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 2013  maggio 05 Domenica calendario

LONDRA

Ha le mani piene di schiaffi. Mani palmari, gonfie di schiaffi mai dati. Ma a quanti li avrebbe rifilati con gusto... «Quando ho cominciato a fare il regista, ho rivissuto l’incubo dell’insegnante, con attorno gente da rispedire al posto con una pedata. Anche il set è spesso una scuola d’incompetenti o prepotenti, i produttori in prima fila: da prendere a pugni. Ma, a differenza dei professorini in cattedra, i produttori più indisponenti spesso conoscono bene il loro mestiere. Unico caso nella storia dell’umanità in cui i peggiori sono i migliori ». Fiero delle sue provocazioni, Stephen Frears stempera le abituali dichiarazioni di guerra nel largo sorriso d’orso bonaccione: in un angolino d’hotel, infilato dentro pantaloni senza piega e un maglione senza camicia, con giro di sciarpa penzolone fino alla pancia, il regista rischiara l’aria con la trasparenza azzurra del suo sguardo arguto, lumicino gentile su una mole altrimenti minacciosa. Più pacato rispetto al passato, quando lanciava strali contro Tony Blair («Non sono per la pena di morte, ma nel suo caso farei un’eccezione») o contro il degrado
dello spettacolo cinematografico («Darei fuoco alla sala dove si proietta un film che non mi dà esaltazione mentale»), Frears oggi restringe i suoi campi di battaglia: «Per tenere a bada la troupe si può andare sul set con una pistola. Con il pubblico, la soluzione è forse meno semplice». In costante, britannico equilibrio tra ironia e autoironia, il cineasta, che a giugno compirà settantadue anni, gioca al monello perenne, all’indisciplinato di genio: «Sono un regista per caso. Da giovane, mai m’era passata l’idea per la testa: non sospettavo nemmeno che esistesse questo mestiere. Me ne stavo tranquillo, e annoiato, al Trinity College dell’università di Cambridge, dove mi ero trasferito a diciotto anni dal paesello natale di Leicester, a studiare giurisprudenza. È lì che ho cominciato a frequentare il teatro, da cui mi sono fatto docilmente sequestrare anche perché avevo capito che, con le regie, si poteva mettere in tasca qualcosa».
Negli incontri con il pubblico di solito si dondola tra boutades e risposte al risparmio. L’ultima volta è stata al Bif&st di Bari, dove ha ricevuto il premio alla carriera e dove il direttore di
Positif,
Michel Ciment, in platea sussurrava all’orecchio del vicino: «Pare il remake delle interviste a John Ford, monosillabi in replica a domande sterminate ». Ma nel faccia a faccia, il guardingo Frears si liquefa in affabile lago. Perché questo cambiamento? «In pubblico ho l’impressione che la gente non creda a quel che dico. Perciò mi tengo allo scherzo. Ma, soprattutto, non ho il talento del racconto: sono un artigiano del cinema — anche Fellini lo diceva di sé — non sono capace di spiegare quel che faccio. Chiedetemi film, non discorsi».
I film, appunto. Che meraviglia — d’attori, di storie e di “discorsi” — da
My Beautiful Laundrette
a
The Queen,
da
Relazioni pericolose
a
Alta fedeltà,
da
Eroe per caso
a
Rischiose abitudini
e allo straordinario
Lady Henderson
del 2005, dove sfolgora l’ineguagliabile Judi Dench, quattro volte presente nel cinema di Frears: una lunga festa di premi, da Cannes a Venezia, agli Oscar, e un invidiabile
tapis rouge
d’interpreti, da Daniel Day-Lewis (ai suoi esordi, nel 1985) a John Malkovich, a Glenn Close, Michelle Pfeiffer, Uma Thurman, Dustin Hoffman, Helen Mirren, Anjelica Huston, Kathy Bates, Julia Roberts, Gary Oldman... «
My Beautiful
Laundrette
è una tappa cruciale della mia vita, non solo professionale. Un po’ com’era stato, nel 1957, il London Film Festival che a me sedicenne aveva spalancato un mondo nuovo: il cinema europeo, soprattutto italiano e francese. È stato l’inizio di una passione, per Renoir, la Nouvelle Vague, per quei registi che tutti amiamo: i primi che parlavano della nostra realtà sociale, i maestri del mio cinema e di altri della mia generazione». Perché
My Beautiful Laundrette,
che l’ha lanciata quasi trent’anni fa, se lo sente ancora appiccicato addosso? «Ritrae la brutalità sociale della Gran Bretagna nell’era Thatcher. Anche se, per uno di quei paradossi insondabili che si fan beffe di noi e delle nostre migliori intenzioni, il mio durissimo attacco al thatcherismo s’è ribaltato, grazie al successo del film, in un punto a favore della politica mediatica del primo ministro: ecco la prova d’un prodotto di qualità
e dal sicuro ritorno commerciale». Era stato inizialmente previsto per la sola tv, dove Frears sguazzava negli anni belli della Bbc: «Sì, dopo essere stato assistente di Karel Reisz, vi avevo scodellato nel 1972 il primo titolo,
Sequestro pericoloso.
