Notizie tratte da: Steven Pinker # Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia # Mondadori 2013 # pp. 898, 45 euro., 3 maggio 2013
Notizie tratte da: Steven Pinker, Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, Mondadori 2013, pp
Notizie tratte da: Steven Pinker, Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, Mondadori 2013, pp. 898, 45 euro.
(vedi anche biblioteca in scheda
e libro in gocce in scheda 2237809)
Il fatto più importante della storia dell’umanità, ci crediate o no, e so che la maggior parte di voi non ci crede, è che nel lungo periodo la violenza è diminuita e oggi viviamo probabilmente nell’era più pacifica della storia della nostra specie.
Le nostre facoltà cognitive ci predispongono a credere che viviamo in tempi violenti, specie quando sono alimentate da mezzi di comunicazione che seguono la parola d’ordine if it bleeds, it leads “se c’è sangue, fa notizia”. La mente umana tende a valutare la probabilità di un evento dalla facilità con cui può ricordarne degli esempi, ed è più facile che entrino nelle nostre case e s’imprimano a fuoco nella nostra mente scene di massacri piuttosto che di persone che muoiono di vecchiaia.
La mente è un sistema complesso di facoltà cognitive ed emotive. Alcune di queste facoltà ci rendono inclini a vari tipi di violenza. Altre, definite da Abraham Lincoln “i migliori angeli della nostra natura”, ci fanno tendere alla cooperazione e alla pace.
Nella storia si possono individuare sei tendenze principali che racchiudono l’allontanamento dalla violenza:
“Processo di pacificazione”, il passaggio dall’anarchia delle società dedite a caccia, raccolta e orticoltura, alle prime civiltà agricole con città e governi, nate circa 5000 anni fa.
“Processo di civilizzazione” tratto dal titolo di un classico del sociologo Norbert Elias. Dal tardo Medioevo al XX secolo, i paesi del Vecchio Continente videro una riduzione di tassi di omicidi da dieci a cinquanta volte.
“Rivoluzione umanitaria” a partire dall’Illuminismo europeo e l’Età della ragione nel XVII e XVIII secolo, in cui si attivarono i primi movimenti organizzati ad abolire forme socialmente approvate di violenza come il dispotismo, la schiavitù, il duello, la tortura giudiziaria, le uccisioni dovute alla superstizione, la punizione sadica e la crudeltà verso gli animali.
“la Lunga pace” dopo la fine della seconda guerra mondiale, periodo in cui le grandi potenze hanno smesso di farsi la guerra.
“la Nuova pace” dalla fine della guerra fredda i conflitti organizzati di ogni genere –guerre civili, genocidi, repressioni di governi autocratici e attacchi terroristici- sono diminuiti in tutto il mondo.
“Rivoluzione dei diritti” dai tardi anni Cinquanta fino ai giorni nostri, si nota un crescente ripudio delle forme di aggressione su scala minore come violenza contro minoranze etniche, donne, bambini, omosessuali e animali.
Secondo la “Teoria idraulica della violenza”, negli essere umani c’è una pulsione interiore all’aggressività che cresce dentro di noi e deve periodicamente scaricarsi. Sbagliato: l’aggressività è un prodotto di diversi sistemi psicologici che differiscono per inneschi ambientali, logica interna, basi neurobiologiche e distribuzione sociale. Cinque sono i tipi di violenza che si scatenano nell’essere umano, Cinque demoni interiori: la violenza predatoria o strumentale, dispiegata quale mezzo pratico per un fine; la dominanza è brama di autorità, prestigio, gloria e potere fra individui o supremazia su gruppi razziali, etnici, religiosi e nazionali; la vendetta che alimenta la spinta moralistica a castigo, punizione e giustizia; il sadismo, piacere che si trae dalla sofferenza altrui; l’ideologia, un sistema di credenze condiviso, in cui sottesa visione utopica che giustifica una violenza illimitata nel perseguimento di un bene illimitato.
Quattro migliori angeli, sono gli impulsi umani che possono distogliere dalla violenza e orientare alla cooperazione e all’altruismo: empatia, autocontrollo, senso morale, ragione.
Cinque forze storiche, ovvero cinque forze esogene che favoriscono il processo di pace: leviatano, commercio, femminizzazione, cosmopolitismo, scala mobile della ragione.
Gli scienziati per dimostrare che viviamo in un’epoca insolitamente pacifica saggiano le loro conclusioni con un sanity check, un campione di fenomeni del mondo reale che consenta di escludere eventuali pecche metodologiche e li rassicura di non essersi persi in conclusioni insensate.
Otzi, l’uomo dei ghiacci rinvenuto da due escursionisti sulle Alpi tirolesi nel 1991, divenne una celebrità. Apparve su “Time Magazine” e fu oggetto di numerosi libri, documentari e articoli. Dieci anni dopo, un’équipe di radiologi fece una scoperta sensazionale: Otzi era stato ucciso. Altri esempi celebri di resti preistorici che incontrarono morte violenta: l’uomo di Kennewick, con un proiettile di pietra conficcato nel bacino; l’uomo di Lindow a cui un oggetto contundente fratturò il cranio, un cordone intrecciato gli spezzò il collo e a cui fu tagliata la gola.
Per gli eroi dell’Iliade la carne femminile era un legittimo bottino di guerra: la donna era lì per essere goduta, monopolizzata ed eliminata a loro piacimento.
La Bibbia ebraica, best seller assoluto a livello mondiale, tradotta in tremila lingue e oggetto di devozione, è una lunga celebrazione della violenza: Caino e Abele, Abramo e Isacco, Giacobbe e Dina. Secondo il biblista Raymund Schawager, la Bibbia ebraica “contiene oltre seicento passi che parlano esplicitamente di nazioni, re o individui che attaccano, distruggono e uccidono”.
Matthew White “atrocitologo” che ha realizzato un database con una stima delle perdite di vite umane nei maggiori conflitti, massacri e genocidi della storia, calcola, per gli assassinii di massa specificamente menzionati dalla Bibbia, circa 1 milione 200.000 morti. (Esclude il mezzo milione di vittime della guerra fra Giuda e Israele narrata in 2 Cronache 13 perché considera il conto dei cadaveri storicamente inverosimile). Il diluvio di Noè aggiungerebbe al totale altri 20 milioni di vittime circa.
Come la Bibbia ebraica apre uno squarcio sui valori della metà del I millennio a.C., così la Bibbia cristiana ci dice molto sui primi due secoli della nostra era. Il metodo più famoso con cui gli antichi romani davano la morte era la crocifissione. I risultati di un’indagine medico-legale sulla morte di Gesù Cristo, basata su fonti archeologiche e storiche, pubblicata nel 1986 sul “Journal of the American Medical Association” ci dice che i soldati frustavano il prigioniero nudo su glutei e gambe con un corto staffile di cuoio intrecciato in cui erano incastonate pietre appuntite e “le lacerazioni arrivavano ai muscoli scheletrici sottostanti e producevano strisce tremolanti di carne sanguinante”. La morte per asfissia o dissanguamento dovuto al peso del corpo pendente inchiodato all’asse, giungeva dopo un supplizio che poteva durare da tre o quattro ore a tre o quattro giorni. Note sono le torture a morte subite dai primi santi cristiani.
Il nome della corte di re Artù, Camelot, diede il titolo a un musical di Broadway, e quando, dopo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, si sparse la voce che quella colonna sonora gli era molto piaciuta, divenne un termine nostalgico per indicare la sua amministrazione. I versi preferiti di Kennedy sarebbero stati: “Non lasciate che si dimentichi, che c’è stato una volta un luogo, / per un breve luminoso momento, che si chiamava Camelot”.
Il medievalista Richard Kaeuper ha conteggiato il numero di atti di estrema violenza descritti nel più famoso di questi romanzi, Lancillotto, del XIII secolo, e ne ha trovati in media uno ogni quattro pagine.
A chi studia la storia della Gran Bretagna viene spesso insegnato un evento chiave tramite un espediente mnemonico:
King Henry the Eight, to six wives he was wedded:
On died, one survived, two divorces, two beheaded.
(Re Enrico VIII, sei mogli sposò: / una morì, una sopravvisse, da due divorziò, due le decapitò).
Un recente articolo apparso negli “Archives of Diseases of Childhood” ha misurato il tasso di violenza in diversi generi di svaghi per bambini. I programmi televisivi contengono 4,8 scene di violenza all’ora, le filastrocche 52,2.
L’uomo raffigurato sui 10 dollari americani, Alexander Hamilton, è una delle figure più luminose della storia americana, eppure fece qualcosa che con il metro di misura di oggi appare incredibilmente stupido. Da tempo si punzecchiava con il vicepresidente Aaron Burr e, quando Hamilton si rifiutò di smentire una critica a Burr a lui attribuita, quest’ultimo lo sfidò a duello. Nonostante trovò ben cinque obiezioni a quella pratica, accettò comunque di battersi scrivendo che “ciò che gli uomini di mondo chiamano onore” non gli lasciava altra scelta. Morì il giorno dopo.
Andrew Jackson, immortalato sul biglietto da 20 dollari, aveva in corpo tante pallottole che diceva di “tintinnare”, quando camminava, “come un sacco pieno di biglie”.
Come osserva il saggista Arthur Krystal: “La gente di alto lignaggio… prendeva l’onore così sul serio che quasi ogni offesa diveniva un’offesa all’onore. Due inglesi si batterono a duello perché i loro cani si erano azzuffati. Due gentiluomini italiani litigarono su chi era il più bravo fra il Tasso e l’Ariosto, e la discussione si concluse quando uno dei due combattenti, ferito a morte, confessò di non avere mai letto il poeta di cui si era fatto paladino. E il quinto barone di Byron, William, prozio del celebre poeta, uccise un uomo con cui aveva avuto un diverbio su quale tenuta, la sua o quella dell’altro, fosse più ricca di selvaggina”.
In duelli furono coinvolti Voltaire, Napoleone, il duca di Wellington, Robert Peel, Tolstoj, Puskin e il matematico Evariste Galois, e gli ultimi due vi trovarono la morte.
