Roberto Di Caro, l’Espresso 3/5/2013, 3 maggio 2013
DIMENTICATI A LAMPEDUSA
Sette anni di peregrinazioni, umiliazioni, fughe, botte, carcere per arrivare a Lampedusa. Aman scandisce lento, Mahammed il mediatore di Save the Children traduce. Ha 17 anni, Aman, i capelli corti e crespi, jeans e un giubbotto che gli hanno dato qui al Centro di primo soccorso nel kit di sopravvivenza insieme a spazzolino, sapone, scarpe, maglietta, mutande, una scheda telefonica, la tessera per ritirare i pasti e il numero di identificazione. Dall’Eritrea dilaniata da guerra e dittatura è scappato lasciando tutto e tutti quando di anni ne aveva nove: «In Etiopia ho passato venti mesi in un campo profughi Unhcr, poi con altri ragazzi sono passato in Sudan, dei trafficanti ci hanno rapiti e portati nel deserto, volevano venderci: a pezzi, un organo alla volta. Ma uno non muore se non è il suo tempo». Fugge di nuovo, in Egitto lo arrestano, un anno in carcere. Peggio quando passa in Libia, «da una galera all’altra, torturato dai poliziotti, insultato dalla popolazione, minacciato persino dai bambini». Sul barcone per l’Italia gli rubano anche gli ultimi soldi che ha, nella traversata vede morire due persone, gettate a mare. Sta qui da quindici giorni, non sa dove andrà, chiede una coperta in più perché di notte fa freddo, una scheda telefonica supplementare per chiamare i suoi, e se non può lasciare l’Italia «almeno portatemi in un posto migliore di questo, per favore».
Sono 111 come lui, 19 ragazze. Sono i minorenni, 13 anni il più piccolo: perché in tutto in 701, con 56 donne, stanno accatastati come si può nel Cpsa di Lampedusa che di posti letto ne ha, stringendo al massimo, 300. Oggi, perché domani chissà, dipende dagli sbarchi, dai recuperi in mare, dai trasferimenti che si riuscirà a fare. Dal cattivo tempo che può bloccare anche per dieci giorni la carretta di nave unico collegamento con Porto Empedocle. Dalla disponibilità di posti nella settantina di comunità per minori in Sicilia dove finiscono finché non compiono diciott’anni o non scappano: dei 7066 registrati, 1440 sono ormai irreperibili.
Chi non ha un letto, compresi alcuni minorenni, dorme su materassi per terra, sotto le tettoie dei padiglioni o sotto quella che giù in fondo, oltre il cancello degli adulti, isola uno dei due prefabbricati bruciati nella sommossa di due anni fa: quando per effetto delle rivolte in Nordafrica il Centro e l’isola furono invasi da settemila migranti, un tappeto umano, un incubo durato 55 giorni. Niente acqua calda, è così da qualche giorno, problemi di manutenzione, ci si lava come capita. E, quando si supera la soglia di mille persone, «succede che finiscano le riserve idriche, e allora tocca alla Prefettura di Agrigento intervenire d’urgenza», racconta Federico Miragliotta, 34 anni, da sei direttore del Centro per Lampedusa Accoglienza srl, cioè la Bluecoop ristorazione di Agrigento e il consorzio di cooperative Sisifo: come il protagonista del mito greco condannato a spingere un masso che appena in cima al monte rotolerà di nuovo a valle e la pena ricomincerà, inutile e sempre uguale.
Se col fotografo siamo dentro il Centro, di norma chiuso alla stampa, è perché accompagniamo nella sua visita ufficiale il Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Vincenzo Spadafora. Ex presidente Unicef Italia, sei mesi fa ha messo in piedi l’Authority con appena dieci persone spostate da vari ministeri e 900 mila euro di dotazione annua, e ora gira l’Italia per tentare di facilitare la soluzione di problemi incancreniti per i cortocircuiti della legge e delle normative italiane e comunitarie, e per lo stratificarsi di interessi non sempre ineccepibili che come escrescenze proliferano su ogni intervento. Gli esempi su Lampedusa sono vari. Ripristinare i due prefabbricati andati a fuoco raddoppierebbe la capacità del Centro: «Ma due anni di attesa solo per il nulla osta dei Vigili del fuoco?». Di un nuovo edificio esterno all’attuale, per donne e minori, se ne parla da una vita: «Ma che senso ha l’ex base americana Loran, isolata, lontana chilometri dall’abitato, costosissima da riadattare e con tempi biblici, quando è disponibile attaccato all’aeroporto lo stabile ex Enac?». La gran parte di questi ragazzi sono "minori in transito": «Non pensano affatto di restare in Italia, vogliono solo raggiungere fratelli, parenti o connazionali nel nord Europa dove avrebbero anche opportunità di lavoro, ma noi glielo impediamo perché in base agli accordi comunitari il paese di prima accoglienza è quello che se ne deve far carico. È pura follia, porrò la questione alla prossima riunione dei garanti per l’infanzia di tutta Europa».
Il precipitato di questi e altri paradossi è ciò che ti si para dinnanzi appena oltrepassi il primo cancello: un’unica via in lastroni di cemento in lieve salita che in fondo curva a sinistra, ai lati i prefabbricati di due piani in plastica bianco sporco e scale esterne di ferro, a mezza via un altro cancello, sulla destra una griglia costellata di felpe e maglie e jeans che si lavano da soli e stendono ad asciugare al sole e al vento che spazza l’isola. Soldati, un centinaio a rotazione, poliziotti, all’ufficio immigrazione e alla scientifica, carabinieri, una trentina da Palermo. Un gruppo di ragazzi gioca a pallone, somali arrivati sei giorni fa, con gli eritrei le due etnie al momento di gran lunga maggioritarie. Hussein vuole fare il meccanico, Abdel il medico: i nomi li abbiamo cambiati, in teoria non potresti nemmeno parlarci perché minorenni, il permesso lo dovrebbe dare il tutore, ma il tutore ancora non ce l’hanno, dunque sarebbero costretti al mutismo in nome della tutela della minor età.
