Alessandra Nucci, ItaliaOggi 1/5/2013, 1 maggio 2013
CO2, UNA CENERENTOLA IN BORSA
Le borse della CO2 dovevano aiutare il mondo a combattere il riscaldamento globale, rendendo più costosi i combustibili fossili e scoraggiando così l’uso di carbone e petrolio. Ma oggi si calcola che il diritto a produrre l’equivalente di un’intera vita di CO2 costa meno di un pieno di benzina.
È successo che, a causa della crisi, in Europa si produce poco e, dunque, si emette poca anidride carbonica. Gli ambientalisti dovrebbero esultare, ma, mettendo a nudo le contraddizioni insite in un libero mercato che dipende per la sua stessa esistenza dalla creazione, per fiat statale, di una merce limitata, l’industria verde protesta. Qual è il problema? Che il prezzo dei crediti alle emissioni di CO2 è crollato, perdendo circa il 90% sul prezzo del 2008. E il 16 aprile, dopo la bocciatura da parte dell’Europarlamento della richiesta di backloading (il rinvio delle aste di permessi) appoggiata anche dal principe Carlo d’Inghilterra, nel giro di dieci minuti il prezzo è sceso da 5 a 2,63 euro a tonnellata.
Strasburgo ha detto no al backloading pensando ai costi delle bollette per i cittadini, ai gravami imposti alle sole imprese europee e ai dubbi sull’esistenza stessa del riscaldamento globale (a proposito del quale è uscito un articolo su Nature di aprile che ammette che c’è stata una pausa nelle temperature, almeno dal 2000 al 2010), visto che di per sé l’anidride carbonica non è inquinante.
L’Ets, Emissions trading system, fu istituito nel 2005 allo scopo di creare un modello globale di restrizioni per far scattare la legge di mercato e spingere verso le rinnovabili. Ma la domanda, sempre debole, è crollata con la crisi che ha azzoppato l’attività industriale e ridotto quindi la CO2: la produzione di acciaio in Europa è diminuita di circa il 30% dal 2007 e le immatricolazioni di auto nel 2012 hanno raggiunto il livello più basso dal 1995.
Ai permessi, rimasti così invenduti sul mercato Ets, si aggiunge l’abbondante offerta di crediti derivanti dai campi eolici o dalle dighe idroelettriche costruiti nei paesi in via di sviluppo, compresa la Cina: progetti che, secondo il New York Times, una volta erano miniere d’oro, generando crediti alle emissioni che le industrie potevano acquistare per compensare (offset) le loro emissioni altrove. Nel 2009 la JPMorgan Chase ha sborsato oltre 150 milioni di euro per uno di questi progetti, EcoSecurities. Ma oggi anche questi offsets, a causa dell’eccesso di offerta, costano circa un terzo di un euro.
Così, calcola la Thomson Reuters Point Carbon di Oslo, sul mercato ci sono permessi inutilizzati per circa 800 milioni di tonnellate. Con i prezzi troppo bassi molti hanno abbandonato il campo. Deutsche Bank ha ridotto gli scambi ed entità più piccole come la Mabanaft di Rotterdam se ne sono andate del tutto.
Più importante dei mancati profitti per banche e investitori, naturalmente, sottolinea in un articolo il Nyt, è il fatto che, se i crediti alle emissioni costano così poco, le industrie non saranno costrette a convertirsi alle rinnovabili. Non a caso, nel 2012 la Gran Bretagna ha aumentato l’uso del carbone per produrre elettricità di oltre il 30%, diminuendo nella stessa misura l’uso del gas. Altre nazioni dell’Europa occidentale hanno fatto altrettanto.
Al posto del sistema Ets, per costringere le società a passare dal carbone al gas naturale, si pensa a una carbon tax europea, a cui sono favorevoli anche alcuni dirigenti delle aziende petrolifere. «E’ molto più chiara una tassa sulla CO2», ha detto Rex Tillerson, chairman di ExxonMobil. Come al solito, però, le industrie europee saranno le uniche del mondo, o quasi, a subire questo aggravio.
L’esperienza europea ha scoraggiato anche le iniziative altrui. Negli Usa la proposta di Obama per una borsa nazionale delle emissioni è ferma al senato dal 2009. Il Giappone ha archiviato un piano di scambi nel 2010. Giappone, Canada e Russia si rifiutano di prendere parte al secondo round di restrizioni richiesto dal Protocollo di Kyoto.