Diego Gabutti, ItaliaOggi 3/5/2013, 3 maggio 2013
GIORDANO BRUNO SPIEGA LE TECNICHE PER MANIPOLARE LA GENTE
Siamo a Firenze, città eternamente reduce da una restaurazione o da una rivolta, ed è il 1498, praticamente il tocco del nuovo secolo. Niccolò Machiavelli guarda Girolamo Savonarola, frate sedizioso e mezzo santo, bruciare sul rogo in Piazza della Signoria. Guarda e probabilmente rimugina o meglio machiavella tra sé sui casi straordinari, ma neanche troppo, dei pubblici uffizi e della ragion di stato. Cambio di scena. Cent’anni più tardi, nel 1600, un altro ecclesiastico sta consumandosi sul rogo, anche lui in nome della ragion politica. Ma a Roma, in Piazza de’ Fiori, dove oggi spicca il monumento all’illustre martire del libero pensiero, a rimuginare pensieri simili a quelli pensati da Machiavelli un secolo prima non è uno spettatore ma lo stesso frate che brucia sul rogo.
Che pensieri sono? Be’, sono pensieri di cose tenute segrete fin dall’origine del mondo, pensa Bruno da quel cabbalista che è. Machiavelli è alla «fortuna» invece che pensa. Pensa che «la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». Come è un mistero, però. E se il destino non si lasciasse strapazzare? Se reagisse mirando alle parti tenere? Ma arcanum o fortuna, sempre lì siamo, al meccanismo, alla minuta orologeria del dispositivo sociale, che cosa e chi lo muove. Di Bruno e del fiorentino sono uscite di recente due eccellenti biografie, alle quali vi rimando, dopo averle caldamente raccomandate: il Machiavelli di Gennaro Barbuto (Salerno 2013, pp. 380, 23,00 euro) e il Giordano Bruno di Bertrand Levergeois (Fazi 2013, pp. 570, 18,50 euro).
«Le porte per cui il cacciatore d’anime getta i suoi vincoli sono tre: la vista, l’udito e la mente, o immaginazione», è scritto in un libro, il De vinculis in genere (Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1991). «Se riesce ad aprirsi un varco per tutte e tre quelle porte, vincola nel modo più rigoroso: il vincolato si fa incontro al vincolante per le aperture di tutti i sensi, a tal punto che, realizzato il legame perfetto, questo si trasferisce tutto in quello o arde dal desiderio di trasferirvisi». Autore del De vinculis è Giordano Bruno, che lo ha scritto dopo una vita d’immersione a fondo nelle tradizioni magiche e occulte, in primis la politica, arte nera par excellence. Bruno emerge dall’apnea con un’opera pressoché unica nella storia della letteratura, meglio della scienza politica, un’opera più cinicamente operativa del Principe di Machiavelli.
De vinculis si propone d’illustrare le tecniche per manipolare i singoli e le masse, individui come popoli interi, un’arte così nera e gaglioffa che «per comprenderla e valorizzarla», scrive Ioan P. Couliano in Eros e magia nel Rinascimento, Il Saggiatore 1989, «bisognerebbe essere al corrente dell’attività dei diversi trust, dei vari ministeri della propaganda. Aiuterebbe poter dare un’occhiata nei manuali delle scuole di spionaggio. Se il principe di Machiavelli è l’antenato dell’avventuriero politico, il mago del De vinculis in genere è il prototipo dei sistemi impersonali dei mass media, della manipolazione globale e della censura indiretta, il prototipo dei vari brain trusts che esercitano il loro controllo occulto sulle masse occidentali». Questa è infatti la magia di Bruno, una magia detta erotica per le passioni che ha lo scopo di suscitare e per i mezzi di cui si vale per vincolare il prossimo suo (altro che amarlo, come gli hanno insegnato in seminario). Bruno è un cacciatore d’anime. Crea vincoli e accende prodigi.
Niccolò Machiavelli, dopo il rogo di Savonarola in Piazza della Signoria o poco prima, sale (o scende) in politica, incaricato di missioni diplomatiche. Incontra i potenti della sua epoca, in primis Cesare Borgia detto il Valentino, figlio d’Alessandro VI papa, che, dopo la morte di papà, ha cominciato a perdere fiato nel match per il potere in Italia, una partita surrealista che durerà ancora a lungo, un capitombolo dopo l’altro, su su fino a Garibaldi e agli arditi fiumani, fino alla Padania Felix, fino a Berlusconi e Grillo, fino al governissimo d’Enrico Letta. Niccolò incontra Cesare Borgia detto il Valentino e quello, zac, subito lo vincola. È un colpo di fulmine. Siamo nell’anno 1503 e Niccolò scrive di slancio la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nell’ammazzare i suoi nemici. Sembra una dichiarazione d’amore e a suo modo lo è.
Ma torniamo nella Firenze del 1498, quando Savonarola brucia. Qui sotto c’è un mistero, medita Machiavelli. Di Savonarola, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli dirà che per quanto «al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo, nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio». Dato un frate esaltato e una città per sua natura ribelle, pensa Machiavelli, data una signoria rotta a tutte le astuzie, ma date anche le astuzie di tutti gli altri, o dati (poniamo) un Comico e un Cavaliere, dati gli Ex e i Post e le gazzette sdegnose, ecco quali curiose e spiacevoli conseguenze ne risultano: roghi e tumulti. Come succede? C’è qui una legge? Ed è inevitabile che si compia? Per spiegarsi il mistero, Niccolò lo semplifica, lo scompone, crea un modello. Disegna un tavoliere e su questo tavoliere dispone dei segnalini come si fa a Monopoli e a Cluedo. Di qua il principe, di là gli avversari suoi, qui gl’inevitabili imprevisti, il candelabro, la biblioteca, Miss Scarlet, i dadi da tirare.