Quando la Parker Brothers volle lanciare una versione tedesca di Risiko il governo di Bonn tentò di censurarla. (Alla fine le regole furono riscritte in modo che compito dei giocatori fosse di “liberare”, invece che conquistare, i territori degli avversari).
Nel 1950, il presidente Harry Truman aveva letto sul “Washington Post” una critica scortese a un’esibizione di sua figlia, Margaret, aspirante cantante. Truman scrisse al critico, su carta intestata della Casa Bianca: “Spero un giorno di incontrarla e, se ciò accadrà, probabilmente avrà bisogno di un naso nuovo, di un bel po’ di bistecche per gli occhi pesti, e di qualcuno che la tenga in piedi”. All’epoca, il fatto gli guadagnò una diffusa ammirazione.
In una pubblicità degli anni Cinquanta delle camicie Van Hausen una moglie viene sculacciata, mentre nel 1953 quella delle macchine affrancatrici Pitney-Bowes mostra un capo che urla esasperato contro una segretaria cocciuta, e ha una didascalia che recita: “È sempre reato uccidere una donna?”.
Quando una tendenza verso la violenza evolve, è sempre strategica. Gli organismi sono selezionati per usare violenza solo in situazioni in cui i benefici previsti superano i costi previsti. Hobbes in un passo del Leviatano (1651) espone quella che rimane tuttora l’analisi più valida degli incentivi alla violenza: “In questo modo, nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa. Per prima cosa, la competizione; secondariamente, la diffidenza; in terzo luogo, la gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per il guadagno, la seconda per la sicurezza e la terza per la reputazione. Il primo uso della violenza è per rendersi padroni della persona di altri uomini, donne, bambini e animali; il secondo è per difenderli e il terzo per cose di poco conto, come una parola, un sorriso, un’opinione diversa e qualsiasi altro segno di sottovalutazione indirizzato o direttamente alla loro persona oppure di riflesso ai loro parenti, ai loro amici, alla loro nazione, alla loro professione o al loro nome”.
Lo studioso di scienze politiche Thomas Schelling propone un’analogia con il padrone di casa armato che sorprende un ladro armato: ciascuno dei due, per evitare che l’altro gli spari per primo, è portato a sparargli. Questo paradosso è talvolta chiamato “trappola hobbesiana” o, nel campo delle relazioni internazionali; “Dilemma della sicurezza”. Il modo più ovvio per districarsi da questa trappola è una politica di deterrenza: non attaccare per primi, ma essere abbastanza forti da sopravvivere a un primo attacco e procedere, contro qualsiasi aggressore, a ritorsioni equivalenti all’attacco subìto.
Un’importante caratteristica progettuale della natura umana, il self-serving bias, cioè la tendenza dell’individuo ad attribuire i propri successi a cause interne e i propri insuccessi a cause esterne, può portare ognuna delle parti a credere che il proprio atto di violenza sia stato una giustificata ritorsione, mentre quello dell’altro un’ingiustificata aggressione. Il modo per uscirne viene suggerito da Hobbes con il titolo del suo capolavoro: il leviatano, una monarchia o altra autorità governativa che incarni la volontà del popolo e abbia il monopolio dell’uso della forza.
Quando i primi agricoltori misero radici non diedero subito vita a Stati e governi complessi. Inizialmente si riunirono in tribù, che a volte si fusero tra loro in chiefdoms, entità caratterizzate da un capo centrale e una cerchia permanente che lo sostiene. Ci vollero circa 5000 anni perché facessero la loro comparsa veri e propri Stati quando i chiefdoms più potenti usarono i loro uomini armati per portare altri chiefdoms e tribù sotto il proprio controllo, centralizzando ulteriormente il potere e aprendo spazi per il radicamento di classi specializzate di artigiani e soldati. Ancora oggi, molte parti di Stati falliti, come la Somalia, il Sudan, l’Afghanistan e la Repubblica del Congo, sono sostanzialmente chiefodms, i cui capi noi chiamiamo “signori della guerra”.
Negli ultimi quindici anni, studiosi senza alcun mulino politico a cui portare acqua, come Lawrence Keeley, Steven LeBlanc, Azar Gat e Johan van der Dennen, hanno iniziato a registrare sistematicamente la frequenza e letalità delle battaglie in consistenti campioni di popolazioni non statuali. L’apparente innocuità di un singolo combattimento trae in inganno: quando gruppi di una decina di uomini si scontrano regolarmente tra loro, anche uno o due morti per ogni scontro possono portare a un tasso di caduti che è notevole.
Hobbes osservò che gli esseri umani, in particolare, hanno tre cause di contesa: guadagno, sicurezza e deterrenza credibile. Nelle società non statuali si combatte per tutte e tre.
Diversi studiosi hanno recentemente setacciato la letteratura antropologica e storica alla ricerca di ogni attendibile conteggio di vittime in società non statuali. Nel mondo presente nel suo insieme, lo Human Security Report Project ha contato per il 2005 un tasso dello 0,0003 (3 centesimi di punto percentuale). Scopriamo che vivere in una civiltà riduce di cinque volte la probabilità di rimanere vittime di violenza. Nei moderni paesi occidentali, persino nei secoli più sconvolti da conflitti bellici, il tasso medio di morte è stato solo un quarto circa di quello registrato nelle società non statuali, e inferiore a un decimo di quello registrato nella società più violenta.
Secondo due studi etnografici, dal 65 al 70 per cento dei gruppi di cacciatori-raccoglitori affrontano una guerra almeno ogni due anni, il 90 per cento almeno una volta nel corso di una generazione, e praticamente tutti gli altri conservano la memoria culturale di guerre del passato. Esistono, certo, cacciatori-raccoglitori e cacciatori-orticoltori, come i semai, fra cui non sono mai stati documentati episodi di uccisioni collettive. Ma se è vero che ci sono pochi semai assassini, è altrettanto vero che ci sono pochi semai.
Da una verifica effettuata tramite un questionario su Internet, su come fosse percepita la violenza, dalle risposte è risultato che, per gli intervistati, l’Inghilterra del XX secolo doveva essere di circa il 14 per cento più violenta di quella del XIV. In realtà è stata del 95 per cento meno violenta. Il calo di omicidi più sensibile ha avuto luogo fra il 1300 e il 1900. Il criminologo Manuel Eisner ha raccolto una serie di stime molto ampia, attingendo a inchieste di coroner, casi giudiziari e documentazioni locali, per diversi paesi dell’Europa occidentale: con il XX secolo, il tasso annuo di omicidi in tutti i paesi dell’Europa occidentale era ormai crollato, collocandosi in una stretta fascia attorno all’1 per 100.000. Agli uomini è stato sempre dovuto il 92 per cento degli assassinii, e ad avere la massima probabilità di commetterli sono sempre stati i giovani fra i venti e trent’anni. Fino al balzo in controtendenza degli anni Settanta del secolo scorso, le città erano in genere più sicure delle campagne. Nei secoli precedenti classi superiori e inferiori si rendevano colpevoli di assassinii in percentuali analoghe, ma il tasso di omicidi ora è sceso più precipitosamente fra le prime che nelle seconde. Gli omicidi in cui un uomo uccide un non consanguineo sono diminuiti molto più rapidamente rispetto a quelli di figli, genitori, mogli e fratelli o sorelle. Questo fatto è noto come legge di Verkko.
Nel suo Processo di civilizzazione, Norbert Elias, che sviluppò la sua teoria non ragionando sulle cifre, ma studiando il tessuto della vita quotidiana dell’Europa medievale ci dice che: nella misura in cui l’Europa è diventata più urbana, cosmopolita, commerciale, industrializzata e laica, è diventata anche più sicura. Come osservò Elias: “Anche il popolo minuto, i vari cappellai, sarti, pastori non ci mettevano molto a tirar fuori il coltello”. Neanche i preti erano si tiravano indietro.
In Losing face, saving face: Noses and humour in the late medieval town, lo storico Valentin Groebner documenta decine di casi di persone che nell’Europa medievale tagliarono il naso ad altre. A volte si trattava di punizioni per eresia, tradimento, prostituzione o sodomia, ma più spesso di vendette private. La teoria di Elias afferma che gli europei a partire dall’XI o XII fino al punto di svolta del XVII e XVIII, inibirono sempre di più i loro impulsi e giunsero a tenere in considerazione i pensieri e i sentimenti altrui. . Una nuova cultura della dignità fondata sull’inclinazione al controllo delle emozioni. Infatti il grado in cui le società moralizzano gli standard di decoro riguardo a sessualità ed escrezioni, è un importante indicatore delle variazioni fra le culture.
Due sono le cause esogene: il consolidarsi, dopo il mosaico feudale di baronie e feudi, di un vero e proprio leviatano; una rivoluzione economica nel tardo Medioevo, ovvero l’idea del doux commerce (commercio gentile), esposta dall’economista Samuel Ricard nel 1704, secondo cui il commercio unisce gli uomini tramite un reciproco interesse, in quanto gode di una cooperazione a somma positiva che prospera meglio all’interno di una grande tenda sotto il controllo di un leviatano. Sono due le zone in cui il Processo ha invertito la marcia: i paesi in via di sviluppo e gli anni Sessanta del secolo scorso.
L’economista Gregory Clark ha preso in esame la documentazione sulle morti di membri nella nobiltà inglese dal tardo Medioevo alla Rivoluzione industriale e risulta che nel XIV e XV secolo morì per atti di violenza uno strabiliante 26 per cento degli aristocratici maschi. Il numero passò a una sola cifra alla svolta del XVIII secolo, e oggi, come si può immaginare è praticamente zero. Il declino della violenza in Europa fu promosso innanzitutto dal declino della violenza nell’élite. Oggi le statistiche di ogni paese occidentale indicano che la stragrande maggioranza degli omicidi e di altri crimini violenti è commessa da membri delle classi socioeconomiche più basse. Le élite e la classe media oggi cercano giustizia tramite il sistema giudiziario, mentre le classi inferiori ricorrono a quello che gli studiosi della violenza chiamano “fai-da-te” o “auto aiuto”.
