma nella sua più esatta portata, cioè il timore dell’establishment religioso e politico che qualcuno sgretolasse i fondamenti del proprio potere. L’accusa prodotta a Pilato era particolarmente grave e di sicuro lo aveva messo in allarme. Il governatore, però, era consapevole che uno che si spacciava per messia aveva certamente un seguito, così come sapeva che il potere di cui egli era rappresentante non godeva del favore popolare. Molti pensano che anche Barabba fosse un pretendente messia e che, a differenza di Gesù, interpretasse il suo ruolo come quello di capo di una rivolta armata contro i romani. Pilato avrebbe dunque proposto di scegliere tra due messia, che interpretavano in modo assai diverso il loro ruolo. Ciò appare tuttavia molto improbabile, perché significa considerare Pilato uno sprovveduto. Come avrebbe potuto ritenere più pericoloso un predicatore visionario inerme, come appariva Gesù, rispetto a un violento combattente, da cui veniva una minaccia diretta al potere di Roma? La scena della grazia a Barabba non è solo la denuncia di passioni umane da interpretare in chiave moralistica (si veda S. Agostino: «Questo è il carattere proprio degli uomini venduti all’iniquità: sentire in se stessi ripugnanza, avversione, odio per le persone dabbene; simpatia, amore per gli scellerati!»); in essa è invece riflesso un uso strumentale del ricorso alla volontà popolare: sia i sacerdoti sia Pilato sono disposti a lasciare libero un delinquente comune, pur di preservare il potere di cui sono espressione. La folla non ha deciso nulla: qualcuno ha voluto farsi scudo di essa, indicando in Gesù il vero nemico sia del popolo sia dell’imperatore; una folla aizzata, interpellata con espressioni da tribuno: questa è la folla che lascia libero Barabba, perché vittima delle sue paure e di chi conosce le arti della persuasione. Un episodio purtroppo non unico nella storia. Flavio Della Vecchia L’ULTIMA RAPINA DI JESSE JAMES - «La banca è in pericolo!», gridava il giovane Henry Wheeler per le strade di Northfield, Minnesota, il pomeriggio del 7 settembre 1876: dei banditi a cavallo terrorizzavano a revolverate i cittadini, mentre i complici «lavoravano» all’interno dell’edificio. Il capo della polizia si era nascosto in un cassone di granaglie, ma il suo predecessore, insieme a un uomo di colore di nome Ben Richardson, prendeva a sassate i rapinatori. Un certo Manning, titolare di un negozio di ferramenta, disse in seguito che aveva creduto, sulle prime, che i cavalieri «avessero ottenuto il permesso di sparare a salve per far pubblicità a uno spettacolo». Nell’epopea western non è mai facile distinguere la fiction dalla realtà, per gli stessi protagonisti. Ma presto i buoni cittadini passarono al fucile, come fecero gli stessi Manning e Wheeler, quest’ultimo — studente di medicina — animato anche dal desiderio di procurarsi qualche cadavere senza ricorrere agli svaligiatori di tombe che abitualmente rifornivano dottori e allievi. Di un fuorilegge caduto si sarebbe tenuto lo scheletro nello studiolo: cosa non si fa per la scienza! I rapinatori dentro la banca maltrattavano il contabile Joseph Lee Heywood perché aprisse la cassa, controllata però da un congegno di sicurezza a tempo; non si erano accorti che il meccanismo non era in funzione. Si trovavano così di fronte al paradosso di «aprire una cassaforte che era già aperta». Infine, con solo pochi spiccioli nel sacco, uscirono ad affrontare le fucilate dei cittadini inferociti, e l’ultimo (cui è stato impossibile dare un nome) piantò una pallottola nel cranio del contabile. Fu l’inizio della fine per la banda dei «truci missouriani», che si erano schierati per il Sud nella guerra civile e volevano «vendicare i torti» della sconfitta Confederazione: tra loro c’erano i tre impetuosi fratelli Younger e i più scaltri e freddi Frank e Jesse James, autori di una miriade di imprese criminali. Ogni anno Northfield mette in scena, in memoria di Heywoood, la disfatta dei fuorilegge. E Sean McLachlan, archeologo passato alla narrativa, racconta ora in un bel libro la microstoria dell’Ultima cavalcata della banda James-Younger. Il fallimento portò alla dissoluzione dell’alleanza tra gli Younger e i James, consumatasi tra reciproche recriminazioni e colte citazioni dal Libro di Giobbe e dalle tragedie di Shakespeare, com’era caro a Jesse. Catturato e scontata la pena, Cole — il più duro degli Younger — doveva dichiarare che tutto era nato dalla guerra civile (1861-1865), in realtà «solo una serie di omicidi da una parte e dall’altra». Invece, i due James erano riusciti a far perdere le tracce. Ossessionato dal pericolo di «trovare un Giuda» in ogni nuova