Gabriele Romagnoli, la Repubblica 30/4/2013, 30 aprile 2013
IL SIGNOR FEROCIA L’INSAZIABILE FAME DEL CONTE MARTELLO
Poiché (anche queste furono parole d’ordine sue): «Chi vince scrive la storia, gli altri possono magari leggere», è di Antonio Conte che bisogna già e di nuovo occuparsi in questo finale di un campionato che non è mai cominciato. Ha vinto lui, anche quando non c’era, figurarsi adesso. Gli manca un solo punto, ma questo non lo placa né lo galvanizza, gli fa semmai presagire il vuoto. E dopo, pover’uomo? Di qui il suo inesausto appello, alla ferocia, allo scatenamento, alla ripercussione dei suoi toni da parte dei giocatori. E quella frase che è un programma di vita: «Io li martello fino alla fine».
Conte, in realtà, non martella: È un martello.
Si fa strumento delle sue stesse convinzioni. Non propugna la furia, la incarna. Non dice, ripete. Allo sfinimento, finché perfino il piede di Chiellini non cede e, piegato, esegue. Il primo a cogliere la simbiosi tra l’allenatore e l’arnese del fabbro fu Gianluca Vialli. Disse: «Conte ha idee chiare, non complicatissime ma chiare. Soprattutto, è un martello. E la combinazione tra l’essere un martello e avere le idee chiare risulta di solito vincente ». Alla Juventus, sempre: due anni su due. Conte non è un supereroe, non è il dio Thor con il martello magico. È, davvero, un artigiano delle Puglie che sacramenta nella sua bottega. E forgia. Passati tra l’incudine e Martello Conte giocatori anche non straordinari hanno dato il meglio di sé: i centrali Bonucci e Barzagli, almeno in Italia, sono diventati due colonne d’Ercole; Marchisio, quello in cui si identifica, un tuttofare di lusso; Vidal, un risolutore; Vucinic, Vucinic: ma è già un risultato che non si sia dimenticato di sé e delle proprie possibilità.
Come ogni martello, Conte ha un chiodo fisso: vincere. L’alternativa, lo ha detto spesso, è per lui morire. Ha vinto quando, l’anno scorso, non era favorito. Ha vinto quest’anno, quando il trionfo era così scontato da diventare a rischio. Nella passata stagione non aveva la squadra più forte in partenza, in questa sì. Nel suo atteggiamento non è cambiato nulla. Lo ha motivato una insaziabile fame. Un anno fa: del primo successo. Quest’anno: di rivincita. Il Conte nella bolla, quello squalificato, imbavagliato, era un martello sequestrato all’ingresso di uno stadio e trattenuto dalle forze di sicurezza. Giaceva tra taglierini e mazze, pativa l’onta e aspettava. Ha dovuto subire, Conte, anche la diceria secondo cui la Juve rendeva di più senza di lui. Bruciante in avvio, certo, ma perché in settimana lui le piantava dentro quella rabbia che era la sua. Qualche volta, perfino domenica nel derby, la guardi giocare e sembra il Toro. Quello che ogni tanto si ricorda di esserlo, con tutta la sua mitologia di sventure da vendicare. Così è la Juve di Martello Conte: ha vinto più di tutte, ma le manca sempre qualcosa, una stella, un riconoscimento, un’assoluzione che non sia autoconcessa. E lui lo ricorda ai giocatori, dal lunedì alla domenica, festività infrasettimanali incluse. Perché non è vero, come disse, che: «Siamo coperti di vaselina, ci scivola tutto addosso». Anzi. Conte ha l’aria di uno che si sente marchiato, che non è ancora stato creduto fino in fondo, come allenatore e come uomo. Che deve dimostrarti non qualcosa, ma praticamente tutto. Ha tatuati su di sé i sospetti, le battute facili sull’apparenza e la sostanza, il discredito. Medita e attua rivalsa. Aggredisce il campionato e l’uccide. Conficca nella sua bara chiodi lunghi e scuri come Pogba perché non possa più scoperchiarla e mostrare il volto di un avversario.
La cosa curiosa è che i giocatori, a parte lo svagato Vucinic, appaiono felicemente rintronati. Ogni tanto qualcuno scompare dall’appello, ma i più continuano, martellati e felici, fino alla fine, come vuole lui. La fine, quello dev’essere l’incubo di Conte. La frase esatta lo rivela: «Fino a quando non raggiungeremo l’obiettivo li martellerò fino alla fine ». «Fino a quando», «fino alla fine ». Fine, fine. L’incubo è la retta che si spezza. Mister Conte è come Mister Linea del Carosello Lagostina: avanza imprecando finché non si trova il vuoto ai piedi, quello spicchio d’estate in cui, ma perché, non si gioca, la bottega chiude per ferie, il martello resta sull’incudine, a guardarla in cagnesco. E in quell’ozio forzato sogna la capocchia di Galliani, la testa matta di Cassano. E i nuovi chiodi che Marotta gli porterà, freschi di ferramenta. Lui li martellerà, fino alla fine delle fini. In realtà non vuole essere né assolto né celebrato: come potrebbe altrimenti continuare a picchiare con tanta intensità?