Il criminologo Gary LaFree e il sociologo Orlando Patterson hanno dimostrato che il rapporto fra criminalità e democratizzazione ha la forma di una U rovesciata. Le democrazie consolidate sono luoghi relativamente sicuri, ma le democrazie emergenti e le semidemocrazie sono spesso afflitte da criminalità violenta e vulnerabili alla guerra civile. Le regioni più tendenti al crimine oggi sono la Russia, l’Africa sub sahariana e alcune zone dell’America Latina. Fra le democrazie occidentali, gli Stati Uniti spiccano nelle statistiche sugli omicidi. Ma è importante ricordare che quando si parla di violenza gli Stati Uniti non sono un paese, ma tre paesi. Con il suo 30,8 per 100.000 il Distretto di Columbia sta a sé, situandosi nel gruppo dei paesi più pericolosi dell’America centrale e dell’Africa meridionale. A differenze di quanto avvenne in Europa, dove la caduta del tasso di omicidi sotto il controllo di un governo scese più o meno di un ordine di grandezza all’anno fino a giungere attorno all’1 per cento, in America il tasso di assestò in genere fra il 5 e il 15, dove si colloca tutt’ora. Ce lo dice Randolph Roth in American Homicide.
A praticare la violenza sono perlopiù individui maschi fra i quindici e in trent’anni. La violenza maschile, però, è modulata da un cursore: gli uomini possono allocare la loro energia lungo un continuum che va dal competere con gli altri uomini per l’accesso alle donne al corteggiare le donne stesse e investire nei loro figli, un continuum che a volte i biologi chiamano cads versus dads (mascalzoni contro papà).
Sia negli Stati Uniti che in Europa, negli anni Settanta il tasso di violenza si moltiplicò di oltre due volte e mezzo, passando dal suo minimo, 4, nel 1957, al suo massimo, 10,2, nel 1980. La violenza urbana, cui sembrava non esserci rimedio, divenne lo sfondo di libri, film e serial televisivi, fra cui Piccoli omicidi, Taxi Driver, I guerrieri della notte, Fuga da New York, Bronx – 41° distretto di polizia, Hill Street giorno e notte e Il falò delle vanità.
I figli del baby boom, entrarono nell’età in cui si è più inclini al crimine negli anni Sessanta. È naturale concludere che il boom della criminalità fu un’eco del baby boom. Ma i giovani di allora non erano semplicemente più numerosi, erano anche più violenti, perché grazie ai nuovi media elettronici sentivano la forza del loro numero e disponevano di una rete di solidarietà orizzontale in grado di tagliare i legami verticali con genitori e autorità che, prima, isolavano i giovani gli uni dagli altri e li obbligavano a piegarsi agli adulti. I valori ribollivano dalla strada straripando verso l’alto, un processo che fu poi chiamato “proletarizzazione” e “definizione della devianza al ribasso”.
Per ricostruire il rovesciamento di convenzioni in atto negli anni Sessanta, basta dare un’occhiata alle copertine di qualche album di allora: in The Who sell out, Pete Townshend si ficca una gigantesca bomboletta di deodorante sotto l’ascella e Roger Daltrey sbava salsa di pomodoro immerso in un bagno di fagioli in scatola; in quella di Yesterday and Today, i Beatles sono adoranti di pezzi di carne cruda e bambole decapitate (la copertina fu ben presto ritirata dal mercato); un’altra, di Beggars banquet dei Rolling Stones, esibisce la fotografia (in origine censurata) di un gabinetto pubblico sporco. E ricordiamo del famoso Festival pop di Monterey, durante il quale Jimi Hendrix simulò di accoppiarsi con il suo amplificatore.
“Se raramente i musicisti rock esercitano un’influenza diretta sulle politiche pubbliche, la esercitano senz’altro scrittori e intellettuali, i quali caddero preda dello spirito del tempo e iniziarono a motivare razionalmente la nuova licenziosità”.
Sia negli Stati Uniti che nella maggior parte dell’Europa occidentale, nel 1992 il tasso di omicidi scese di quasi il 10 per cento rispetto all’anno prima, e continuò a calare per altri sette anni, toccando nel 1999 il 5,7, la soglia più bassa dal 1966. Rimase invariata per altri sette anni, dopodiché diminuì ancora, dal 5,7 del 2006 al 4,8 del 2010. Ci sono due plausibili spiegazioni generali. La prima è che il leviatano è divenuto più grande, più intelligente e più efficace. La seconda è che il Processo di civilizzazione, di cui negli anni Settanta la controcultura aveva cercato di invertire il corso, è stato riportato sulla sua rotta. Anzi, si direbbe che sia entrato in una nuova fase.
Negli anni Novanta, a favore del leviatano, ci fu l’incremento delle forze di polizia: con un colpo di genio politico, nel 1994 il presidente Bill Clinton batté sul loro terreno gli avversari conservatori, promuovendo un disegno di legge che prevedeva 100.000 agenti in più. La logica, esposta originariamente da James Q. Wilson e George Kelling nella famosa teoria della “finestra rotta”, era che un ambiente ordinato serve a ricordare che polizia e abitanti s’impegnano per mantenere la tranquillità, mentre un ambiente in cui il vandalismo e l’indisciplina imperversano è un segnale che nessuno se ne fa carico. Tre ricercatori olandesi hanno scelto un vicolo di Groninga in cui i pendolari parcheggiavano le loro biciclette e hanno attaccato a ogni manubrio un volantino pubblicitario. I ciclisti dovevano staccarlo per poter partire, ma i cestini dei rifiuti erano stati tutti appositamente rimossi, quindi erano costretti o a portarsi il volantino a casa o a gettarlo per terra. Al di sopra delle biciclette spiccava un cartello che vietava i graffiti, affisso a un muro che i ricercatori avevano in parte coperto di graffiti e in parte lasciato intonso. Ebbene, i proprietari delle biciclette che si trovavano di fronte i graffiti buttavano il volantino per terra in percentuale doppia rispetto agli altri, esattamente ciò che la teoria della “finestra rotta” aveva predetto.
In La grande distruzione il politologo Francis Fukuyama osserva che negli anni Novanta si è assistito a un calo, oltre che dei tassi di violenza, della maggior parte degli altri indicatori di patologia sociale, come i divorzi, le dipendenze dall’assistenza sociale, le gravidanze precoci, gli abbandoni scolastici, le malattie a trasmissione sessuale e gli incidenti d’auto o con armi da fuoco tra gli adolescenti. Il processo di decivilizzazione degli anni Sessanta non è stato rovesciato nell’ambito della cultura popolare: i film di Hollywood sono più sanguinosi che mai, la pornografia è a portata di mouse e una forma completamente nuova di intrattenimento violento, i videogiochi, è divenuta un passatempo fra i più diffusi. Eppure, mentre nella cultura hanno proliferato questi segni di decadenza, nella vita reale la violenza è diminuita.
Come ha osservato il romanziere Robert Howard, “gli uomini civili sono più scortesi dei selvaggi perché sanno di poter essere maleducati senza che qualcuno spezzi loro il cranio”.
C’è il Museo of Pez Memorabilia di Burlingame, in California, che esibisce più di cinquecento dispenser di caramelle a forma di teste di personaggi dei cartoni animati. Da tempo, ormai, i visitatori di Parigi fanno la coda per vedere il museo dedicato alla rete fognaria della città. Il Devil’s Rope Museum di McLean, in Texas, “presenta ogni dettaglio e aspetto del filo spinato”. A Tokyo, il museo Meguro di parassitologia invita il pubblico a “cercare di pensare ai parassiti senza un sentimento di paura, e prendersi il tempo per conoscere il loro meraviglioso mondo”. Poi c’è il Museo Fallologico di Hùsavikm “una raccolta di oltre cento peni e parti di pene appartenenti a quasi tutti i mammiferi di terra e di mare che si trovano in Islanda”. Ma il museo in cui meno si vorrebbe passare una giornata è il Museo della tortura e criminologia medievale di San Gimignano.
Nell’Occidente moderno e in gran parte del resto del mondo le pene corporali e capitali sono state di fatto soppresse, il potere dei governi di usare la violenza contro i propri cittadini è stato drasticamente ridotto, la schiavitù è stata abolita, e la gente non ha più sete di crudeltà. Il tutto deriva dalla nascita di una nuova ideologia che può essere chiamata “umanesimo” o “diritti umani”, la quale poneva al centro dei valori la vita e la felicità e faceva appello, per motivare un’istituzione, alla ragione o alla dimostrazione. Il suo repentino impatto sulla vita in Occidente nella seconda metà del XVIII secolo può essere chiamato “Rivoluzione umanitaria”.
James Payne, studioso di scienze politiche, avanza l’ipotesi che, se gli antichi davano poco valore alla vita altrui, era perché dolore e morte erano tanto comuni nella loro. E questo rendeva bassa la soglia di ammissibilità per qualunque pratica da cui potessero sperare di trarre un vantaggio, anche se il prezzo era la vita di altre persone, come nei sacrifici umani documentati in numerose civiltà.
Nel XV secolo due monaci pubblicarono, sotto il titolo di Malleus maleficarum (Il martello delle streghe), un manuale contro la stregoneria che lo storico Anthony Grafton ha definito “uno strano amalgama di Monty Python e Mein Kampf”. Nel corso dei due secoli successivi i cacciatori di streghe francesi e tedeschi uccisero, accusandole di stregoneria, fra le 60.000 e le 100.000 persone (donne nell’85 per cento dei casi).
Il costo in vite umane della persecuzione cristiana di eretici e non credenti nel corso del Medioevo all’inizio dell’età moderna smentisce l’opinione comunque secondo cui il XX secolo sarebbe stata un’epoca di inusitata violenza. Secondo lo studioso di scienze politiche R.J. Rummel durante le crociate i morti furono 1 milione. Nel mondo vivevano allora circa 400 milioni di esseri umani, più o meno un sesto rispetto dalla metà del XX secolo, quindi, in rapporto alla popolazione mondiale, è come se i crociati avessero sterminato circa 6 milioni di persone, quante i nazisti nel genocidio degli ebrei. Sempre secondo le stime di Rummel, le vittime dell’Inquisizione spagnola furono 350.000. Nella guerra dei Trent’anni i soldati devastarono gran parte dell’attuale Germania, riducendo la sua popolazione di circa un terzo. Il bilancio delle vittime fu, per Rummel, di 5 milioni 700.000 persone, che in rapporto alla popolazione mondiale dell’epoca, è più del doppio del tasso di mortalità della Grande Guerra e all’incirca pari a quello registrato in Europa nel secondo conflitto mondiale. Lo storico Simon Schama stima che la guerra civile inglese uccise quasi mezzo milione di esseri umani, una cifra proporzionalmente superiore a quella della prima guerra mondiale.