È stata, per tutti, un’epoca d’oro quella precedente alla Lady di Ferro. Una Gran Bretagna modellata a Paese socialista, con uno Stato protettivo delle produzioni Bbc e di ogni forma di cultura. Ma anche su di noi s’è rovesciata presto l’ossessione del profitto, dei grandi numeri, con tutti i meccanismi del capitalismo: che vita dura, dopo...».
E comunque nei suoi viavai internazionali, tra cui l’immancabile Hollywood, Frears ha finito per tornare sempre all’ovile britannico: «In Gran Bretagna, c’è di bello che molta gente passa il tempo a scrivere storie, mentre molti altri si applicano a rappresentarle. Non mi sono nemmeno messo in coda: ho preso un po’ come capitava qua e là, in modo inconsapevole, come avviene con una moglie che ti trovi accanto senza ricordarti com’è successo. Anche gli attori, lascio che vengano scelti dalle storie. Prendiamo la Pfeiffer e Malkovich in
Relazioni pericolose:
entrambi estremamente sexy, non potevano che innamorarsi l’uno dell’altra. Filmarli è stato un gioco da ragazzi. Al contrario di Elia Kazan, che gli attori li forgiava, io li prendo come sono, già pronti. Anche con Daniel Day-Lewis, oggi “super-oscarizzato” e superpagato, è avvenuto lo stesso: quando l’ho cercato per
My Beautiful Laundretteera
giovane, sconosciuto e poco costoso (il mio problema è sempre stato quello di fare un cinema
cheap,
ipereconomico). E lui era lì, l’attore giusto per me, lancia in resta per cambiare un po’ tutto. Perché la prima regola di ogni rivoluzione con garanzie di successo è che ci sia qualcuno su cui poter contare e che si trovi lì in quel momento. Come Anna Magnani quando Rossellini girò
Roma città aperta.
Ecco: Daniel Day-Lewis è stato la mia Anna Magnani».
Anche nella vita, nelle fasi di cambiamento, ha potuto contare su qualcuno a lei vicino? «Ho avuto una madre molto forte. E ho sposato due donne molto forti, da cui sono nati quattro figli: il primo, Will, è lui pure regista, a Hollywood, e padre di due figli. Sono nonno, ma con un oceano in mezzo tra me e i nipotini. Spero di essere stato io, per mio figlio, la persona giusta su cui
contare, quando ha avuto bisogno. Se vuoi aiutare un figlio, devi lasciarlo libero di scegliere. Quando ha voluto diventare regista, trasferendosi negli Stati Uniti, gli ho detto “va’”, comincia ora a farsi conoscere. Spero diventi il nuovo Frears, anche prima che me ne sia andato».
Nel frattempo il nonno è operosissimo. Due film all’anno. L’ultimo è
Philomena,
con Judi Dench in cerca del figlio che le è stato sottratto perché ragazza madre, «una donna irlandese che si trova faccia a faccia con l’intransigenza della Chiesa cattolica». Si aspetta censure? «Mi auguro di no. Il vostro nuovo Papa ha un’aria simpatica. Di ostacoli, preventivi, ne ho trovati piuttosto in patria, quando nel 2006, con
The Queen,
tra mille acrobazie, sono entrato nei luoghi più augusti del Regno per tentare un ritratto meno imbalsamato di Elisabetta II e della famiglia reale nei giorni del
crash
di Lady D. Quando è morta ero in Messico a girare un western. Ne ho percepito la tragedia, ma ho perso l’evento. Il film, infatti, è sulla quotidianità della monarchia, non sulla fatalità di un’auto principesca entrata in un tunnel». E allora perché ha voluto a tutti i costi realizzarlo? «Per quello scrupolo missionario che accomuna insegnanti e registi: insegnare come stare al mondo».