Giampaolo Visetti, LA REPUBBLICA 1/5/2013, 1 maggio 2013
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO
In Cina, grazie alla fecondazione artificiale, il panda gigante non è più un animale in via di estinzione. A scomparire sono invece i fiumi e la seconda economia mondiale rischia un’emergenza idrica superiore a quella dell’Africa. Lo spettro è la desertificazione, capace di condannare alla sete buona parte dell’Asia, India compresa. Monsoni estivi e alluvioni non bastano più a ricostituire le riserve di acqua saccheggiate da città, industrie e aziende energetiche. A confermare il disastro che ognuno vede con i propri occhi è il primo censimento idrico nazionale, pubblicato a Pechino.
Vent’anni fa, secondo i dati comunicati dalle regioni, in Cina si contavano 52mila fiumi. Nel 2013 i corsi d’acqua rimasti sono circa 24mila: risultano cioè scomparsi 28mila fiumi, con una superficie pari a quella del Mississippi. Non è solo una questione di quantità: il dramma è che, a precipitare, è anche la portata dei fiumi sopravvissuti. Nei primi anni Novanta, la superficie media di flusso era pari a 155 chilometri quadrati, mentre oggi non supera i 45 chilome-tri, oltre un terzo in meno. Fiume Giallo e Fiume Azzurro, corsi un tempo maestosi con le sorgenti in Tibet, in alcuni tratti rimangono asciutti per lunghi mesi, innescando una catastrofe naturale. I ghiacciai himalayani si sciolgono anche al di sopra dei 7mila metri, i bacini delle regioni interne si svuotano, si alza il livello dell’Oceano e le immense pianure alluvionali di Cina e India rischiano di dover abbandonare
la coltivazione di riso e tè. Sotto accusa l’urbanizzazione e l’industrializzazione, a cui è corrisposto il boom demografico.
Negli ultimi dieci anni le aree metropolitane cinesi si sono estese di 5mila chilometri quadrati, quelle produttive di oltre 3mila, mentre la popolazione sfiora quota 1,4 miliardi. Le autorità di Pechino si difendono spiegando che la scomparsa dei fiumi è frutto di un cambio dei rilevamenti statistici, oltre che di un cambiamento climatico globale. Per gli scienziati invece l’estinzioneshock dei corsi d’acqua è direttamente collegata al modello di sviluppo del Paese. «Più accelerava la crescita del Pil — ha ammesso il vicedirettore delle risorse idriche, Huang He — più scomparivano laghi e fiumi. Il nesso è da chiarire, ma il dato purtroppo è certo». A inaridire più rapidamente sono infatti le megalopoli, come Pechino,
Shanghai, Shenzhen e Chongqing, le regioni industriali del “made in China”, dal Guangdong allo Zhejiang, quelle minerarie, dalla Mongolia Interna al Qinghai, e quelle interne, colpite dalla migrazione forzata della popolazione contadina.
Peter Gleick, presidente dell’Istituto per il Pacifico, al
South China Morning Post
ha detto che dopo l’era del rischio-estinzione animale si apre per l’umanità quella più pericolosa dell’allarme- estinzione idrica, «prologo di uno sconvolgimento del pianeta
». Perdere 28mila fiumi in vent’anni, circa 4 al giorno, per la Cina è come vedere prosciugato un mare interno con una riserva idrica simile a quella del Mar Nero. Colpa della cementificazione urbana, dei letti fluviali trasformati in strade e ferrovie, dei tor-
renti deviati verso i distretti industriali, o dei grandi fiumi interrotti dalle dighe, come quella delle Tre Gole, che devono alimentare le centrali elettriche più potenti del mondo.
Per gli ecologisti però a «spingere l’Asia verso la soglia del non ritorno» sono la deforestazione e la desertificazione innescata dello sfruttamento minerario di aree-chiave per l’equilibrio idrogeologico. «L’idea — dice Wang Yan, docente di conservazione delle acque all’università Fudan di Shanghai — era che il territorio rappresentasse una risorsa inesauribile a disposizione per l’arricchimento della popolazione che lo abitava. Nel nome del “miracolo cinese” tutto è stato lecito. Oggi però, dopo l’aria irrespirabile e l’acqua tossica, scocca l’ora del prosciugamento fluviale: a questo punto costruire altre metropoli è semplicemente inutile». In vent’anni la Cina ha raso al suolo una superficie boscosa equivalente a quella della Germania e le miniere del Nord sconvolgono un’area pari a quella della Spagna, consegnandola alla sabbia del Gobi. Le piogge si sono dimezzate e città come Pechino, per non chiudere i rubinetti, sono costrette a investimenti miliardari per invertire il corso dei fiumi-icona della nazione. Per i mercati cinesi sarà l’acqua il bene più rivalutato del prossimo ventennio e le multinazionali già si contendono canali, pozzi, giacimenti e sorgenti in Himalaya. «Ammesso che nel 2033 — conclude il censimento idrico — in Cina l’acqua sia ancora un elemento pacificamente disponibile».