A segnare una svolta nell’uso della crudeltà istituzionalizzata in Occidente fu il XVIII secolo. In Inghilterra, riformatori e comitati criticarono “la crudeltà, la barbarie e le estorsioni” che avevano visto nelle prigioni del paese. Fino a giungere a una svolta anche per la lotta contro il maltrattamento e la crudeltà verso gli animali, culminata nel 2005 con la messa al bando dell’ultimo sport cruento ancora legale in Gran Bretagna, la caccia alla volpe.
Nel 1882 in Inghilterra i reati punibili con la morte erano 222, fra cui il bracconaggio, la contraffazione, il furto di una conigliera e l’abbattimento di un albero. E, considerando che i processi duravano in media otto minuti e mezzo, non c’è dubbio che molti di coloro che venivano mandati al patibolo fossero innocenti. Rummel stima che, fra i tempi di Gesù Cristo e il XX secolo, siano state giustiziate per “offese banali” 19 milioni di persone. Ai nostri giorni anche la pena di morte in America, per quanto tristemente famosa, è più simbolica che reale. 17 stati, perlopiù del Nord, hanno abolito la pena di morte, quattro di essi negli ultimi due anni, e un diciottesimo non mette in atto un’esecuzione capitale da quarantacinque anni.
La tratta degli schiavi africani, in particolare, è stato uno dei capitoli più feroci della storia umana. Fra il XVI e il XIX secolo almeno 1 milione 500.000 africani morì a bordo nelle navi negriere che attraversavano l’Atlantico, dove erano incatenati fra loro in stive luride e soffocanti. Nella tratta degli schiavi trovarono la morte almeno 17 milioni di africani, e forse addirittura 65. Sarà solo a partire dai primi anni dell’800 che la Gran Bretagna mise fuori legge il mercato dagli schiavi. Ad accrescere la repulsione morale per la schiavitù furono racconti in prima persona e, ancor di più, un’opera di fantasia che vendette 300.000 copie e funse da catalizzatore per il movimento abolizionista, La capanna dello zio Tom, di Harriet Beecher Stowe (1852),
Manuel Eisner ha calcolato che in Europa, fra il 600 d.C. e il 1800, circa un monarca su otto fu ucciso nel corso del suo regno, perlopiù da nobili, e che un terzo degli assassini salì al trono. Rummel stima che, prima del XX secolo, i governi abbiano ucciso 133 milioni di persone, e il totale può arrivare addirittura a 625 milioni. Solo con il XVII e XVIII secolo, molti paesi iniziarono a mettere un freno alla tirannia e all’assassinio politico.
Nel XV, XVI e XVII secolo le guerre fra i paesi europei scoppiarono a un ritmo di circa tre nuovi conflitti all’anno. Il pacifismo è un sentimento vulnerabile alle forze militaristiche interne a un paese. Quando una nazione è – o è sul punto di essere – coinvolta in una guerra, i suoi leader hanno difficoltà a distinguere un pacifista da un vigliacco o un traditore. Oltre a satire che suggerivano che la guerra era ipocrita e spregevole, il XVIII secolo vide la comparsa di teorie che la dichiaravano irrazionale ed evitabile. Il documento contro la guerra più ragguardevole dell’epoca fu un saggio del 1795 di Kant, Per la pace perpetua, in cui il filosofo espone le sue tre condizioni per una pace perpetua: la prima è che gli Stati devono essere democratici, in quanto la democrazia è una forma di governo che, per sua stessa natura, è costruita attorno alla nonviolenza; la seconda è che deve crearsi una sorta di leviatano internazionale, in grado di giudicare le dispute con obiettività, da parte terza, per prevenire la tendenza di ogni nazione a credere di essere sempre dalla parte della ragione; la terza è l’”ospitalità universale” o “costituzione civile universale”, ovvero le persone di un paese, a meno che non portino con loro un esercito, devono essere libere di vivere in sicurezza in altri paesi.
In The expanding circle il filosofo Peter Singer ha sostenuto che nel corso della storia la gamma di esseri ai cui interessi si dà valore come ai propri si è ampliata. Ricordiamo che nel corso del XVII secolo in Inghilterra il tasso di alfabetizzazione raddoppiò, e che entro la fine del secolo la maggioranza degli inglesi aveva imparato a leggere e scrivere. La capacità dell’acculturazione di fare uscire i lettori dal loro ristretto punto d’osservazione potrebbe aver aggiunto alle emozioni e credenze della gente una dose di umanitarismo. Lynn Hunt, infatti, fa notare che il momento in cui la Rivoluzione umanitaria giunse al culmine, il tardo XVIII secolo, fu anche il momento in cui giunse al culmine il romanzo epistolare, come i tre romanzo melodrammatici diventati best seller che prendevano il titolo dalle protagoniste: Pamela (1740) e Clarissa (1748) di Samuel Richardson, e Giulia o la nuova Eloisa (1761) di Rousseau.
La seconda metà del XX ha visto un impegno senza precedenti nella storia per evitare la guerra fra le grandi potenze. Lo storico John Gaddis ne ha parlato come della “Lunga pace”.
Una delle ragioni per sospettare che l’indiscusso luogo comune del XX secolo come il più sanguinoso sia un abbaglio, è quel fenomeno di “miopia storica” per cui più un’epoca è vicina al nostro punto d’osservazione nel presente, più dettagli ne vediamo. Gli psicologi cognitivi Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno dimostrato che noi tendiamo a valutare intuitivamente la frequenza relativa di un evento tramite una scorciatoia detta “euristica della disponibilità”: più è facile ricordarne degli esempi, più lo riteniamo probabile.
In un elenco stilato da Matthew White dal titolo “Le venti (circa) cose (forse) peggiori che gli esseri umani hanno fatto gli uni agli altri” si legge di cinque guerre e quattro carneficine che risultano precedenti la prima guerra mondiale, con un numero di morti più alto di quest’ultima. Delle 21 cose peggiori, quattordici si situano in secoli anteriori al XX. Il peggiore massacro di tutti i tempi fu provocato dalla rivolta e guerra civile di An Lushan che, scoppiata in Cina sotto la dinastia Tung, durò otto anni e, secondo i censimenti, comportò la perdita di due terzi dei sudditi dell’impero, un sesto della popolazione mondiale del tempo.
Le guerre e i conflitti sembrano rientrare in quel “processo di Poisson”, che prende il nome dal matematico e fisico del XIX secolo Siméon-Denis Poisson, in cui gli eventi si verificano di continuo, in modo casuale e indipendentemente l’uno dall’altro. Gli intervalli fra gli eventi sono distribuiti in maniera esponenziale: una gran quantità di intervalli brevi che, nella misura in cui si fanno sempre più lunghi, diventano sempre meno numerosi. Ciò implica che gli eventi che si verificano in maniera casuale sembreranno ricadere in gruppi, o cluster, perché occorrerebbe un processo non casuale per distanziarli. William Feller nel suo classico manuale sulla probabilità afferma che: “A un occhio non addestrato la casualità appare come regolarità o tendenza alla clusterizzazione”.
Lewis Richardson ha raccolto dati su 315 “contrasti mortali” conclusi fra il 1820 e il 1952 per ottenere una visione a volo d’uccello della violenza umana e testare una varietà di ipotesi suggerite dagli storici e i suoi stessi pregiudizi personali. La più importante scoperta di Richardson sul calendario delle guerre è che esse iniziano a caso, e a distribuirsi in modo casuale nel tempo non è soltanto l’inizio delle guerre, ma anche la loro fine.
John Maynard Smith, il biologo che per primo applicò la teoria dei giochi all’evoluzione, modellò una situazione di stallo nel Gioco della guerra di logoramento. Ciascuno dei due concorrenti compete per una risorsa preziosa cercando di resistere più a lungo dell’altro e, intanto, accumula progressivamente costi. La guerra di logoramento è, nella teoria dei giochi, uno di quegli scenari paradossali (come il Dilemma del prigioniero, la Tragedia dei beni comuni, e l’Asta da un dollaro) in cui attori nazionali che perseguono i propri interessi ottengono un risultato peggiore che se si fossero coalizzati per giungere a un accordo collettivo e vincolante. Così nessuno può più vincere, ma ognuna delle parti spera di non perdere molto. Il termine tecnico per questo risultato, nella teoria dei giochi, è “situazione rovinosa”. Ma esso è anche detto una “vittoria di Pirro”. L’analogia militare è profonda.
Lo studioso di scienze politiche Jack Levy ha scoperto che la responsabilità della maggior parte del pandemonio, in ogni dato momento, è di un piccolo numero di titani. Le grandi potenze hanno partecipato a circa il 70 per cento di tutte le guerre incluse da Quincy Wright nel suo database. Secondo il proverbio africano, quando gli elefanti combattono, è l’erba che soffre. Sia per quanto riguarda la frequenza, che la durata degli scontri, le grandi potenze sono diventate sempre meno inclini a entrare in guerra, e hanno sempre tentato di porre fine ai loro conflitti poco dopo averli iniziati, tendenza che culmina nell’ultimo quarto del XX secolo, in cui i quattro conflitti che videro coinvolte grandi potenze ebbero una durata media di 97 giorni.
Lo studioso di scienze politiche Peter Brecke sta compilando l’inventario definitivo dei contrasti mortali: il “Catalogo dei conflitti”, come l’ha chiamato. Con l’obiettivo di raccogliere ogni brandello di informazione su conflitti armati relativo all’intera storia documentata a partire dal 1400, ha accorpato gli elenchi di guerre già esistenti e ha ammorbidito i criteri per includere i conflitti. Analizzando il set di dati giunto fino al 2010 ancora una volta vediamo un declino in una delle dimensioni dei conflitti armati: la frequenza con cui esplodono.
