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 2013  maggio 03 Venerdì calendario

IL CASO DI TORINO E UN CLASSICO DELLA STORIA COMUNISTA

Traditori. L’epiteto scagliato contro militanti e dirigenti torinesi del Pd durante la manifestazione del Primo Maggio appartiene al lessico famigliare di una certa sinistra: il peggior nemico non è l’avversario politico ma il parente più prossimo, il compagno che non ha la tua stessa idea, o l’ha cambiata. Nei giorni precedenti i dirigenti del Pd si erano già ritrovati ad essere bersagliati: con voi non vinceremo mai, andate a casa, buffoni. Legittime contestazioni politiche. Ora lo scatto lessicale, quel «traditori» che sovrappone un giudizio morale a quello politico. Ed è come se si fosse compiuta una piccola nemesi. I primi comunisti definivano «socialtraditori» i socialisti come Giacomo Matteotti che non volevano sottostare ai diktat di Mosca; venti anni dopo, per un dirigente del Pci come Pietro Secchia, era stato proprio il suo partito a «tradire» la Resistenza, non prendendo il potere con le armi. Ed è anche a quel rimpianto che si collegarono i brigatisti, arrivando ad assassinare i «traditori del proletariato»: comunisti come Guido Rossa, riformisti come Walter Tobagi, Ezio Tarantelli, Vittorio Bachelet, Massimo D’Antona, Marco Biagi.

Certo, l’aggressività di questi giorni verso i dirigenti del Pd trova alimento in qualcosa che non ha precedenti: il cambio di linea politica - in 12 ore si è passati dal «mai con Berlusconi» al governo con i ministri del Pdl - è stato così brusco da non essere accompagnato neppure dal rituale «contrordine compagni». In altre parole, nessuno al vertice del Pd si è preoccupato di motivare le ragioni politiche della svolta. Un black out che sta producendo smarrimento tra elettori, militanti, dirigenti locali ed è naturale che il dissenso nei loro confronti si stia caricando di aggressività.

Ma il lessico dei contestatori viene da lontano. E, sia pure, per effetto di foto sbiadite, in qualche modo appartiene all’album di famiglia della sinistra italiana. E’ curioso ma il primo ad utilizzare il termine traditori è stato colui che si sarebbe rivelato l’intellettuale più geniale della sinistra italiana, Antonio Gramsci. Nel 1920, ancora socialista, il giovane sardo tiene una rubrica su «L’Ordine Nuovo» che si chiama «Traditori sociali», con la quale tiene sotto i tiro i detestati riformisti del suo partito. Lì ci sono le premesse di un episodio poco noto ma straordinario. E’ l’anno 1930. Sandro Pertini, condannato dal Tribunale Speciale viene spedito nel carcere di Turi, dove è recluso anche Gramsci. In cortile Pertini si avvicina: «Mi scusi, lei è l’onorevole Gramsci, vero?». E Gramsci: «Che fai, mi dai del lei? Non sei un antifascista anche tu?». «Sì, mi chiamo Sandro Pertini, ma sono socialista…». «Perché dici “ma”»? «Perché per voi comunisti quelli come me sono dei “social-traditori”». Gramsci sorride amaramente: «Lascia perdere, quell’insulto è un’aberrazione, io non l’approvo».

Ma di lì a poco, il Pci di Togliatti sposa la linea di Stalin e i socialisti in esilio diventano addirittura «socialfascisti». Anche se l’episodio politicamente più significativo di criminalizzazione del dissenso interno si consuma nel 1951: due deputati emiliani del Pci che avevano fatto la Resistenza, Valdo Magnani e Giuseppe Cucchi, vengono espulsi soltanto per aver espresso diffidenza verso l’Urss di Stalin. Memorabile resterà la scomunica pronunciata da Togliatti («anche nella criniera di un nobile cavallo possono trovarsi due o tre pidocchi»), anche se restano esemplari le raccomandazioni di alcuni dirigenti del Pci, a cominciare da quella di Antonio Roasio: «Dobbiamo farli odiare da tutti».

Una qualche eco di quel linguaggio verrà ritrovata nei comunicati delle Br da parte di una personalità che conosce la storia della sinistra come Rossana Rossanda: «Chiunque sia stato comunista negli Anni Cinquanta riconosce di colpo il linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi di Stalin e Zdanov. Il mondo, imparavamo allora, è diviso in due. Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo». Il mondo diviso in due dei terroristi che infatti indicano la Cgil e il Pci come i «traditori del proletariato». Ed è in quel clima che matura un episodio che ha lasciato il segno nella memoria degli attuali dirigenti del Pd: il 17 febbraio del 1977, alla Sapienza a Roma il leader della Cgil Luciano Lama viene fatto oggetto, da parte degli autonomi, di una durissima contestazione che assume il sapore di una dissacrazione.