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 2013  maggio 04 Sabato calendario

“QUANDO TORNERA’ A CASA MIO MARITO CI SGRIDERA’"

Gli domanderemo scusa, ma Domenico ci metterà un po’ a perdonarci. Del fiocco giallo dell’attesa, delle foto e dei titoli in prima pagina, del racconto del suo muoversi curioso, guardingo e disinvolto sugli scenari del sangue. Sarà stizzito perché quelli oggi occupati dal fiocco colorato, dalle immagini e dalle parole per lui sono spazi rubati alle notizie e ai resoconti che fanno divampare nelle coscienze di tutti le realtà del dolore lontano e facile da ignorare.

Quirico è l’occhio avanzato del lettore e non vuol saperne d’essere il protagonista. Dice la moglie Giulietta: «Non si può non essere riconoscenti per tante manifestazioni di affetto, di vicinanza durante questo calvario. Anche lui se ne renderà conto, eppure ci sgriderà tutti: non faccio che il mio lavoro». E il suo lavoro lo fa con lo stesso animo con il quale ha descritto la preghiera dell’autista Almadhi, ucciso al momento del sequestro suo e di tre colleghi nell’agosto 2011 in una Libia sbranata dalla guerra: «con la semplicità degli umili».

«È il suo carattere», dice Giulietta. E racconta: «Invitato a tenere conferenze, ha accettato sempre con modestia e con l’entusiasmo di informare sì sui grandi fatti, ma anche e soprattutto di testimoniare esperienze umane, di porgere la realtà di luoghi devastati in tutti i sensi, di dare memoria ai massacrati, agli occhi dei bambini». L’incontro con il pubblico come prolungamento della narrazione sul giornale, come offerta di materiale così vasto e intenso da non aver spazio sufficiente nella pagina scritta. Mai autobiografismo, anzi uno stile, un approccio immune dalla severità con la quale Guido Piovene frustava i giornalisti, colpevoli di far conoscere «ben poco di quanto è avvenuto nel mondo» ma generosi delle «impressioni personali» e «di come reagisce la loro piccola e letteraria persona». Dei giornalisti diceva Piovene che il loro mestiere li porta «alla vita più vicini di ogni altro». E questo è l’imperativo di Domenico che anche a casa, prima di partire, spiega senza dilungarsi il suo «muoversi da solo, non dare nell’occhio». Dice la moglie: «Vestito da Tuareg era davvero uno di loro». Per raccontare da dentro. E da dentro racconta la Primavera araba, la Tunisia, l’Egitto, la Libia, il rientro con il barcone e il naufragio. Li rievoca nelle conferenze, ma quella che dipana al pubblico non è la sua avventura, è quella della gente che incontra: «Perfino a casa non fa cenno al suo muoversi o a esperienze umane forti che si tiene dentro. E, dopo una chiacchierata in pubblico, la sua soddisfazione è l’attenzione della gente ai drammi lontani». Ripete: «Faccio il mio mestiere», e si mostra apertamente seccato, pur con garbo e comprensione, per la sua foto di rilasciato dai rapitori o di naufrago.

La conferenza come prolungamento del racconto e così anche i libri. I più recenti sono «Primavera araba. Le rivoluzioni dall’altra parte del mare» (Mondadori, 2011) e «Gli ultimi. La magnifica storia dei vinti» (Neri Pozza, 2013). Ebbene anche qui una ritrosia, una fuga dal protagonismo che sembrano impossibili nel i tempi dell’apparire: «Mi dice in settembre: non posso uscire adesso con il libro», racconta la moglie. «Perché no? Perché la storia del sequestro diventa uno strumento di pubblicità. La replica: non l’avete fatto apposta a finire in quella situazione. E lui: lo so bene, però sono quelle concomitanze... Preferisco aspettare un poco».

I fatti al centro, non chi li narra. E questi giorni di tremenda incognita sono «il mestiere», non notizie. Per questo dirà che è troppo il fiocco giallo al giornale, alla scuola della figlia, alla gara podistica di domani ad Asti, la città dove è nato e vicino alla quale abita. Ed è troppo naturalmente l’affettuoso dedicargli da parte di tanti colleghi il World Press Freedom Day. L’informazione libera non appartiene a uno o a tanti giornalisti, dirà: appartiene ai lettori, agli oppressi, «agli occhi di un bimbo che muore».