In War in International society, il tentativo più sistematico di intrecciare un set di dati sulla guerra con la storia narrativa, Luard ha proposto di suddividere l’intero arco temporale dei conflitti armati in cinque “età”, ognuna definita dal carattere dei blocchi che si batterono per il predominio. La prima età, dal 1400 al 1559 è l’Età delle dinastie; nel 1559 si data l’inizio dell’Età delle religioni; al 1789 risale l’Età del nazionalismo. Luard pone termine a questa età nel 1917, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra e la ridefinirono come lotta della democrazia contro l’autocrazia, e in cui la Rivoluzione russa creò il primo Stato comunista. Allora il mondo entrò nell’Età dell’ideologia, il cui termine possiamo stabilirlo nel 1989.
Il risultato statistico più interessante dal 1945 è: 0. Zero è il numero che si applica a un’incredibile serie di categorie di guerre nei due terzi di secolo trascorsi dalla fine del conflitto più sanguinoso di tutti i tempi. Zero è il numero di volte in cui sono state usate in guerra armi nucleari. Zero è il numero di volte in cui le due superpotenze della guerra fredda si sono affrontate sul campo di battaglia. Zero è il numero di guerre interstatali combattute in tutta Europa dal 1956, dopo la breve invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica. Zero è il numero di guerre interstatali combattute dal 1945 fra i principali paesi sviluppati ovunque nel mondo. Zero è il numero di paesi sviluppati che dai tardi anni Quaranta hanno ampliato il loro territorio a spese di un altro paese. Zero è, inoltre, il numero di volte in cui un paese ha conquistato anche soltanto parti di qualche altro paese dal 1975. Zero è il numero di Stati riconosciuti a livello internazionale che, dalla seconda guerra mondiale, hanno smesso di esistere perché conquistati (il Vietnam del Sud potrebbe essere l’eccezione, a seconda che si consideri la sua unificazione con il Vietnam del Nord, nel 1975, una conquista o la fine di una guerra civile internazionalizzata).
Insieme con il nazionalismo e la conquista, i decenni del dopoguerra hanno visto impallidire un altro ideale: l’onore. Nikita Chruščëv colse la nuova sensibilità quando disse: “Non sono un ufficiale zarista che deve uccidersi se scorreggia a un ballo in maschera. È meglio fare marcia indietro che entrare in guerra”. Kennedy aveva letto I cannoni d’agosto di Barbara Tuchman, una storia della prima guerra mondiale, e sapeva che un “gioco del pollo” internazionale all’insegna di “complessi di inferiorità o manie di grandezza personali” poteva portare a una catastrofe.
Negli anni Novanta il corpo dei marines americani diede il via a un programma di arti marziali per indottrinare i soldati in base a un nuovo codice dell’onore, l’Ethical Marine Warrior. Il catechismo recita: “Il Guerriero Etico è un protettore della vita. La vita di chi? La sua e quella degli altri. Quali altri? Tutti”.
Winston Churchill nell’ultimo grande discorso che tenne in Parlamento disse: “È ben possibile che, per un processo di sublime ironia, giungeremo a una fase, in questa storia, in cui la sicurezza sarà la figlia robusta del terrore, e la sopravvivenza la sorella gemella dell’annientamento. Sulla stessa scia, Elspeth Rostow ha proposto di insignire la bomba atomica del premio Nobel per la pace. Ma la storia insegna che le armi di distruzione di massa non hanno mai frenato la marcia verso la guerra.
In The chimica weapons taboo Richard Price, studioso di scienze politiche, racconta come accadde che, nella prima metà del XX secolo, le armi chimiche diventarono un tabù. Dopo la guerra la ripugnanza per le armi chimiche si diffuse in tutto il mondo, con la messa al bando ufficializzata nel Protocollo di Ginevra del 1925, sottoscritto da 133 paesi. Le nazioni del mondo abolirono formalmente le armi chimiche nel 1993, e ogni loro deposito noto è in corso di smantellamento. Le analogie fra il tabù sulle armi chimiche e quello sulle armi nucleari sono abbastanza evidenti e sono oggi accomunate sotto il nome di “armi di distruzione di massa”. Il terrore che entrambi i tipi di armi suscitano è moltiplicato dalla prospettiva di una lenta morte per malattia e dall’assenza di un confine fra campo di battaglia e vita civile. Di recente un gruppo di statisti temprati dalla guerra che hanno prestato servizio in amministrazioni democratiche e repubblicane ha ideato un progetto, chiamato “Global zero”, approvato in discorsi da Barack Obama e Dmitrij Medvedev, il cui fine ultimo sta nell’estendere il tabù sull’uso delle armi nucleari al loro possesso.
L’ex ministro britannico Tony Blair in un’intervista concessa nel 2008 a Jon Stewart per “The Daily Show” evidenzia il fatto che: “Be’, a guardare la storia, non esistono due democrazie che si siano fatte guerra”. Due studiosi di scienze politiche, Bruce Russett e John Oneal, hanno infuso nuova linfa alla teoria della Pace democratica controllando le variabili imbarazzanti e testandone una versione quantitativa: non che le democrazie non fanno mai guerra, ma che, a parità di tutti gli altri fattori, fanno guerre meno spesso delle non-democrazie. Le democrazie non solo sono libere da despoti, ma sono anche più ricche, più sane, più istruite e più aperte al commercio e alle organizzazioni internazionali, tutti elementi che influenzano positivamente la Lunga pace.
La storia offre molti esempi di correlazione fra maggiore libertà del commercio e maggiore pace, come dimostra la teoria aneddotica degli Archi dorati: mai due paesi in cui fosse presente un McDonald’s si sono combattuti in guerra, eccetto per l’unico inequivocabile Attacco Big Mac nel 1999, quando la NATO bombardò per breve tempo la Iugoslavia. Una pace democratica si afferma con forza solo quando entrambi i membri di una coppia di paesi sono democratici, mentre gli effetti del commercio sono dimostrabili anche quando soltanto uno dei due ha un’economia di mercato.
Nils Petter Gleditsch, illustre studioso che ha posto la pace al centro delle sue ricerche, alla sua elezione, nel 2008, alla presidenza dell’International Studies Association, egli concluse il proprio discorso con un aggiornamento dello slogan pacifista degli anni Sessanta: “Fate i soldi, non la guerra”.
Nella seconda metà del XX secolo si vide l’alba della televisione, del computer, dei satelliti, delle telecomunicazioni e dei viaggi in aereo, e un’espansione senza precedenti della scienza e dell’istruzione superiore. Il guru della comunicazione Marshall McLuhan definì il mondo del dopoguerra un “villaggio globale”. In un villaggio globale la reazione emotiva alle vicende altrui è immediata.
La scienziata politica Bethany Lacina ha rilevato che nelle guerre civili che scoppiano nelle democrazie i morti in battaglia sono meno della metà di quelli registrati nelle guerre civili in regimi non democratici. E Gleditsch, nella sua ricerca del 2008 sulla Pace liberale, ha concluso che “raramente le democrazie vivono guerre civili su larga scala”. Nel 1999 una guerra civile media si trascinava per quindici anni. La situazione cominciò a cambiare nei tardi anni Novanta e i primi Duemila, in seguito a un’impennata del peace keeping, operazioni intensificate dalla comunità internazionale a partire dalla fine degli anni Ottanta. La studiosa Virginia Page Fortna, nel suo libro dal titolo Does peacekeeping work? (Il peace keeping funziona?), ha rilevato che la presenza di peace keeper ha ridotto il rischio di ricadute in altre guerre dell’80 per cento.
Matthew White calcola che sono morti per democidio 81 milioni di persone, e altri 40 per carestie provocate dall’uomo (perlopiù da Stalin e Mao), per un totale di 121 milioni di vittime. La guerra, a paragone, ha ucciso in battaglia 37 milioni di soldati e 27 di civili, e altri 18 di persone per le carestie che ne sono derivate, per un totale di 82 milioni di morti.
I leader utopisti, caratterizzati da narcisismo e spietatezza smisurata, sono posseduti dalla certezza sulla giustezza della loro causa e dall’impazienza di fronte a riforme graduali o a correzioni di tiro suggerite, lungo il percorso, dalle conseguenze umane dei loro progetti. Mao, che fece affiggere la sua immagine su tutti i muri della Cina e distribuire il libretto rosso delle sue massime a tutti i cinesi, fu descritto dal suo medico e unico confidente, Li Zhisui, come un uomo mai sazio di adulazioni, esigente con le concubine in materia di servizi sessuali, e privo di calore e compassione.
Nella lingua inglese la parola genocidio non esisteva fino al 1944, quando l’avvocato polacco Raphael Lemkin lo coniò in un rapporto sul dominio nazista in Europa che sarebbe servito l’anno successivo a preparare i pubblici ministeri ai processi di Norimberga. Nel 1948 Lemkin ottenne che le Nazioni Unite approvassero una Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e, per la prima volta nella storia, il genocidio, indipendentemente da chi fossero le vittime, divenne un crimine.
Tre quarti di tutte le vittime dei 141 regimi democidi sono state causate da soli 4 governi, che Rummel chiama decamegaomicidi: Unione Sovietica (62 milioni), Repubblica popolare cinese (35 milioni), Germania nazista (21 milioni) e Cina nazionalista fra il 1928 e il 1949 (10 milioni). Un altro 11 per cento del totale è stato ucciso da 11 megaomicidi, fra cui il Giappone imperiale (6 milioni), la Cambogia (2 milioni) e la Turchia ottomana (1 milione 900.000). Inoltre, le morti per democidio sono state causate, nella stragrande maggioranza, da governi totalitari. Dagli anni Quaranta, il mondo non ha più visto niente che si avvicini al bagno di sangue che si è visto in quegli anni; nei quattro decenni successivi il tasso (e numero) di morti per democidio è andato drasticamente, se pure con alti e bassi, diminuendo.