Per legge non dovrebbero restare al Centro più di 48 ore, ma loro due li hanno recuperati 15 giorni fa su un barcone con 129 persone dopo 16 ore tra le onde: una fortuna, la Marina italiana li ha avvistati appena entrati in acque internazionali. Diciassettenni, da Mogadiscio uno e Kisimaio l’altro, anche loro hanno passato quasi due anni in Libia, picchiati, senza cibo né medicine, sotto Gheddafi come con il governo provvisorio, cosa vuoi che cambi per gente allo sbando come loro. Tutti gli altri stanno a gruppi, in piedi o accovacciati o seduti in un piccolo spiazzo, in silenzio o a parlare. Molti arrivano ora dal Mali della guerra civile e dei massacri islamisti. Come Kamadi e Djallou, sedicenni senza padre, madri che han detto loro di andarsene via, lontano dalla miseria, nelle intenzioni diretti in Svizzera e Norvegia dove hanno parenti: per il momento, dormono qui all’addiaccio.
Le ragazze sono diverse. Non sai, non ti raccontano che cosa hanno passato, giusto a Nasrà scappa detto che il padre era terrorizzato all’idea se ne andasse via da sola, e a Ucped (somala diciassettenne come l’amica) che la famiglia la voleva sposare a un uomo da lei indesiderato. Ma sono curate, sorridono e dicono: «L’Italia la sognavo fin da bambina, qui la vita è buona, soprattutto sicura, è una strada diritta, ora, capisci? Dormiamo in dodici in una stanza, attaccate una all’altra. Ma abbiamo un letto». Le stanze delle minorenni sono nel primo padiglione a sinistra. Quelle che vediamo sono piccole, due letti a castello ciascuna, sulle pareti una miriade di piccole scritte: chi passa lascia un segno, un tratto, il suo nome sotto quello di chi l’ha preceduta. Su una porta blu sta vergato un versetto degli Hadith, i Detti del Profeta: uno lo traduce come "conservate la vostra fede anche nelle situazioni più strane", un altro come un invito all’integrazione; in realtà è il precetto islamico che autorizza ad adattarsi alle condizioni nelle quali ci si trova, mantenendo però salda la fede e se necessario dissimulando.
L’infermeria al piano terra, dove curano soprattutto influenza, tosse, micosi cutanee, traumi e contusioni, è una stanzetta piccolissima: turnano ora Paola, Marco e Silvia, due settimane l’anno, 24 ore su 24 perché «qui è come un pronto soccorso». E ti tornano in mente le parole di Miragliotta il direttore: «Gli operatori ruotano spesso, devi porre barriere emozionali o il burnout sarebbe all’ordine del giorno». I raggi X al polso per determinare l’età li fanno invece al poliambulatorio di Lampedusa: fra le lamentele degli isolani, perché bloccano la struttura due giorni a settimana, e le critiche degli organismi umanitari, «perché la tecnica ha un margine di errore di due anni mentre il cosiddetto "protocollo Ascone" che integra varie discipline avrebbe costi più alti ma sarebbe più preciso e meno invasivo», spiega Valeria Gerace, al Centro come consulente legale per Save the children. La cucina è pulita, ci lavora buona parte dei 45 lampedusani qui impiegati, anche 70 in emergenza, stipendi sui 1.200 euro al mese: «La nostra salvezza è stata la sigillatrice», il riso con verdure, oggi è questo il cibo, viene cellophanato nel contenitore usa e getta come posate e bicchieri, e si mangia in stanza o all’aperto.
Di anomalo, in questa giornata di visita del Garante, c’è che i migranti stanno tutti dentro il Centro. Di solito non è affatto così. Escono. Girano per l’isola. Qualcuno fa il bagno. Mondi separati? No, a sentire sulla via principale Michela, Erika, Brenda, Gianfranco, lampedusani dai 14 ai 18 anni: «Li vediamo sempre, si avvicinano dicendo «my friend», vorrebbero che gli cambiassimo i dollari, loro non hanno documenti ma nemmeno noi possiamo. Ci raccontano le loro storie, spesso terribili. A volte ci giochiamo a palla sul lungomare o al campo di calcio alla Salina. Sì, anche le ragazze parlano, dicono che vogliono studiare, andare a Roma...»
Non si lagnano, i ragazzi dell’isola, ma la loro scuola cade a pezzi, media e liceo fanno turni mattino-pomeriggio, cinema non ce ne sono, divertimenti nemmeno. Altri in paese lamentano che giorni fa due migranti stavano in spiaggia nudi: ma non ci sono conferme dirette. Dicono ancora in paese che complici un paio di individui locali capita che ragazze ospitate al Centro ma libere di uscire vengano offerte come prostitute: sono le modalità delle nigeriane, replicano gli operatori, viste a volte in comunità dell’agrigentino, qui mai. Ma che i migranti stiano fuori dal Centro è un altro cortocircuito. Per legge non potrebbero, specie i minori. Tenerli chiusi dentro sarebbe irragionevole, già così le tensioni non mancano. E allora, non potendo cambiare la legge, si fa come se non ci fosse. Parli con le forze dell’ordine e te lo confermano: «Chiaro che non se ne vanno dall’ingresso principale. Ma si guardi intorno, è solo una rete, basta alzarla...».