Diodato Pirone, Il Messaggero 4/5/2013, 4 maggio 2013
«PD STRAVOLTO DAI PERSONALISMI»
Il ritorno al ministero dell’Economia come dirigente non impedirà certo a Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione Territoriale, di avviare il suo progetto di «ricostruzione dal basso» del Partito Democratico. Domani è atteso a Prato dove, dopo una certosina opera diplomatica fra i dirigenti locali di tutte le correnti, ha fissato il suo primo incontro aperto a militanti, amministratori e associazioni.
Dottor Barca che cosa dirà a Prato? E’ vero, come dicono i maligni, che fonderà la sua corrente?
«Fra quello che intendo fare e la fondazione di una corrente personale c’è la distanza di un oceano. Le correnti personali sono una delle cause dello stato in cui versa il Pd».
Le correnti personali?
«Certo. Non c’è nulla di male in una corrente se essa fa riferimento ad una propria visione. Nella Dc le correnti non erano solo aggregazioni personali ma rappresentavano idee e culture diverse e, al di là degli aspetti negativi, avevano una loro utilità».
In attesa della ricostruzione della «rete», chiamiamola così, alla quale sta lavorando, cosa dovrebbe fare il Pd?
«Da neofita mi auguro che l’Assemblea dia innanzitutto un forte segnale che il gruppo dirigente ha compreso le cause degli errori gravi e senza precedenti che sono stati commessi».
E poi?
«Che si faccia una riflessione strategica e non un piagnisteo. Che si entri nel merito delle cose insomma».
Ma fuor di metafora lei cosa preferirebbe? Un reggente o un segretario a tutti gli effetti? E ancora: un giovane come Cuperlo o è meglio Epifani?
«Ho appena detto “no” ai personalismi».
E dunque?
«Dunque bisognerà scegliere una strategia e rispondere ad una domanda: che cosa fa un partito di fronte ad un governo così?».
Appunto, cosa fa?
«Deve fare, senza strappi, il suo lavoro. In una situazione difficile, di compromesso, pur essendo cosciente di essere rappresentato al massimo livello da uno dei suoi esponenti di rango, il Pd dovrebbe scegliere di continuare a veicolare le sue idee costitutive. Dovrebbe continuare a stimolare questo governo sulla base delle esigenze dell’elettorato che rappresenta e dunque a favore di una politica per il lavoro e per l’inclusione sociale».
Ma secondo lei il Pd ha il fisico, per usare il bersanese, per svolgere questo ruolo? Non vede all’orizzonte rischi di scissione?
«Non credo a questi scenari».
Perché? Le correnti personali alla fine...
«Personalismi e rancori possono essere superati se ci diamo un progetto strategico. La verità è che l’offerta politica in Italia è povera in generale e credo che sia possibile fare del Pd uno strumento moderno per governare bene».
Intanto lei continua ad essere visto da una parte del Pd come l’anti-Renzi.
«E’ una lettura che persiste nonostante io abbia più volte affermato il contrario. E allora faccio tre ipotesi: qualcuno lo dice per pigrizia; altri perché fa comodo schiacciare le persone dentro alcuni schemi; altri ancora perché così è più facile liberarsi di entrambi».
Torniamo al partito. Lei intende applicare al Pd il metodo che ha sperimentato in questo anno di governo al ministero della Coesione. In sintesi si tratta di un nuovo rapporto fra centro e territorio. E’ così?
«Per spiegarlo debbo fare un passo indietro. Sono stato per oltre un anno ministro della Coesione ovvero degli interventi ai territori meno sviluppati. In quest’anno mi sono sempre ricordato che la politica di coesione concepita da Jacques Delors presidente della commissione Ue non era una politica regionale. Per Delors una politica di sviluppo aveva bisogno che i progetti e le strategie venissero definiti da un forte presidio nazionale ma con una fortissima declinazione territoriale».
Può farci degli esempi di questo rapporto centro-periferia?
«Ne faccio tre. Al ministro abbiamo puntato al recupero dei fondi europei per l’assistenza agli anziani e all’infanzia. Abbiamo fissato degli obiettivi nazionali ma poi abbiamo lasciato alle amministrazioni locali molte modalità di spesa a patto che rispettassero i paletti fissati dal centro. Stesso discorso per Pompei. Stop ai microinterventi. Si, invece, ad un progetto nazionale articolato con il coinvolgimento di varie strutture come il ministero dei Beni Culturali, quello degli Interni, Invitalia. Ma poi le espressioni locali sono state chiamate ad affidare i progetti e a seguirne l’attuazione. Idem a L’Aquila dove i meccanismi della ricostruzione sono stati rimessi in moto da una collaborazione feconda fra il centro che ha scelto obiettivi precisi e creato uffici speciali di coordinamento e le amministrazioni locali che hanno fissato le priorità».
Come intende trasferire questo metodo di lavoro nel Pd?
«Le analogie ci sono non solo nel disegno strategico ma nel metodo».
Cosa vuol dire?
«I progetti che abbiamo avviato al ministero della Coesione non li abbiamo mica scritti a Roma. Ho girato l’Italia per capire come fare, per verificare quali soluzioni erano state sperimentate nel territorio. Penso che anche per il Pd questo lavoro possa essere fecondo. Si tratta di ascoltare e costruire una rete con i cittadini iscritti al partito e con tutti i ggetti interessati e le associazioni senza imbrigliarle».
Lei è uno dei pochi intellettuali italiani che ritiene importante un rapporto con il territorio. Non si sente in qualche modo isolato?
«Intanto in altri Paesi il rapporto con il territorio è considerato strategico. Senza considerare i paesi scandinavi posso citare con qualche cognizione il caso polacco oppure gli Stati Uniti e la Gran Bretagna».
Già, ma in Italia...
«L’Italia non è un deserto. Giuseppe De Rita ci ha spiegato mille volte l’importanza del territorio. Poi vorrei ricordare Sabino Cassese che parla di una «democrazia deliberativa» e dice che l’arcaicità della macchina pubblica italiana è frutto anche della sua centralizzazione. Ecco perché serve un Pd con un progetto moderno ma con radici profonde nel territorio».
Diodato Pirone