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 2013  maggio 03 Venerdì calendario

LE MEMORIE DAL CARCERE DI GIUSEPPE GULOTTA, «MOSTRO» D’INNOCENZA

È una storia da brividi. Uno strano incrocio tra gli eventi narrati ne La colonna infame di Manzoni e il caso Dreyfus. Ep­pure non è accaduto nel Secolo di Ferro o nella Francia dell’Ottocento. È accaduta in Italia, in Sicilia, in pieno regime di demo­crazia. Ed è costata più di un ventennio di galera a un inno­cente, come ha stabilito una sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria il 13 febbraio 2012. Ora Giuseppe Gulotta che a lungo ha dovuto convive­re con l’infamia di essere consi­derato il mostro di Alcamo, ha deciso di rac­contare (con Nicola Bion­do) la propria storia in un libro prossimo all’uscita: Alkamar. La mia vita in carcere da inno­cente (Chiare­lettere).
Ecco i fatti. Il 27 gennaio 1976 ad Alca­mo Marina, in provincia di Trapani, la sta­zione dei Cara­binieri viene attaccata. Agli inquirenti la scena si pre­senta così: la porta della ca­sermetta è sta­ta abbattuta usando una fiamma ossi­drica. Nelle lo­ro brande giacciono, freddati, due giovani carabinie­ri, Carmine Apuzzo e l’appunta­to Salvatore Falcetta. Sembra si­ano stati colti nel sonno, soltan­to uno ha avuto un accenno di reazione. Da subito le indagini si rivelano complesse. L’attac­co sembra un lavoro da profes­sionisti, il fatto che i carabinieri siano colti nel sonno è poco spiegabile. Per non parlare del movente. Due le piste battute: quella mafiosa (l’anno prima erano stati uccisi l’assessore ai lavori pubblici di Alcamo, Fran­cesco Paolo Guarrasi, e il consi­gliere comunale Antonio Pisci­tello) e quella dell’attacco terro­ristico (arrivò un comunicato di rivendicazione, subito dopo smentito dalle stesse Br).
Viene spedita sul posto in ma­niera piuttosto informale una squadra investigativa dei cara­binieri comandata da Giusep­pe Russo (colonnello dei carabi­nieri poi ucciso dalla mafia il 28 agosto 1977 e insignito della medaglia d’oro al valor civile). Poi finisce nelle mani degli inqui­renti un certo Giuseppe Vesco. È un carrozziere della zona, monco di una mano, viene trovato in possesso di armi e ogget­ti che sembrerebbero proveni­re dalla Stazione di Alcamo. La pista sembra buona e gli uomi­ni di Russo si fanno prendere la mano. Come rivelerà, troppi an­ni dopo, uno di loro, Renato Oli­no, usano le maniere forti, molto forti. Vesco per sfuggire al do­lore fa i nomi di una serie di ra­gazzi di Alcamo tra cui Giusep­pe Gulotta. Olino non è convin­to, vorrebbe at­tendere i riscontri della scientifica, gli altri vogliono giustizia subito, portano in caserma quel­li nominati da Vesco. Secon­do Gulotta, al­l’ep­oca mano­vale diciotten­ne che aveva appena fatto il con­corso per entrare in Finanza, an­che a loro tocca la linea dura.
Ecco che cosa racconta nel li­bro: «Schiaffi, tre, quattro, a ma­no aperta... Mani coperte di guanti neri continuano a colpir­mi... Il ferro freddo mi scortica la parte sinistra della faccia: è una pistola. Il clic del cane che si alza e si abbatte a vuoto». L’in­terrogatorio per cui non è stato fatto nessun verbale e a cui non presenzia l’avvocato dura diver­se ore. Alla fine Gulotta cede: «Vi dico tutto quello che volete, basta che la smettete». Nella te­sta di questo ragazzino terroriz­zato ciò che conta è farli smette­re. Non capisce che firmare una confessione può distruggergli la vita. Quando arriva al carcere di Trapani e finalmente incon­tra i magistrati prova a dire la sua verità: «“Lei conferma quel­lo che ha detto a verbale?”. “Se ho fatto quelle dichiarazioni è perché sono stato picchiato tut­ta la notte”». Secondo Gulotta gli rispondo­no: «È impossibile che per le botte si con­fessi un omici­dio». Gli fan­no una visita medica, risul­tano delle con­tusioni, ma se­condo i Cara­binieri pur­troppo è cadu­to...
E da questo punto in poi la sto­ria giudiziaria di Gulotta oscilla fra la sua testimonianza inizia­le, le prove labili, e la modalità in cui si sono svolti gli interroga­tori. Anche perché Vesco, il te­stimone chiave che ha coinvol­to gli altri, in carcere si suicida. Pur essendo monco riesce a im­piccarsi a una grata altissima e, per non disturbare, si posiziona anche un fazzoletto in bocca. La prima sentenza della corte di Assise di Trapani assolve Gulotta per insufficienza di prove. Pe­rò è vaga sulle violenze. Per ciò che è avvenuto nella caserma di Alcamo si limita a un «critico giudizio» e parla di «maltratta­menti e irregolarità». Nel 1982 si passa alla Corte d’Appello di Palermo che ribalta la senten­za: Gulotta è condannato all’er­gastolo. Si accumuleranno i pro­cessi, sino a che il 19 settembre 1990 la senten­za d­iventa ese­cutiva. Gulot­ta deve entra­re in prigione, per lo Stato è un assassino. Per un attimo ha la tentazio­ne di fuggire, poi rinuncia. Entra in carce­re, affronta il calvario cer­cando di esse­re un detenu­to modello, per uscire il prima possibi­le. Nel 2010 ar­riva la libertà vigilata. Intanto qualcuno ha dei terribili ri­morsi di coscienza. È l’ex brigadiere Re­nato Olino. Aveva già prova­to a raccon­tare di quegli interrogatori, soprattutto di quello di Vesco. Non trovò spon­da istituzionale e nemmeno in certi giornalisti, che non volle­ro saperne delle sue verità. Poi però sul caso torna la televisio­ne con la trasmissione Rai Blu notte-Misteri italiani, ricostrui­sce la storia anche se con alcune inesattezze e Olino via web si fa avanti per raccontare.
Così la magistratura di Trapa­ni apre un’in­chiesta e arriva an­che il processo di revisione: il 26 gennaio 2012 il procuratore ge­nerale della Corte d’Appello di Reggio Calabria ha chiesto il proscioglimento di Giuseppe Gulotta da ogni accusa; proscio­glimento raggiunto in via defini­tiva il 13 febbraio 2012. Sulle cause di un’indagine condotta così male si indaga ancora. Giu­seppe Gulotta, che ha chiesto al­lo Stato un risarcimento di 69 milioni di euro, racconta di esse­re tornato sul luogo dove c’era la stazione dei carabinieri di Al­camo Mare. Ora li c’è un cippo per i due carabinieri morti. A lo­ro nessuno ha ancora dato giustizia, a lui l’hanno data con 36 anni di ritardo. Anni che non torneranno più.