Rispetto al numero di morti dovuti a omicidi, guerre e genocidi, quelli causati in tutto il mondo dal terrorismo si situano al livello di rumore di fondo, ma dopo gli attacchi dell’11 settembre 2011 il terrorismo è diventato un’ossessione, grazie anche a esperti e politici che hanno portato la retorica alle stelle. Ogni anno, tranne il 1995 e il 2001, gli americani uccisi da fulmini, cervi, allergia alle arachidi, punture di api e “accensione o fusione di indumenti da notte” sono stati di più di quelli uccisi da attacchi terroristici. Lo psicologo cognitivo Gerd Gigerenzer ha stimato che l’anno successivo agli attentati dell’11 settembre 1500 americani morirono in incidenti stradali per avere preferito viaggiare in auto anziché in aereo, per paura di restare vittime di un dirottamento o un sabotaggio. Il numero di persone morte per avere evitato di prendere l’aereo è stato sei volte superiore al numero delle vittime del dirottamento degli aerei dell’11 settembre.
In How terrorism ends Audrey Cronin, studiosa di scienze politiche, ha esaminato un ampio set di dati: 457 campagne terroristiche a partire dal 1968. Ha scoperto che il terrorismo non funziona praticamente mai. I suoi gruppi si estinguono del tempo a un ritmo esponenziale: durano, in media, fra i cinque e i nove anni. Né ottengono ciò che vogliono: il 94 per cento non riesce a raggiungere nessuno dei suoi obiettivi strategici. Nella misura in cui la mancanza di progressi li frustra, iniziano a scegliere bersagli che fanno più notizia. In questo modo conquistano l’attenzione della gente, ma non nel senso che vorrebbero: coloro che li sostengono, respinti dalla loro “violenza insensata”, smettono di finanziarli e divengono meno riluttanti a collaborare con la polizia.
Il biologo evoluzionista John B.S. Haldane, alla domanda se avrebbe dato la vita per suo fratello, rispose: “No, ma per due fratelli o otto cugini sì”. Alludeva al fenomeno che sarebbe stato in seguito chiamato “selezione di parentela”, “adattamento inclusivo” e “altruismo nepotistico”. La selezione naturale favorisce ogni gene che predispone un organismo a compiere un sacrificio a favore di un consanguineo, finché il beneficio per quest’ultimo, commisurato al grado di parentela, è superiore al costo per l’organismo. Ciò che conta, però, non è la reale parentela genetica, ma la percezione della parentela.
Dal 2005 al 2010 il numero di intervistati che in Giordania, Pakistan, Indonesia, Arabia Saudita e Bangladesh approvavano attentati suicidi e altre forme di violenza contro civili ha conosciuto un crollo, riducendosi spesso al 10 per cento circa. L’Iraq Body Count ha documentato che, fra il 2007 e il 2010, autobombe e attacchi suicidi sono diminuiti da 21 a meno di 8 al giorno.
La Nuova pace è il declino in termini quantitativi di guerra, genocidio e terrorismo cui, con alti e bassi, assistiamo dalla fine della guerra fredda, oltre due decenni fa. Quattro sono le minacce cui potrebbe andare contro: uno scontro di civiltà con l’islam, il terrorismo nucleare, un Iran nucleare e il cambiamento climatico. Ma per ognuno di questi casi esiste una tesi “forse, ma forse no”.
L’impressione è che il mondo islamico non ha conosciuto un’età della ragione, un Illuminismo e una Rivoluzione umanitaria. Lewis sottolinea come la risposta a questo mancanza sia la storica non separazione fra mosche e Stato. Forse fu proprio la manomorta della religione a ostacolare il fluire di nuove idee nei centri della civiltà islamica, bloccandola in una fase di sviluppo relativamente illiberale. L’insularità islamica, però, è incrinata da un insieme di forze liberalizzanti: reti di informazione indipendenti come al-Jazeera; campus universitari americani negli Stati del Golfo; la penetrazione di Internet, social network compresi; le tentazioni dell’economia globale; e la pressione a favore dei diritti delle donne proveniente da rivendicazioni interne a lungo represse, organizzazioni non governative e alleati in Occidente.
L’Iran è un firmatario del Trattato di non proliferazione nucleare, e il presidente Ahmadinejad ha più volte dichiarato che il programma nucleare iraniano è destinato esclusivamente alla produzione di energia e alla ricerca medica. Nel 2005 la guida suprema Khamenei (che ha più potere di Ahmadinejad) emise una fatwa dichiarando che sotto l’islam le armi atomiche sono proibite.
Se il cambiamento climatico può provocare infinite sofferenze e, solo per questo, merita che vi si ponga rimedio, non necessariamente porterà a conflitti armati. Gli scienziati politici che studiano la guerra e la pace, come Halvard Buhaug, Idean Salehyan, Ole Theisen e Nils Gleditsch, sono scettici riguardo alla diffusa idea che le guerre si combattano per la scarsità di risorse.
Gli sforzi per stigmatizzare, e in molti casi criminalizzare, la tentazione di ricorrere alla violenza sono stati sostenuti da un’ondata di campagne per i “diritti”: diritti civili (civil rights), diritti delle donne (women’s rights), diritti dei bambini (children’s rights), diritti degli omosessuali (gay rights) e diritti degli animali (animal rights). Tali movimenti si sono concentrati nella seconda metà del XX secolo, e ci si può riferire a essi come alle Rivoluzioni dei diritti, rivoluzioni che hanno determinato una significativa e misurabile diminuzione di numerosi tipi di violenza.
L’FBI ha raccolto dati statistici sui cosiddetti “crimini d’odio”, gli atti di violenza contro una persona a causa della sua razza, della religione o dell’orientamento sessuale. Ne risulta che il numero di afroamericani assassinati a causa della loro razza fra il 1996 e il 2008 si è ridotto, passando dai 5 morti nel 1996, fino ad arrivare a 1 all’anno. Naturalmente sono molto più diffuse forme meno gravi di violenza, come l’aggressione e l’intimidazione.
In un rapporto dal titolo The decline of ethnic political discrimination 1950-2003, due studiosi di scienze politiche, Victor Asal e Amy Pate, hanno preso in esame un set di dati che documenta lo status di 337 minoranze etniche in 124 paesi a partire dal 1950. Nel 1950 a praticare politiche discriminatorie ingiuste era il 44 per cento dei governi, nel 2003 solo il 19 per cento, ed erano più numerosi quelli che invece avevano adottato politiche correttive. A essere in declino non è solo la discriminazione ufficiale dei governi, ma anche la mentalità de umanizzante e demonizzante degli individui. Nei tardi anni Cinquanta solo il 5 per cento degli americani bianchi approvava il matrimonio interrazziale. Alla fine degli anni Novanta lo accettavano i due terzi, e nel 2008 quasi l’80 per cento.
Perché il modo di trattare lo stupro fosse rivoluzionato si dovette aspettare la seconda ondata femminista, quella degli anni Settanta del secolo scorso. Gran parte del merito va a un best seller del 1975 della studiosa Susan Brownmiller, Contro la nostra volontà. Brownmiller gettò una luce cruda sulla storica indulgenza verso lo stupro nella religione, nella legge, nella guerra, nella schiavitù, nelle pratiche della polizia e nella cultura popolare. Presentò statistiche contemporanee sulla violenza sessuale e testimonianze in prima persona su che cosa significasse essere stuprate e denunciare lo stupratore. A essere radicalmente mutato è anche il modo di trattare lo stupro nella cultura popolare. Oggi, quando al cinema e alla televisione viene rappresentata una violenza sessuale, è per suscitare compassione per la vittima e repulsione per l’aggressore. Ma a impressionare è soprattutto l’industria dei videogiochi, in cui lo stupro è l’unica forma di violenza a brillare per la sua assenza. Secondo un set di dati raccolto da National Crime Victimization Survey del Bureau oj Justice Statistics degli Stati Uniti, il tasso annuale di stupri rilevato negli anni è sceso di un sorprendente 80 per cento.
Uno studio sulle culture umane condotto dall’antropologa Laila Williamson rivela che l’infanticidio è stato praticato in ogni continente e ogni tipo di società, in bande e villaggi non statuali (nel 77 per cento dei quali esso è un costume riconosciuto) come nelle civiltà avanzate. Fino a un’epoca recente venivano uccisi poco dopo la nascita fra il 10 e il 15 per cento di tutti i neonati, e in alcune società la percentuale arrivava al 50 per cento.
La teoria del triage predice che una madre, quando le prospettive di sopravvivenza di un neonato fino all’età adulta sono scarse, lo lascerà morire. Martin Daly e Margo Wilson hanno testato la teoria del triage su un campione di 60 società, e l’infanticidio era documentato nella maggioranza di esse. Gli antropologi che hanno intervistato quelle donne hanno spesso raccontato che la madre vedeva nell’uccisione del figlio una tragedia inevitabile, ed era addolorata per il bambino perduto. Edward Taylor, tra i fondatori dell’antropologia nel XIX secolo: “L’infanticidio nasce dalla durezza della vita piuttosto che dalla durezza del cuore”.
L’infanticidio femminile è documentato in Cina e in India da duemila anni. In India erano in uso diversi metodi: “Dare da inghiottire alla neonata una pillola di tabacco e bhang, annegarla nel latte, spalmare il seno della madre di oppio o di velenoso succo di datura, o coprire la bocca della bambina di un impasto di sterco di mucca prima che tirasse un respiro”.
È vero che oggi, in gran parte del mondo, finisce in un aborto una percentuale di gravidanze analoga a quella che, nei secoli passati, portava a un infanticidio. Nell’Occidente sviluppato le donne interrompono fra il 12 e il 25 per cento delle gravidanze, e in alcuni paesi ex comunisti si supera il 50. Nel 2003 furono eseguiti negli Stati Uniti 1 milione di aborti, in Europa e nell’Occidente nel suo insieme 5 milioni, oltre ad almeno 11 in altre parti del mondo. Se l’aborto è da considerare una forma di violenza, l’Occidente non ha fatto alcun passo avanti nel modo di trattare i bambini. Ma non tutti sanno che il tasso di aborti è in calo in tutto il mondo, secondo alcuni dati degli anni Ottanta, del 1996 e del 2003, e il declino è stato più accentuato nei paesi dell’ex blocco sovietico, in cui si diceva esistesse una “cultura dell’aborto”.
