Paolo Mastrolilli, La Stampa 3/5/2013, 3 maggio 2013
LA MIA FAMIGLIA DIVORATA DALLA DROGA
«Quattro settimane fa abbiamo perso Harley, il figlio di mio marito. È morto di overdose». Così, con questo pugno diretto sulla bocca dello stomaco, Isabel Allende cambia tutto. Nella sala dove è venuta a presentare il suo romanzo cala prima il gelo, poi la commozione, infine il compatimento. Capisci cosa intende lei, quando dice che «i miei libri li chiamano "realismo magico", ma sono realtà. Radicati nella realtà».
La vita stavolta ha giocato uno scherzo tragico a Isabel, perché Maya’s Notebook (HarperCollins), già pubblicato in Italia (Il quaderno di Maya , Feltrinelli) ma solo ora uscito negli Usa, racconta la storia di una ragazza tossicodipendente. Maya Nidal cresce a Berkeley con i nonni, perché il padre fa il pilota di aerei ed è sempre in viaggio, e la madre danese lo ha lasciato. Nini, la nonna, è emigrata dal Cile all’epoca del colpo di Stato contro Allende, cugino del padre di Isabel: «È piccola e cattiva come me», scherza la scrittrice. Popo, il nonno, è un astronomo afro-americano, dolcissimo e innamorato della nipote. Quando muore di cancro, Maya perde la strada: alcol, droga, crimine. Una spirale che la porta a Las Vegas, dove viene violentata e reclutata da una banda di spacciatori. La nonna però la ritrova e la spedisce nell’arcipelago cileno di Chiloé, tanto magnifico quanto desolato, per aiutarla a ricostruirsi la vita.
I critici dicono che questo libro è una rottura col passato per lei, perché non è un romanzo storico.
«È vero. Ero stanca di questi libri che richiedono anni di ricerche, per essere completati. Volevo scrivere qualcosa di più leggero, che potesse basarsi solo sul flusso della mia ispirazione. Alla fine non è uscito leggero».
Come le è venuto in mente di scrivere di adolescenti drogati?
«I ragazzi intorno a me erano così. Mio figlio Nicolas ha perso tutti i capelli per cercare di proteggere mia nipote, Nicole, che ha il corpo di Jennifer Lopez e il cervello di una bambina di otto anni. Io ero terrorizzata, perché vedevo tutti i pericoli che minacciavano i miei nipoti: violenza, droga, alcol, e ora anche Internet. Ho preso spunto da loro, e purtroppo dai figli del mio marito americano: tre, tutti tossicodipendenti».
In una scena del libro, Maya sta morendo di overdose sul pavimento di un bagno pubblico, ma poi qualcosa la salva.
«Sente una voce che le dice: "Respira, Maya, respira!". Allunga lo sguardo verso lo spazio aperto tra la porta del bagno e il pavimento, e vede le scarpe del nonno Popo: è sua la voce che la riporta in vita».
Perché è una scena così importante?
«Non l’ho inventata, è vera. Qualche tempo fa Harley, il mio figliastro, stava morendo di overdose sul pavimento di un bagno pubblico. Sua sorella, Jennifer, era morta nella stessa maniera anni prima. Harley stava perdendo conoscenza, quando aveva sentito una voce che gli diceva: "Respira, Harley, respira!". Era la voce di Jennifer. Il ricordo della sorella lo aveva salvato. Dopo si era rimesso, pensavamo di averlo recuperato. E invece, quattro settimane fa, è arrivata una chiamata dal portiere della sua casa...».
Quando arriva in Cile, Maya riscopre anche la storia della sua famiglia, fuggita dopo il golpe di Pinochet. I suoi connazionali l’hanno criticata, dicendo che questa roba non c’entra niente con la vicenda di droga e adolescenti americani al centro del romanzo. Proprio non riesce a scordarla?
«E perché dovrei? Perché dovremmo? Qualcuno forse sostiene che sarebbe ora di dimenticare l’Olocausto. Io probabilmente non sarei nemmeno una scrittrice, senza il golpe: sarei una giornalista in Cile. Scappai in esilio in Venezuela, dove facevo l’insegnante. Avevo quarant’anni e sentivo che la vita mi stava sfuggendo, senza aver combinato nulla. La Casa degli spiriti nacque così, scrivendo la sera in cucina dopo aver pulito i piatti. Ma una volta aperto il mio petto, tutto quello che c’era è uscito. Ora non riesco più a occuparmi di cose che non abbiano alcun legame con i temi sociali, politici, con la realtà».
Lei ha perso anche una figlia, Paula, e ne ha scritto. Perché?
«Era l’unica maniera per non morire anch’io. La vedo ancora camminare per strada: vedo una ragazza con i jeans e la coda di cavallo, e penso che sia Paula. Scrivere mi è servito a ricordare la sua agonia, capirla e accettarla. Mia madre mi ha detto: piangere un figlio è come camminare da sola, nel buio. È doloroso come niente altro, ma alla fine, passo dopo passo, arriva la luce. A quel punto nulla può più farti male, e questo è il grande regalo che mi ha lasciato Paula».
Cosa suggerisce, ai genitori che si trovano davanti al dramma della tossicodipendenza dei figli?
«Niente. E cosa potrei suggerire? Solo la speranza che ai loro figli succeda quello che nel romanzo capita a Maya: cominciare a vedere la bellezza della vita, per quanto complicata. Interessarsi alle persone che ci stanno intorno, con le loro storie straordinarie. Capire la prima legge della natura, che è quella della reciprocità: devi dare, tanto quanto prendi. E così, finalmente, smettere di guardarsi l’ombelico e vivere».