Enrico Mannucci, Sette 3/5/2013, 3 maggio 2013
LA PRIMA VOLTA MILANO EBBE 10 MILIONI DI VISITATORI
LA PRIMA VOLTA MILANO EBBE 10 MILIONI DI VISITATORI–
Una vecchia foto ritrae un gruppo di femministe, abiti bianchi e crinoline, che passano allegre sotto un grande arco. Siamo all’ingresso dell’Esposizione Universale organizzata a Milano nel 1906. Quell’arco alludeva al traforo del Sempione cui era dedicata l’iniziativa (slittata di un anno, peraltro, proprio per il ritardo nei lavori dell’opera che rendeva possibile la prima linea ferroviaria diretta fra Milano e Parigi). Si respirava l’aria della Belle epoque, il mondo guardava con fiducia, insensata, col senno di poi, al secolo appena iniziato. E anche la regina Elena, poi, aveva dato segni di simpatizzare col movimento femminista…
L’entrata monumentale dava accesso ai padiglioni orgogliosamente aperti nel parco che poi dal Sempione ha preso nome, fra la zona dell’Arena e l’odierna Triennale. Inutile andarlo a cercare, però, come reperto archeologico in vista della nuovissima Expo, quella cui sta arrivando (faticosamente, anche stavolta) Milano. Non esiste più, come la gran parte delle strutture che vennero costruite oltre un secolo fa.
Architettura solida. Con una certa lungimiranza, i progettisti di allora, un gruppo di rinomati architetti sotto la guida di Sebastiano Locati, optarono per una quota bassa di installazioni permanenti. Pensando al destino degradato e triste incontrato da tanti ambiziosi impianti, villaggi, arene e piscine create ad hoc per olimpiadi, fiere internazionali o ennesime mega-expo, non si può certo dire che furono avventatamente effimeri.
«Era un complesso assai eclettico», spiega Maria Antonietta Crippa, storica dell’architettura al Politecnico nonché curatrice, cinque anni fa, di “Expo x Expos, Comunicare la modernità”, una mostra dedicata alle Esposizioni universali dal 1851 al 2010 e all’eredità che hanno lasciato nelle città (di cui esiste, per Electa, anche un catalogo con lo stesso titolo). E continua: «C’erano strutture dedicate alla scienza e alla tecnica che mettevano in mostra macchinari nuovissimi e c’erano i vari padiglioni che inclinavano piuttosto al folclore: un quartiere egiziano, cinesi coi costumi tradizionali e via dicendo. La Germania aveva realizzato un vero e proprio ristorante self service, ma l’idea non prese piede e sono passati decenni prima di vederne un altro a Milano. E c’era anche una specie di ferrovia sopraelevata che collegava le due aree dove sorgevano strutture dell’Expo, il parco Sempione, appunto, e la Fiera storica. Tenendo conto della Triennale, semmai si può dire che il lascito più consistente è stato proprio consacrare questi spazi alla funzione espositiva». Le due sezioni avevano vocazioni diverse: prevalentemente artistica quella del Parco, dedicata maggiormente alla produzione industriale quella attorno all’antica Piazza delle Armi. Ed ebbero anche un’inaugurazione differenziata, il 28 e il 30 aprile 1906. La giornata fu anche occasione per la “prima pietra” di un monumento che avrebbe invece segnato profondamente l’urbanistica milanese, ovvero la Stazione centrale (completata, peraltro, venticinque anni dopo, nel 1931).
Poco dopo la chiusura – fu comunque un successo, con dieci milioni di visitatori – si cominciò a picconare e smontare. Provvidenzialmente, viene da dire. Il caso della ferrovia sopraelevata evoca il desolante destino della sopraelevata a Italia ’61, l’esposizione torinese per il centenario dell’Unità nazionale: da allora per decenni un rudere cadente e coperto di erbacce.
L’unica costruzione realizzata apposta per l’Expo e rimasta tuttora in piedi (integra all’esterno, parzialmente modificata dentro) è quella dell’odierno Acquario comunale. «Nacque, appunto, proprio come acquario e con l’idea che diventasse una struttura stabile», racconta Crippa. «Anche se il progetto iniziale era più complesso e prevedeva un’utilizzazione per l’alimentazione pubblica: si riteneva, giustamente, che la dieta dei cittadini andasse integrata col pesce e lì, a questo scopo, doveva essere sistemato un allevamento ittico».
Insomma, se altrove (si pensi al Crystal Palace, a Londra nel 1851, alla Torre Eiffel parigina nel 1899 o ai grattacieli tirati su in occasione delle tante manifestazioni americane) le esposizioni universali letteralmente trasformarono l’ambiente urbano, a Milano non si può dire che l’edizione del 1906 impresse troppe tracce.
Il vento della modernità. Va aggiunto che neanche dell’esposizione, nazionale stavolta, che era stata organizzata venticinque anni prima (nel 1881, in pieno sviluppo urbanistico della città) restano imponenti segni tangibili. Era intitolata al “Mondo nuovo” e doveva segnare l’ingresso dell’Italia nella cerchia ristretta delle nazioni moderne e industrializzate. Proprio per questo non erano mancate le discussioni. La prima sede scelta fu Roma, poi si decise di spostarsi su Milano perché era quella l’unica città che, realmente, poteva dare verità all’obiettivo programmatico. Si chiamò Esposizione Nazionale dell’Industria e delle Belle Arti e la zona coinvolta fu, in questo caso, quella del parco compreso fra i Bastioni di Porta Venezia e via Palestro con la Villa Reale, oggi ribattezzato in onore di Indro Montanelli.
All’epoca, l’area si chiamava Nuovi Giardini Pubblici ed era stata progettata, nel 1862, dall’architetto Balzaretto con, a sud, un giardino paesaggistico e, a nord, un giardino pittoresco con rocce e giochi d’acqua.
L’intervento per l’Expo fu massiccio, con diversi nuovi edifici, padiglioni, torri e porte d’ingresso. Ma, anche in questo caso, l’impronta della manifestazione espositiva è esigua. Anche l’edificio che più si tenderebbe a far risalire a quell’occasione, la scuola materna sul Monte Merlo (un tempo si chiamava Padiglione del Caffè), esisteva già prima, venne usato nell’occasione ma fu poi ristrutturato con la generale risistemazione dell’area nel 1920.