Secondo l’economista Viviana Zelizer, negli anni dal 1870 al 1940 si assistette a una vera e propria “sacralizzazione” dell’infanzia da parte dei genitori delle classi medio-superiori dell’Occidente. Fu allora che i bambini raggiunsero lo status che oggi attribuiamo loro: “Economicamente senza valore, emotivamente senza prezzo”.
Nel 1946 l’intramontabile best seller di Benjamin Spock, Il bambino: come si cura e come si alleva, fu considerato rivoluzionario perché dissuadeva le madri dallo sculacciare i figli, lesinare loro il proprio affetto e irreggimentarne la vita quotidiana. Nel 1979 il governo svedese proibì le sculacciate per legge. Alla Svezia fecero presto seguito gli altri paesi scandinavi e, più tardi, diverse nazioni dell’Europa occidentale. Le Nazioni Unite e l’Unione europea hanno invitato tutti i paesi membri a proibirle.
Gli adulti si sforzano sempre più di evitare ai bambini ogni immagine di violenza. In una sequenza chiave del film E.T., del 1982, Elliott passava svicolando attraverso un posto di blocco della polizia con E.T. nel cestino della bicicletta. Quando nel 2002, per il ventesimo anniversario della sua uscita, il film tornò nelle sale in una nuova versione, Steven Spielberg aveva digitalmente disarmato gli agenti, usando immagini generate al computer per sostituire i loro fucili con walkie-talkie.
Nel 2008 il figlio di nove anni della giornalista Lenore Skenazy le chiese di lasciarlo tornare a casa in metropolitana, a New York, da solo. Lei glielo permise e il bambino tornò a casa senza incidenti. Quando parlò di questo episodio sul “New York Sun”, Skenazy divenne immediatamente oggetto dell’isterismo dei media, che la bollarono come “la peggiore mamma d’America”. Lo scrittore Warwick Cairns ha calcolato che, se voleste che vostro figlio venisse rapito e tenuto per tutta la notte da uno sconosciuto, dovreste lasciarlo fuori casa e senza sorveglianza per 750.000 anni.
Nel VI secolo a.C. Pitagora diede il via a un culto i cui seguaci non si limitavano a misurare i lati dei triangoli: evitavano di mangiare carne, in gran parte perché credevano nella trasmigrazione delle anime da un corpo dall’altro, compresi i corpi degli animali. Prima che negli anni Quaranta del XIX secolo fosse coniato il termine “vegetariano”, l’astensione da carne e pesce era chiamata “dieta pitagorica”.
L’espressione “diritti degli animali” è fatta risalire a Brigid Brophy, che la coniò deliberatamente per analogia: voleva associare “la causa a favore degli animali non umani a quell’insieme di idee ugualitarie e libertarie che sporadicamente, anche se abbastanza spesso con impressionanti risultati politici reali, sono andate in soccorso di altre classi oppresse, come schiavi, omosessuali o donne”.
Lo psicologo Richard Tremblay ha misurato i tassi di violenza nel corso della vita, dimostrando che la fase più violenta dell’esistenza non è l’adolescenza e nemmeno la prima età adulta, ma quella giustamente chiamata i “terribili due anni”. Un bambino piccolo dà calci, morsi, pugni, si azzuffa, dopodiché il tasso di aggressività fisica cala costantemente nel corso dell’infanzia.
Nel corso dei suoi studi sull’idea del male, lo psicologo sociale Roy Baumeister ha notato che chi commette atti distruttivi, dalle piccole violenze quotidiane agli omicidi in serie e ai genocidi, non pensa mai di fare qualcosa di sbagliato. Il divergere delle narrazioni di un evento che causa un danno a seconda che il punto di vista sia quello dell’aggressore, della vittima o di una parte neutrale corrisponde, sul piano psicologico, al cosiddetto “Gap di moralizzazione”. Questo è una parte di un più ampio fenomeno detto dei self-serving biases, o giudizi tendenziosi in favore del sé. Consiste in tattiche di contrattazione complementari nel negoziato per il risarcimento fra una vittima e un aggressore.
Il sociologo Robert Trivers ha azzardato l’ipotesi che la selezione naturale possa avere favorito un certo grado di autoinganno: mentiamo a noi stessi per essere più credibili quando mentiamo agli altri. Questo è ben esemplificato da un aneddoto capitato all’autore: “Durante un viaggio in Giappone, nel 1992, comprai una guida turistica che includeva un’utile tavola cronologica della storia giapponese. Alla voce dedicata al periodo di democrazia Taishō, 1912-26, faceva seguito quella della Fiera mondiale di Osaka del 1970. Evidentemente negli anni intermedi in Giappone non era successo niente di interessante”.
Uno stupratore-assassino seriale intervistato dalla sociologa Diana Scully affermò di essere “buono e gentile” con le donne che catturava minacciandole con una pistola, e che esse godevano dell’esperienza di essere violentate.
Esistono diverse tassonomie della violenza. Una è rappresentata dallo schema quadripartito di Baumeister, di cui l’autore divide una delle sue categorie in due. La prima categoria di violenza può essere definita come pratica, strumentale, di sfruttamento o predatoria, ovvero l’uso della forza come mezzo per un fine. La seconda radice della violenza è la dominanza, la spinta al predominio sui propri rivali. La terza radice è la vendetta, la spinta a rendere male per male. La quarta radice è il sadismo, il piacere di fare male. La quinta e più importante causa della violenza è l’ideologia, in cui i veri credenti intrecciano una serie di motivazioni in un credo e reclutano altre persone per realizzare i propri obiettivi distruttivi.
“Ogni dicembre mi sento scaldare il cuore da una tradizione locale: la provincia canadese della Nuova Scozia invia alla cittadinanza di Boston un altissimo abete come albero di Natale, in segno di gratitudine per l’aiuto che alcune organizzazioni umanitarie della città statunitense offrirono nel 1917 agli abitanti di Halifax, la capitale della Nuova Scozia, dopo la terribile esplosione di una nave carica di munizioni nel porto”.
G. Richard Tucker, Wallace Lambert e, anni dopo, Katherine Kinzler hanno dimostrato che una delle più vivide matrici di pregiudizio è il modo di parlare: le persone diffidano di chi ha un accento insolito.
Il nazionalismo, disse Einstein, è “il morbillo della razza umana”.
Mettete insieme nazionalismo e narcisismo e otterrete un fenomeno fatale che gli scienziati politici chiamano ressentiment (termine francese per “risentimento”): la convinzione che la propria nazione o civiltà abbiano un diritto storico alla grandezza nonostante la loro umile condizione, che può essere spiegata solo dalla malevolenza di un nemico interno o esterno. Storici come Liah Greenfield e Daniel Chirot hanno attribuito le grandi guerre e i grandi genocidi dei primi decenni del XX secolo al ressentiment di Germania e Russia.
Vecchie parole come “glorioso” e “onorevole”, che oggettivano il premio in palio in una competizione per la dominanza presupponendo che certi successi sono gloriosi e onorevoli per definizione. La frequenza di entrambi questi termini è in costante calo da un secolo e mezzo nei libri in lingua inglese.
La vendetta di sangue è esplicitamente approvata nel 95 per cento delle culture del mondo, e ovunque si combattono guerre tribali è uno dei loro motivi principali. In tutto il mondo, dal 10 al 20 per cento degli omicidi e un’alta percentuale di sparatore nelle scuole e attentati privati hanno per movente la vendetta. Dominique de Quervain e i suoi collaboratori hanno svolto un esperimento per testare il sentimento di vendetta e mentre le persone riflettevano sulla situazione proposta, i loro cervelli venivano monitorati. Gli scienziati hanno scoperto che si metteva in moto una parte del corpo striato che si attiva quando si desidera ardentemente nicotina, cocaina o cioccolato. La vendetta è davvero dolce.
Il Dilemma del prigioniero, una delle grandi idee del XX secolo, si pone in ogni situazione in cui la scelta individuale migliore è defezionare quando il partner coopera, la peggiore è cooperare quando l’altro defeziona, il migliore risultato complessivo si ha quando entrambi cooperano, e il peggiore quando entrambi defezionano. Il teorici del gioco hanno studiato una versione del Dilemma del prigioniero a più giocatori, il cosiddetto “Gioco dei beni pubblici”. Ogni giocatore può mettere soldi in un fondo comune, che poi verrà raddoppiato e diviso in parti uguali fra tutti. Il miglior risultato per il gruppo si avrà se tutti verseranno l’importo massimo. Ma un singolo otterrà il miglior risultato lesinando sulla propria quota e profittando, da battitore libero, degli utili procurati dagli altri. In questo modo, però, i contributi diminuiranno fino ad azzerarsi e tutti ci perderanno.
In Beyond revenge: The evolution of the forgiveness instinct, lo psicologo Michael McCullough dimostra che disponiamo di un modulatore di intensità per la vendetta. Il desiderio di vendetta viene più facilmente modulato quando il colpevole rientra nel nostro naturale cerchio dell’empatia. Siamo inclini a perdonare i nostri consanguinei e amici intimi per trasgressioni che giudicheremmo impersonabili se commesse da altri. Una seconda circostanza che riduce l’intensità della vendetta è che il rapporto con il colpevole è troppo prezioso per troncarlo.
Perché il sadismo si sviluppi occorrono due cose: motivazioni a godere della sofferenza altrui e rimozione delle inibizioni che normalmente impediscono alla gente di soddisfarle. La natura umana ci offre almeno quattro motivi per trarre soddisfazione dal dolore degli altri: il fascino morboso per la vulnerabilità degli esseri viventi, quello che ci spinge a correre sul luogo di un incidente automobilistico; la dominanza; la vendetta; e infine, il sadismo sessuale. I freni al sadismo sono: l’empatia, i tabù culturali e, soprattutto, il senso di repulsione viscerale all’idea di fare del male a un altro. Il modo più sofisticato per aggirare queste barriere, è la volontaria sospensione di incredulità che ci permette di immergerci in mondi immaginari. Inoltre, è importante sottolineare che il sadismo è un gusto acquisito.