recluta, ma deciso a non arrendersi, Jesse «l’imprendibile», nato nel 1847 (Frank era del 1843), venne ucciso a tradimento il 3 aprile 1882, per un pugno di dollari, dal «codardo» Robert Ford (come recita il titolo del film del 2007 di Andrew Dominik, con Brad Pitt nei panni del fuorilegge), in una casa del Missouri dove si nascondeva sotto falsa identità. Finiva così «l’ultimo ribelle della Confederazione» (come lo ha chiamato lo storico T. J. Stiles), perduto nel suo sogno di far nascere una nuova guerriglia contro il Nord invasore. C’era in lui «un misterioso spirito maligno», che affascinava persino coloro che lo combattevano: «Un ribelle a ogni vincolo e a ogni classificazione». Sono parole di James Horan che, pur servendosi dei dossier di coloro che hanno dato la caccia ai Desperados (come suona il titolo del suo libro), non riesce a celare una certa ammirazione per Jesse James. «È come se si dicesse che in una certa foresta è cresciuta una razza di cervi migliori perché in mezzo a loro è capitato anche un feroce giaguaro»: altrettanto paradossalmente, quel brigante, «rivelando la corruttela di certi rappresentanti della legge e la viltà di altri», ha fatto emergere la «forza della legge che un giorno l’avrebbe annientato». Giulio Giorello BARBAROSSA, IL CORSARO DI ALLAH - Quando, tempo fa, Muhammar Gheddafi minacciò l’Italia di farla tremare «come ai tempi del Barbarossa», tutti pensarono a Federico I di Svevia e alla battaglia di Legnano: che non c’entravano nulla. Se gli italiani avessero maggiore familiarità con la storia del Mediterraneo, si sarebbe capito subito che il rais stava alludendo a un personaggio di mezzo millennio fa, il dey di Algeri e di Tlemcen, vale a dire governatore di una regione del Maghreb per conto di Solimano «il Magnifico», sultano d’Istanbul. Si tratta di Khair ad-Din, lo Hariadenus delle nostre cronache, detto popolarmente «il Barbarossa»: forse un «rinnegato» d’origine greca, albanese, calabrese o addirittura provenzale, ma più probabilmente il figlio di un comandante militare ottomano — un agha — e di una greca di nome Catalina. Nato nel 1466 circa a Mitilene, nell’isola di Lesbo, gli fu imposto il nome di Hizir; fin da giovanissimo esercitò con i fratelli Elias e ’Aruj la «guerra di corsa» nel nome del sultano nelle isole greche dell’Egeo. Più tardi, conquistata Algeri, ne fece la base per una serie di incursioni contro le coste andaluse e italo-tirreniche. Nel 1526, nelle acque davanti a Piombino, fu battuto dall’ammiraglio genovese Andrea Doria: ma da allora cominciò la loro ambigua amicizia, fondata su molteplici rapporti di collaborazione e d’interessi. Essi furono spesso tramite anche delle relazioni tra il sultano Solimano e l’imperatore Carlo V. Quasi settantenne, colui che ormai era conosciuto col nome onorifico di Khair ad-Din era divenuto ricchissimo e potente: dal 1533 era stato nominato kapudan pascià, cioè comandante generale della marina ottomana, e come tale nel 1534 compì, con una flotta di 82 galee, una tremenda incursione che si abbatté sulle coste tirreniche. Fu in ritorsione a quel raid che Carlo V organizzò, nell’anno successivo, la poderosa spedizione culminata nella conquista di Tunisi e di Biserta. Dopo quell’episodio, circolò la notizia che il Barbarossa fosse stato ucciso. Ma egli provò subito che era in grande forma: piombò sulle Baleari ancora in festa per la vittoria cristiana e le mise a ferro e fuoco, riportandone un favoloso bottino. Fece quindi rotta verso Istanbul, dove offrì al sultano una cospicua parte delle ricchezze razziate, ricevendone in cambio molti onori e un bellissimo palazzo. Era instancabile. Approfittando dell’appoggio del re di Francia Francesco I, in lotta con Carlo V, organizzò per il 1537 una nuova campagna navale, diretta stavolta a colpire il basso Adriatico e quindi sia il regno spagnolo di Napoli, sia le isole soggette alla Repubblica di Venezia: devastò le coste pugliesi, traendone migliaia di prigionieri, quindi osò attaccare la munitissima piazzaforte veneziana di Corfù; solo il maltempo e le efficaci artiglierie veneziane gli impedirono di averne ragione. La controffensiva veneto-pontificio-imperiale, guidata da Andrea Doria, non bastò a fermarlo: anzi il Barbarossa inflisse al suo eterno avversario genovese una cocente sconfitta nelle acque albanesi. Era quasi ottantenne quando, in coincidenza con la ripresa delle ostilità tra Carlo V e Francesco I, fu inviato con la sua flotta nel 1544 a colpire le coste liguri-provenzali in appoggio al re di Francia. In tale occasione si situa anche l’episodio del suo assedio a Reggio Calabria, che pare evitasse il saccheggio solo perché il Khair ad-Din