Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 03/05/2013, 3 maggio 2013
MORO, QUEL MURO DELLA FERMEZZA
Da un lato c’era il potere nella sua massima espressione: il governo in carica, guidato da Giulio Andreotti. Dall’altra un suo illustre rappresentante, ridotto a merce di scambio, rifiutato e restituito cadavere dopo cinquantacinque giorni di prigionia: Aldo Moro, ritrovato senza vita, nel bagagliaio di un’automobile.
Era il 9 maggio 1978, e alle 18.30 il Consiglio dei ministri si riunì a Palazzo Chigi. Il potere s’era già preparato a un’autocelebrazione in pompa magna, in nome della propria vittima caduta in battaglia: funerali di Stato, uffici e scuole chiuse, cerimonia e tumulazione a spese delle istituzioni. Poi però era arrivata la richiesta dei familiari di Moro di rispettare le volontà del presidente democristiano assassinato: niente manifestazioni, cerimonie od onorificenze. Il governo fu costretto a cambiare canovaccio, e il resoconto del Consiglio dei ministri, redatto a mano dal sottosegretario Franco Evangelisti, recita: «G.A. (Giulio Andreotti, ndr) legge il comunicato della famiglia Moro... Questo comporta a noi un diritto, quello di ricordare con profonda nostalgia chi in questa sala ha diretto larga parte della politica italiana». Ma in ossequio al «dovere» di seguire le indicazioni dei Moro, ecco la controproposta: «Invece di fare funerali di Stato, credo di poter fare qualcosa di diverso, come borse di studio dove Aldo insegnava».
Fine delle iniziative per commemorare lo statista sacrificato sulla «linea della fermezza»: nostalgia e qualche premio per gli studenti. Poi tocca al ministro dell’Interno Francesco Cossiga riepilogare la giornata, dalla telefonata dei brigatisti fino al suo arrivo in via Caetani, dov’era la R4 col corpo di Moro: «Ho fatto dare inizio a tutte le segnalazioni previste, facendo anche affluire consistenti rinforzi di pubblica sicurezza, carabinieri e guardia di finanza», si legge nel sunto dell’intervento. Quasi che il rappresentante del potere politico avesse il compito di dirigere le operazioni sul campo, in luogo del questore, del prefetto o del magistrato.
Del resto è uno degli elementi che emergono con maggiore chiarezza dai resoconti delle riunioni del governo: la «subordinazione» e il «depotenziamento» della magistratura rispetto alla centralità del Viminale. Lo rilevano David Sassoli e Francesco Garofani, due parlamentari del Pd con la passione per la storia, nel libro Il potere fragile. I consigli dei ministri durante il sequestro Moro, edito da Fandango Libri; un volume che raccoglie e analizza il contenuto in gran parte inedito delle otto riunioni tenutesi a Palazzo Chigi fra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, più quella del 17 maggio in cui il governo dibatté su cause e conseguenze del più rilevante atto terroristico contro il potere dalla nascita della Repubblica.
Il 29 marzo — giorno in cui le Br recapitano e rendono pubbliche le prime tre lettere del prigioniero, una delle quali diretta a Cossiga — il ministro dell’Interno applica il decreto legge approvato pochi giorni prima e chiede al procuratore di Roma «la copia di tutti gli atti, comprese le eventuali registrazioni di comunicazioni telefoniche, del procedimento penale relativo al sequestro di Moro». Serviranno al «comitato di crisi» istituito al Viminale, sul quale molto s’è detto e sospettato in questi trentacinque anni. E forse ai servizi segreti, i cui vertici pullulavano di affiliati alla Loggia P2 di Licio Gelli; dove non c’erano ce li mise il governo a sequestro in corso, come avvenne per il nuovo responsabile dell’organismo di coordinamento tra gli apparati di intelligence.
Tutto ciò emerge dai verbali compilati in varie versioni, ufficiose e ufficiali, delle riunioni in cui di Moro si parlava poco rispetto a quanto avrebbe richiesto la gravità della sfida terroristica. All’indomani della prima lettera dell’ostaggio. Andreotti taglia corto: «Gli argomenti che pone sono di estrema delicatezza, e non è il caso di discuterne oggi». Non si doveva incrinare la teoria degli scritti «non moralmente ascrivibili» all’ostaggio, utile a disattenderne le indicazioni ed erigere il muro della non trattativa. In ogni passaggio si avverte il soffocamento del dibattito, alla ricerca di un’unanimità forzata che sembra quasi esplodere nel Consiglio del 17 maggio senza Cossiga, dimessosi all’indomani dell’omicidio.
«Abbiamo fatto e incoraggiato molto di più di quello che è apparso per liberare Moro», rivendica Andreotti riferendosi a contatti con la Libia di Gheddafi e l’Olp di Arafat, oltre che a «trovate particolari (denaro) e anche proposte di scambi in altri Paesi (Cile)». L’errore dei socialisti, aggiunge, «non è di aver cercato una strada alternativa, ma di averla pubblicizzata». Il ministro della Giustizia Bonifacio suggerisce un’amnistia per alleggerire la tensione nelle carceri, terreno di battaglia dei brigatisti, mentre Malfatti, titolare delle Finanze, invita a tenere d’occhio la violenza nelle scuole. Carlo Donat Cattin, ministro dell’Industria, ammonisce: «Siamo deboli nei servizi segreti. Abbiamo accettato le accuse di connivenza senza prove, e sfasciandoli li abbiamo smontati... La polizia si è politicizzata e sindacalizzata... In un clima politico come l’attuale gli apparati non possono funzionare... Si sono date notizie senza avere riservatezza nell’azione istruttoria necessaria a perseguire il terrorismo». Due anni dopo Donat Cattin, non più ministro ma vicesegretario della Dc, fu travolto dallo scandalo del figlio, militante del gruppo armato Prima Linea; Cossiga, riemerso come capo del governo, fu accusato di avergli confidato notizie riservate. Il Parlamento, a maggioranza, votò per l’archiviazione. Il potere aveva eretto un nuovo muro a suo difesa.
Giovanni Bianconi