Annalisa D’Aprile, il Venerdì 3/5/2013, 3 maggio 2013
LA MAFIA CINESE GUADAGNA TERRENO (QUELLO LASCIATO DALLA NOSTRA)
ROMA. Sulle porte a vetri c’è scritto «Massaggi orientali» o «Centro benessere», poi tradotto in ideogrammi su sfondi che vanno dal rosso al fucsia. Sono tanti, tantissimi, aumentati in maniera esponenziale negli ultimi anni. Chi varca gran parte di quelle porte, non entra in semplici centri per massaggi. Ma in uno dei più grandi business della mafia cinese. Sono case chiuse camuffate da centri estetici e riempiono il vuoto lasciato dalle organizzazioni criminali italiane. Le rumene e le albanesi le trovi in strada. Le cinesi le trovi li. È solo uno dei redditizi business della mafia cinese. Poi c’è la vendita di prodotti contraffatti e di oggetti made in China, tutta merce che entra illegalmente in Italia. A gestire questo commercio era, fino al momento della cattura, lo scorso ottobre a Roma, principalmente Wang He Jian, 31 anni, titolare di uno dei più grandi magazzini di «cineserie» del centro Italia. Jian era il franchising di una organizzazione tentacolare che aveva il suo centro in Spagna. Con i suoi depositi di casalinghi in zona Tiburtina, riforniva i negozi di Lazio e Lombardia, anche se era solo «il gradino più basso dell’organizzazione iberica», spiega Vincenzo Nicolì, dirigente della seconda divisione del Servizio centrale operativo.
Dalla Spagna, a tirare le fila di una struttura mafiosa molto più complessa e ramificata c’era Gao Ping. Almeno fino all’operazione Emperador, dell’ottobre scorso, la più importante mai portata a termine in Spagna contro la criminalità economica, con cinque Paesi coinvolti. E chissà cosa ha pensato, re Juan Carlos, quando ha scoperto che quel mite cinese di 45 anni, sposato, con tre figli, in posa accanto a lui nella foto scattata nel 2008 in quell’immensa galleria d’arte di Madrid, era uno dei boss mafiosi più potenti. Sì, perché Ping non ha nulla dei padrini nostrani, rintanati come il boss mafioso Bernando Provenzano tra baracche isolate e scantinati ammuffiti.
Gessato, cravatta Regimental, questo «imprenditore», in Spagna da 25 anni, è proprietario di una zona commerciale (Fuenlabrada, hinterland di Madrid) considerata tra le più vaste d’Europa, mercante d’arte e proprietario di uno spazio espositivo di quattromila metri quadrati. Nel 2011 è stato addirittura premiato dalla rivista spagnola Descubrir el Arte per aver promosso l’arte spagnola all’estero. «Parliamo di uomini d’affari, di persone inserite nella comunità e nel contesto economico internazionale» dice Nicolì.
Secondo I.M.D. (acronimo di un poliziotto della sezione Catturandi di Palermo, autore del libro Dragoni e lupare, Dario Flaccovio editore pp. 252, euro 13) nella mafia cinese non c’è «nessuna super testa di dragone», piuttosto «dragoni a più teste che operano indipendentemente gli uni dagli altri nel business del malaffare». Un network di diversi sodalizi criminali che sanno scambiarsi, anche a livello europeo e internazionale, una serie di favori. «Nessun capo unico» continua Nicolì, «e nessuna riproduzione della Triade in territorio italiano, ma più organizzazioni che operano tra Milano, Roma, Prato e che sono molto forti in Spagna, Francia, Germania». Ping è una delle teste. «Da quello che fanno» assicura Nicolì «ricavano guadagni straordinari». Il ricco imprenditore infatti, sarebbe a capo di un’organizzazione criminale ramificata in Italia, Belgio, Germania e Svizzera (tutti paesi coinvolti nella maxi operazione di arresti e sequestri del 18 ottobre 2012), ed è accusato con altre 70 persone (di cui 50 cinesi) di riciclaggio, evasione fiscale, contraffazione di merci, traffico di droga, prostituzione, tratta di esseri umani. Secondo la Guardia di finanza, nelle sue casse è entrato un miliardo e 200 milioni di euro in quattro anni, soldi ripuliti e spediti in Cina anche attraverso l’Italia.
Chi è che si occupa del trasporto? Quelle migliaia di cinesi che entrano ogni anno con visto turistico e vengono poi inghiottiti dalla clandestinità. In questo modo ripagano il debito del viaggio o quello contratto per avviare un’attività. Ma possono ripagarlo anche importando quei quantitativi stratosferici di merce contraffatta o realizzata con materiali di scarto che finisce nei negozi europei: «Per una serie di meccanismi doganali» spiega Nicolì «con la scusa di dover trasferire le merci in altri paesi non pagano l’iva all’ingresso nel territorio europeo. Poi scatta il gioco delle scatole cinesi con imprese aprono e chiudono nel giro di 6 mesi. Così, quando gli uffici doganali europei cercano il pagamento dell’iva alla ditta, questa non esiste più e la merce è finita in vendita...».
Tra le mafie, italiane e cinesi, nessuna guerra, piuttosto cooperazione. «Collaborare conviene a tutti. In altre indagini abbiamo individuato dei collegamenti tra malavita cinese e organizzazioni italiane: la camorra napoletana si è appoggiata ai cinesi per la contraffazione dei marchi e i cinesi si sono riforniti di
stupefacenti nelle piazze di spaccio napoletane» continua il dirigente dello Sco.
Secondo gli investigatori la mafia cinese è simile più di ogni altra a quella italiana e «si è fatta largo tra le altre organizzazioni occupando spazi lasciati liberi dalla nostra criminalità».
L’attività dello Sco e della Direzione centrale anticrimine sta individuando le organizzazioni che gestiscono contemporaneamente l’immigrazione clandestina, i sequestri di familiari (a garanzia che il cinese arrivato in Italia «rimborserà» il costo del viaggio, circa ottomila euro), le rapine (fatte anche solo per controllare il territorio), il traffico di stupefacenti, le bische clandestine, la prostituzione. La comunità cinese resta chiusa, la lingua una barriera insormontabile, eppure da un paio d’anni è in atto un cambiamento: i cinesi iniziano a denunciare alla polizia italiana i crimini subiti dai loro concittadini che sono stati anche arrestati. Troppo poco per dire che la piovra cinese ha i giorni contati. Ma quattro anni fa su cinque rapine non ne veniva denunciata nemmeno una.