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 2013  aprile 25 Giovedì calendario

BUONTEMPO, IL FASCISTA PERBENE CHE NON HA MAI FATTO CARRIERA

L’ultima volta che ho vi­sto Teodoro Buon­tempo (morto ieri a Roma a 67 anni) è stato non molti anni fa, a una cena organizza­ta dal direttore di un quotidiano ­di cui era divenuto fresco col­laboratore con una rubrica dal titolo assertivo com’era nel suo stile, qualcosa tipo «Io la penso così» o «Dite la vostra che io di­co la mia».
Abruzzese, Teodoro si ma­scherava dietro la rudezza e la testardaggine della sua regione ma, politicamente parlando, era molto meno naïf di quello che voleva far credere, e in un mondo qua­le quello neo e post-fascista fra gli anni Sessanta e gli anni No­vanta del secolo scorso, fu in gra­do, quanto a tattica e strategia, di muoversi all’interno del suo partito con autorevolezza e suc­cesso.
In quella cena, di là dai capelli divenuti ormai tutti bianchi, c’era ben poco che lo differenziasse da quello che, circa qua­rant’anni prima, avevo cono­sciuto. Era stato nel corso di uno scontro universitario alla Sapienza di Roma, conclusosi con lui alla guida di un corteo di cui, a un certo punto, era divenuto l’unico membro, un megafono in una mano,una sega nell’altra. Avete letto bene, una sega. Cor­rendo lungo via Siena con altri «camerati», Teodoro aveva adocchiato gli arnesi sparsi di un lavoro in corso da cui gli operai avevano velocemente sloggiato sentendo le urla belluine di inse­guitori e di inseguiti, e aveva tira­to su la prima cosa trovata per ter­ra, per poi rigi­rarsi e partire al contrattac­co. «Compa­gni/attenti/Ci stiamo incaz­zando», aveva urlato ritman­do, e questi saggiamente avevano pen­sato che non fosse il caso di andare oltre.
«È l’orizzonte di vita che mi manca», mi disse quella sera. «Continuo a ragionare come se davanti a me ci fossero venti, trent’anni e invece razional­mente so che non è così. Sicco­me fisicamente e mentalmente mi sento bene, la cosa mi fa anco­ra più incazzare». Aveva mandato i figli a studiare in un college inglese, sposato quella che era stata la sua fidanzata storica, lau­reata in Filosofia e intellettuale tanto quanto lui manifestava per gli intellettuali puri non vo­glio dire disprezzo, ma fastidio misto a derisione. Fra le leggen­de che gli circolavano intorno, c’era quella di un congresso del­la gioventù missina nel quale un vir­gulto dell­’allo­ra Giovane Ita­lia aveva chiu­so il suo discor­so citando Ugo Foscolo. «Questo Fo­scolo lo abbia­mo espulso mesi fa», aveva tuo­nato lui in risposta, dal banco della presidenza. Vera è però la replica a un gruppo di evoliani, meglio evolomani, che lo assilla­va con l’età del kalijuga, il tem­po della decadenza senza spe­ranza. «Con il vostro Evola, in po­litica ci fate le pippe», era stata la replica. Non aveva tutti i torti.
Della generazione missina che poi divenne forza di gover­no ed ebbe ministri e sottosegretari, Teodoro non fece parte. Par­lamentare per più mandati, non è però mai andato oltre il Comu­ne, la Provincia e la Regione, e credo che questo orizzonte lo racconti meglio di qualsiasi ne­crologio. Visti i nomi, e le facce, di molti di quelli che ebbero cari­che nazionali governative, non siamo di fronte a un’insipienza, o a una mancanza di ambizio­ne. Più semplicemente, per uno che aveva cominciato a fare poli­tica dormendo in macchina non avendo i soldi nemmeno per una pensione in zona Termi­ni, c’era, credo, una sorta di rispetto per una passione militan­te che era stata la sua ragione di vita e che una successiva agiatez­za media non a­veva mai trasfor­mato in una sinecura o nell’idea del posto fisso. Mi rendo conto che, detto oggi, può suonare re­torico o patetico, ma c’è stato, an­cora sino al penultimo decen­nio del secolo scorso, l’idea che la politica fosse un servizio e non un mestiere e che non si vi­vesse di politica, ma per la politi­ca. Penso che, saggiamente, Buontempo, che da giovane era chiamato «Er Pecora» per la sua regione d’origine e certi orribili giacconi pelosi, via via che il tem­po passava e gli ideali svaniva­no, si fosse reso conto che muo­versi all’interno di realtà locali che conosceva bene fosse più soddisfacente e più in linea con la sua storia esistenziale che esplorare lidi lontani dove, inevitabilmente, sarebbe stato succ­ubo di qualcuno e di qualcosa più forte, come potere, come pres­sione, come convenienze, di lui. Politicamente, non c’era nul­la che unisse Buontempo al sot­toscritto, ma umanamente c’era fra noi quella simpatia che unisce chi al fondo ti rispetta e sa,che in quello che fa,c’è la buo­na fede e non il calcolo. Dell’av­ventura missina fino al lavacro di Fiuggi, Teodoro fu al livello giovanile un protagonista, an­che contro l’età che a un certo punto lo mise fuori proprio per ragioni anagrafiche. Ciò non gli impedì comunque di avere un seguito e di esercitare un pote­re. Di quello che avvenne dopo, fu una sorta di esule riottoso e a suo modo coerente, nostalgico di una linea sociale e popolare, legato al proprio passato e non disposto, in nome del futuro, ad abiurarlo più di quello che la sua dignità gli avrebbe consenti­to. Era fegatoso e sincero, una persona perbene.