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 2013  aprile 25 Giovedì calendario

ENRICO, L’ETERNO DEMOCRISTIANO ORA DEVE FAR CONVIVERE PD E PDL

È un uomo ancora molto giovane per gli standard italiani (lo batte Goria, che fu presidente del Consiglio a 43 anni) e mi ha sempre colpi­to non la sua «moderazione» (parola e concetto ambiguo) quanto il suo senso della misu­ra. In questi anni in cui sono sta­to in Parlamento non ricordo di averlo visto agitato, eccitato, so­pra le righe. Il che non vuole af­fatto dire che Enrico Letta sia un mite, o un uomo accomo­dante. Solo, che non urla. E ri­cordo che parecchi anni fa ci trovammo insieme in qualche talk show televisivo e fui sorpreso dal suo modo di ra­gionar che mi sembrò onesto e lineare.
È come tutti sanno un cattoli­co e, benché sia un cattolico di si­nistra, sembra ad occhio e croce più un cattolico liberale che un esemplare di quel «cattocomu­nismo» che ha creato una frattu­ra in quel mondo. Che sia un uo­mo coraggioso è dimostrato dal solo fatto che Re Giorgio, come ormai si usa chiamarlo, lo ha scelto e preferito al «dottor sotti­le» Giuliano Amato, un re senza terra che suscita inquietudini.
La scommessa, e anche l’ere­sia, è enorme: Enrico Letta accet­ta di fare proprio la cosa che Bersani ha cercato di non fare e per non farla ha paralizzato la politi­ca italiana per due mesi, facen­do perdere un punto di Pil. Il ta­bù era, e resta, il governo con l’odiato nemico. Il popolo della rete di sinistra, con i suoi tweet , le sue email, i suoi cellulari e i suoi toni minacciosi, hanno fi­nora impedito che l’abominevo­le (per loro) matrimonio fosse celebrato: quello che porta a un governo che, comunque lo si vo­glia chiamare, è un governo Pd-Pdl. Non che Enrico Letta sia feli­ce. Ma, come ricordava ieri il Fi­nancial Times riferendosi a una intervista con Enrico Letta, il nuovo presidente del Consiglio considerava a marzo un gover­no con Berlusconi «not ideal», non proprio l’ideale date le «aspre diversità fra i due partiti» e tuttavia non escludeva affatto la possibilità di fare una coalizione, «malgrado l’aspra opposizione» interna al Pd.
Il giornale inglese lo descrive mentre getta un ponte di lunga durata verso il centro-destra di Silvio Berlusconi, accettando probabilmente la vicepresiden­za di Angelino Alfano con cui ha instaurato una buona relazione umana. Quante novità: la buo­na relazione umana, il tabù infranto, la sfida pacata ma impli­cita alle piccole ma rissose mas­se degli anabattisti del Pd che sciamano nelle strade e nel web imprecando contro il blasfemo governo fra destra e sinistra, che in Italia non si era mai visto, per­ché la maggioranza che sostene­va Monti era un’altra cosa.
Il giovane Letta, notoriamen­te nipote di Gianni, ha un passa­to europeo di prima qualità. Par­la le lingue, inglese e francese, è nato a Pisa dove si è laureato, ed è già stato il più giovane ministro in Italia quando ebbe la respon­sabilità dei ministeri dell’Indu­stria e dell’Agricoltura nel gover­no D’Alema nel 1998. Anche lui, come quasi tutti i cattolici oggi in politica, viene dalla Democra­zia cristiana, militando nella si­nistra di quel grande contenito­re che si sfaldò con la fine della guerra fredda e gli scandali di Tangentopoli. I suoi quarti di no­bi­ltà intellettuale e politica si tro­vano nel suo ruolo di segretario generale dell’Arel, il think tank fondato nel 1976 da Nino Andre­atta e nell’Aspen Institute di cui è membro e che raccoglie alcu­ne f­ra le migliori menti del mon­do in materia di economia e politica estera. È un convinto euro­peista, ma promette battaglia in Europa dove chiede cambia­menti veri, visto che il risultato elettorale mostra una schiac­ciante maggioranza di italiani preoccupati o delusi dall’euro e dalle politiche europee.
Ma non è assolutamente di­sposto ad assecondare qualsiasi azione di rottura: «O stiamo in Europa e impariamo a starci nel modo giusto, o per noi è la rovina». È arrivato al Quirinale guidan­do la propria macchina, e la cosa è stata notata da tutti i media del mondo. Non fa particolari con­cessioni ai cliché della sinistra e spera ancora di tenere insieme i pezzi del Pd, la parte riformista dialogante e quella radicale chiu­sa in se stesso. I fatti dicono però che non ha alcuna simpatia per quella parte e del resto il senti­mento è reciproco: la sinistra lo detesta e già ieri i blog e i tweet partivano all’assalto del presi­dente incaricato, che però ha la stoffa del mediatore e comun­que di quello che non si abban­dona a dichiarazioni eccessive, come ha fatto invece Bersani chiudendosi in una gabbia sen­za vie d’uscita. Non si pronuncia sull’eventualità che il suo partito si spacchi definitivamente pro­prio a causa del suo ruolo di pri­mo ministro di un governo che ha l’ambizione di durare. Ma non si fa illusioni: quando gli chiedono se intende riformare la Costituzione, risponde che questo è il compito della successiva legislatura, non di quella appena iniziata. È determinato a fa­re subito una nuova legge eletto­rale ordinaria con procedura semplice e sa bene che dopo aver compiuto questa augurabi­le impresa sarà difficile non pas­sare subito a nuove elezioni, vi­st­o che una nuova legge delegitti­merebbe con la sua semplice esi­stenza il Parlamento in carica. Ha l’ariadi quello che non cerca rogne, ma che sa di doverle af­frontare con decisione. Come di­ceva Theodore Roosevelt «parla a voce bassa, ma impugna sem­pre un bastone».