si era invaghito della non ancora ventenne figlia del governatore spagnolo della città. Sembra invece che le sue responsabilità nell’attacco a Nizza, il porto del duca di Savoia alleato con l’imperatore, siano state meno gravi di quanto la tradizione narri. Pesante invece, sulla via del ritorno, il raid contro l’isola d’Elba. Il Barbarossa morì nel 1546, sembra per un attacco di «febbre gialla». Fu sepolto a Besiktas, a nord di Istanbul, in un mausoleo costruito per lui dal celebre architetto Sinan. La sua figura divenne leggendaria nel folklore mediterraneo. Franco Cardini PANCHO VILLA DI LOTTA E DI GOVERNO - Agli inizi del 1914, al culmine della lotta tra i diversi fronti rivoluzionari messicani e le truppe del generale Victoriano Huerta, salito al potere dopo il golpe costato la vita al presidente Francisco Madero, lo stato maggiore di Pancho Villa firmò un primo contratto con la Mutual, una compagnia cinematografica statunitense che era intenzionata a ricostruire la vita del general revolucionario. Villa era al culmine del suo potere: alla testa di un’organizzatissima macchina da guerra, la División del Norte, era in grado di controllare un’ampia fascia di frontiera, con dogane ed empori, poteva sfruttare imponenti allevamenti di bestiame del Chihuahua e la produzione cotoniera della zona Lagunera. Egli sembrava il più affidabile interlocutore degli Stati Uniti ed era già inseguito dal reporter John Reed. Pur senza aver perseguito una coerente politica di riforme agrarie (come Zapata nel Morelos o l’ala riformista dei costituzionalisti), grazie anche a collaboratori quali il giornalista Silvestre Terrazas e il generale Felipe Ángeles, Villa tendeva allora ad accreditarsi non solo come il Centauro del Norte, ma come il caudillo popolare, il rappresentante dei ceti disagiati. Eppure il mito del bandito antisociale che Villa portava sulle sue spalle non si era dissolto e una serie di azioni (dall’uccisione del cittadino britannico William Benton alle violenze commesse a Città del Messico nei giorni del famoso incontro con Zapata nel Palacio Nacional) continuavano ad alimentarlo. La storia di Villa è segnata in profondità da questa dicotomia, che ha affascinato storici esperti (da Guzmán a Katz) e letterati navigati (da Muñoz a Taibo II). Essa pervade le vicende di un uomo che si mosse tra un orizzonte locale ed uno (incompiuto) nazionale, tra il fascino per i proclami di riforma e un machismo politico esibito, con un amore spassionato per gli Usa poi ribaltatosi in odio viscerale, tra la capacità di guidare 400 guerriglieri nascosti nella Sierra Madre o un esercito di 50 mila soldati in battaglia. Villa restò sospeso tutta la sua vita tra l’alleanza con l’esercito contadino di Zapata e il rapporto con bandoleros come Tomás Urbina o il killer professionista Rodolfo Fierro. Soprattutto, però, su di lui avrebbe pesato un dato politico, alimentato dalla distanza con il primer jefe costituzionalista Venustiano Carranza, che, dopo un periodo di latenza, aprì la strada a una stagione di guerra civile, che avrebbe devastato il Messico centrale tra il 1915 e il 1916. Una distanza che avrebbe a lungo escluso Villa dalla gran familia revolucionaria, celebrata nella muralistica di Rivera, Orozco e Siqueiros. Qui risiede la contraddizione profonda di José Doroteo Arango Arámbula, nato nel 1878 presso il rancho La Coyotada, a San Juan del Río, Durango, e poi divenuto Pancho Villa, icona internazionale (più che nazionale) del Messico rivoluzionario, passata attraverso una vita rocambolesca intessuta di assalti, tradimenti, massacri, saccheggi e distribuzioni di cibo ai poveri, scoppi d’ira e di pianto, una fucilazione mancata, una fuga dal carcere nella notte di Natale, l’inseguimento da parte dei marines della colonna Pershing, vittorie eclatanti e sconfitte disastrose. Villa è una figura tutt’altro che semplice da inquadrare (tra l’altro era astemio e non fumava), ma rappresentò un elemento importante di una rivoluzione che unì l’antico al moderno e fu la prima grande guerra civile del Novecento. Egli riuscì a trasformare uno strano conglomerato di piccoli gruppi armati (rancheros, allevatori, minatori colpiti dalla crisi, contadini, maestri, veri e propri banditi), mossi soprattutto da rivendicazioni localistiche, in un esercito moderno e ben disciplinato. Quando venne ucciso, il 20 luglio del 1923, si stava però già costruendo un’altra storia e il nuovo presidente Obregón incarnava in fondo ciò che era mancato a Villa: una visione del Paese profondamente nazionale, per tenere insieme la composita dimensione regionale, etnica, perfino di genere, emersa nel processo rivoluzionario. Massimo De Giuseppe