Lo psicologo Paul Rozin ha identificato una sindrome di gusti acquisiti che ha chiamato “masochismo benigno”. Fra questi piaceri paradossali vi sono mangiare peperoncini piccanti, formaggi dal sapore intenso, bere vino secco e darsi a esperienze estreme, come saune, paracadutismo, corse automobilistiche e alpinismo. Il processo di superamento della repulsione può spingersi tanto all’estremo da provocare desiderio smodato e dipendenza.
Nell’ambito delle ideologie, i gruppi possono coltivare un certo numero di patologie del pensiero. Una è la polarizzazione. Mettete insieme un po’ di persone dalle opinioni grosso modo simili in un gruppo perché le discutano, e le opinioni si faranno sempre più simili fra loro e anche più estreme. Un’altra patologia di gruppo è l’ottusità, una dinamica che lo psicologo Irving Janis ha chiamato “pensiero di gruppo”. I gruppi tendono a dire ai loro leader ciò che essi vogliono sentire, a reprimere il dissenso, a censurare i dubbi privati e a eliminare le prove che smentiscono un crescente aumento del consenso. Una terza patologia è l’animosità fra gruppi.
Gli psicologi John Darley e Bibb Latanè condussero una serie di ingegnose ricerche sulla cosiddetta “apatia dello spettatore”: in un gruppo tutti danno per scontato che, se nessuno fa qualcosa, la situazione non può essere così grave. La nostra tendenza a seguire la massa può portare a esiti collettivamente indesiderabili.
C’è un fenomeno esasperante delle dinamiche sociali, variamente chiamato “ignoranza pluralistica”, “spirale del silenzio” e “paradosso Abilene”, da un aneddoto che racconta di una famiglia texana che, in un torrido pomeriggio estivo, fa uno sgradevole viaggio ad Abilene perché ognuno dei suoi membri pensa che gli altri vogliano andarci. Secondo il sociologo Michael Marcy, per irrobustire l’ignoranza pluralistica, occorre un ingrediente in più: l’imposizione. La gente punisce coloro che non professano convinzione assurde che pensa che tutti gli altri professino, in gran parte per la convinzione, altrettanto erronea, che tutti gli altri vogliano che siano imposte.
Solženicyn ha raccontato una riunione di partito a Mosca che si concluse con un omaggio a Stalin. Tutti si alzarono e applaudirono freneticamente per tre minuti, poi quattro, poi cinque… nessuno osava smettere per primo. Dopo undici minuti di crescente bruciore alle palme, finalmente un direttore di fabbrica sul palco si sedette, seguito dal resto degli astanti riconoscenti. Fu arrestato quella sera stessa e spedito in un gulag per dieci anni.
Il brano, dal titolo “Differential topology and omology”, era in realtà tratto da Transgressing the boundaries: Toward a transformative hermeneutics of quantum gravity, il saggio alla base della famosa “beffa di Sokal”: il fisico Alan Sokal l’aveva scritto mettendo insieme frasi pompose e senza senso e, a conferma dei suoi peggiori sospetti sui criteri scientifici del postmodernismo nelle discipline umanistiche, la prestigiosa rivista “Social Text” aveva accettato di pubblicarlo.
Oggi l’empatia sta diventando quello che era l’amore negli anni Sessanta: un ideale sentimentale, esaltato in parecchi slogan ma sopravvalutato nella sua capacità di ridurre la violenza. Può darsi che il declino della violenza debba qualcosa a un’espansione dell’empatia, ma deve molto anche a facoltà più ciniche come prudenza, ragione, correttezza, autocontrollo, norme e tabù, e concezione dei diritti umani
La ricerca sull’empatia nel cervello umano ha confermato che le sensazioni vicarie sono smorzate o amplificate dal resto delle convinzioni dell’empatizzante. Non esiste nessun centro dell’empatia con propri specifici neuroni, ma vi sono complesso pattern di attivazione e modulazione che dipendono dall’interpretazione che si dà della situazione vissuta da un’altra persona e dalla natura del rapporto che si ha con lei.
Nel 1950 l’etologo Konrad Lorenz osservò che entità con le misure tipiche di animali immaturi suscitano in chi le guarda sentimenti di tenerezza. In un famoso saggio sull’evoluzione di Topolino, Stephen Jay Gould ripercorse il processo che, nei decenni in cui il roditore cambiò personalità trasformandosi da odioso marmocchio in un’inappuntabile icona sociale, vide aumentare le dimensioni dei suoi occhi e del suo cranio. La psicologa Leslie Zebrowitz ha dimostrato che le giurie trattano con maggiore comprensione gli imputati con caratteristiche facciali più infantili. Un’altra ingiustizia indotta dalla simpateticità ha a che vedere con la bellezza fisica. Gli adulti brutti sono giudicati meno onesti, gentili, affidabili, sensibili, e addirittura meno intelligenti.
L’empatia ha un lato oscuro. Quando entra in conflitto con un principio più fondamentale, l’equità, può minare il benessere umano. Batson rilevò che quando i suoi soggetti entravano in empatia con Sheri, una bambina di dieci anni colpita da una grave malattia, optavano anche perché saltasse la coda per la terapia, passando davanti ad altri bambini che aspettavano da più tempo o ne avevano più bisogno.
Il fenomeno detto sconto “miope”, basato su numerosi esperimenti condotti su parecchie specie, dimostra che, quando due premi sono entrambi lontani nel tempo, gli organismi preferiscono sensatamente un grande premio più tardi a uno piccolo più presto. Ma quando il più vicino dei due premi è imminente, l’autocontrollo fa cilecca e la preferenza cambia, e optiamo per il premio piccolo più presto piuttosto che per quello grande più tardi. La difficoltà maggiore nel seguire una dieta.
Walter Mischel ha testato bambini di scuole medie urbane e di campi per minori problematici e ha scoperto che quelli che aspettavano di più per un maggior numero di cioccolatini erano anche meno inclini a fare a botte e prendersela con i compagni di gioco. Mischel ha anche dimostrato, però, che persino i bambini di quattro anni riescono ad aspettare a lungo, per avere due marshmallow invece di uno, se coprono quello allettante che hanno sotto gli occhi, guardano da un’altra parte, si distraggono mettendosi a canticchiare, o addirittura lo reinterpretano nella mente come una gonfia nuvola bianca anziché un dolce appetitoso.
Lo psicologo Jonathan Haidt ha messo in rilievo l’inspiegabilità delle norme morali in un fenomeno che ha chiamato “sconcerto morale”. È frequente intuire immediatamente che un’azione è immorale e poi sforzarsi, spesso senza successo, di trovare le ragioni per cui lo è.
Ogni norma moralizzata è un compartimento che contiene un modello relazionale, uno o più ruoli sociali, un contesto e una risorsa. Quando si violano i termini di un modello relazionale cui si è tacitamente consentito, il trasgressore è visto come un parassita o un imbroglione, e diventa oggetto di ira moralistica.
Se i membri della specie hanno la capacità di ragionare fra loro e abbastanza occasioni per esercitarla, prima o poi scopriranno i reciproci vantaggi che la nonviolenza e altre forme di mutua considerazione offrono, e le applicheranno in un raggio sempre più ampio. Questa è la teoria del cerchio in espansione nella formulazione originaria di Peter Singer.
A fornire energia alla scala mobile non è stata solamente la sporadica comparsa di grandi pensatori, bensì un miglioramento della qualità del pensiero di tutti. Ci crediate o no, stiamo diventando più intelligenti. Nei primi anni Ottanta il filosofo James Flynn ebbe un momento “eureka!” quando scoprì che le società che vendevano test di intelligenza ridefinivano periodicamente i punteggi. Alla medesima serie di domande, ogni generazione dava un numero di risposte giuste maggiore della precedente, e in qualunque competenza misurata dai test. Nel 1994 Richard Herrnstein e lo scienziato politico Charles Murray chiamarono il fenomeno “Effetto Flynn”, e il nome gli è rimasto.
L’economista Stephen Burks e i suoi collaboratori hanno sottoposto 1000 apprendisti camionisti a un test d’intelligenza (Matrici di Raven) e a un Dilemma del prigioniero, usando denaro per offerte e vincite. I camionisti più intelligenti si sono rivelati più tendenti a cooperare alla prima mossa, anche dopo i controlli su età, razza, genere, istruzione e reddito. È risultato che i camionisti più intelligenti erano più inclini a rispondere alla cooperazione con la cooperazione alla defezione con la defezione.
“In fondo alla via dove mi trovo ora, la biblioteca pubblica di Boston reca incise, nella sua trabeazione, le toccanti parole: ‘Il Commonwealth richiede l’educazione del popolo a salvaguarda dell’ordine della libertà’”.
Secondo il Dilemma del pacifista, una persona o una coalizione possono essere tentate dai guadagni di una vittoria in un’aggressione predatoria, e vogliono certamente evitare di essere sconfitte da un avversario che ha la stessa tentazione e agisce di conseguenza. Ma se entrambi optano per l’aggressione, precipiteranno in una guerra punitiva che lascerà tutti e due in condizioni peggiori che se avessero optato per i frutti della pace. Anche il calcolo utilitaristico più implacabile della felicità e infelicità complessive compiuto da un osservatore disinteressato arriverà al risultato che la violenza è indesiderabile, perché crea più infelicità nelle vittime che felicità nei carnefici, e diminuisce il totale di felicità nel mondo.
A seconda del punto di vista, il compianto Tsutomu Yamaguchi è stato l’uomo più fortunato o più sfortunato del mondo. Sopravvisse all’esplosione atomica a Hiroshima, ma fece una scelta infelice sul luogo dove cercare rifugio dalla devastazione: Nagasaki. Sopravvisse anche a quell’esplosione e visse altri sessantacinque anni, morendo novantatreenne nel 2010. Egli, prima di morire, propose una ricetta per la pace nell’era nucleare: “Le uniche persone cui si dovrebbe permettere di governare un paese che possiede armi nucleari sono le madri, quelle che ancora allattano al seno i loro bambini”.
Naturalmente, sulla ricetta di Yamaguchi si può discutere. George Shultz ricorda che nel 1986 quando, da segretario di Stato, disse a Margaret Thatcher che era d’accordo con la proposta di disarmo nucleare bilaterale lanciata da Ronald Reagan a Michail Gorbačëv, lei lo colpì violentemente con la borsetta.