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 2013  maggio 03 Venerdì calendario

IL BIN LADEN BUDDISTA GRAN MAESTRO DELL’ODIO


Quando all’inizio del 2012 gli ex generali birmani liberarono centinaia di prigionieri politici come segno di riconciliazione nazionale, all’uscita dal carcere c’era anche lui, Ashin Wirathu, il monaco buddista che oggi si definisce senza ironia “il Bin Laden birmano”.
La testa rasata sul volto infantile, dall’aria che sembra timida, a 45 anni Wirathu è oggi il più controverso protagonista di un fenomeno che sta mettendo in ombra lo stesso nuovo corso democratico benedetto da Aung San Suu Kyi. Condannato nel 2003 a 25 anni di carcere per «istigazione all’odio e al disordine sociale», all’indomani della sua liberazione ha iniziato a ripetere gli stessi slogan che gli costarono la cella: «Via i musulmani dal Paese, boicottiamo i loro affari, impediamogli di prendere le nostre terre e le nostre donne per convertirle e trasformare la Birmania in uno Stato islamico ». E suo è il manifesto della ribellione di massa che ha preso piede in Birmania partendo dallo Stato settentrionale dell’Arakan ed estendendosi fino a Meiktila, nella provincia di Mandalay, con 240 vittime da un anno a questa parte. Case, monasteri e moschee sono stati bruciati in veri pogrom, mentre decine di migliaia di sfollati musulmani sono finiti nei campi profughi.
Il verbo del “Bin Laden buddista” è condensato in parecchi video che registra da solo nel celebre monastero Ma Soe Yein di Mandalay, dove vive, e che grazie alla ritrovata libertà di stampa distribuisce ovunque. A decine di migliaia visitano i suoi post su YouTube, dove i discorsi più infuocati sono anche tradotti in inglese. Così questo monaco, figlio di un trattorista e una casalinga, a malapena giunto alla terza media, è diventato l’eminenza grigia — o l’anima nera, come dicono molti — di un movimento ultrareligioso oggi riconoscibile dall’uso di tre numeri tratti dai sacri Sutra del Buddha, 969. Nove sono le qualità del Buddha, sei quelle dell’insegnamento e nove quelle della comunità dei discepoli. La sequenza numerica sponsorizzata apertamente da Wirathu si è trasformata ormai nel “marchio della divisione”. Serve a distinguere tra ogni genere di affare condotto dai buddisti e le attività dei «demoniaci musulmani», o “kalar”, un termine usato come altrove la parola “negro”.
L’idea di applicare il numero sui taxi, all’ingresso di negozi e ristoranti e dovunque possibile, non nasce a caso. È la risposta diretta a un’altra cifra a sfondo mistico, il 786, adottata da tempo dai commercianti musulmani per contrassegnare i negozi dove si vende cibo “halal”, purificato secondo i canoni della loro religione. Significa «Nel nome di Allah il compassionevole», ma secondo Wirathu la somma compone volutamente il numero 21, ovvero il secolo Ventunesimo, e sarebbe un codice stabilito segretamente dai maomettani birmani per spodestare il buddismo e imporre la Sharia. Nell’immaginazione del “Bin Laden buddista” e dei suoi numerosi seguaci, anche il 969 è la rappresentazione numerica di un messaggio esoterico preciso: il “rifugio” del popolo buddista nei Tre gioielli del Buddha, del Dharma e del Sangha, ovvero i fondamenti della dottrina seguita da più dell’80 per cento della popolazione.
Non mancano però i monaci che ritengono Wirathu un «pericoloso fondamentalista, esibizionista e provocatore che con i suoi discorsi estremi contraddice lo stesso spirito tollerante del buddismo », come ha dichiarato U Gambira, religioso celebre durante la Rivoluzione di zafferano del 2007 contro il regime. Ma secondo l’autorevole giornalista e scrittore U Win Tin, che fu tra i pionieri della Lega nazionale di Aung San Suu Kyi, “il Venerabile” Wirathu è solo la lunga mano propagandistica dei generali, che temono le aperture democratiche e vogliono mantenere il disordine per giustificare il potere dell’esercito. La prova? «La polizia non ha fatto nulla per fermare le violenze antiislamiche », spiega U Win Tin.
Di certo, dopo l’inizio delle violenze nell’Arakan, Wirathu organizzò una manifestazione a favore del nuovo presidente Thein Sein, che voleva deportare tutti i musulmani illegali fuori dall’Unione. Contro Aung San Suu Kyi — della quale in passato si era detto ammiratore — ha usato parole forti sia nei video che durante le interviste. «Non ha mai speso una parola per difendere le nostre comunità attaccate dai musulmani », ha detto di lei, accusando poi la Lega nazionale per la democrazia di dare potere a «rappresentanti islamici infiltrati prima nella giunta militare e ora nel partito solo per prendere un giorno il potere».
Dal suo ufficio nel monastero di Mandalay, che ospita oltre 2500 religiosi, il controverso predicatore continua a sfornare i suoi sermoni, invitando a «pensare nazionalista ». «Deve diventare una routine come mangiare, vestirsi e muoversi, ne va della nostra sopravvivenza », spiega. E conclude, senza modestia: «Quando chi non mi crede capirà che ho ragione, mi chiameranno saggio».