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 2013  aprile 30 Martedì calendario

L’ORO DI NAPOLI

Chi a una certa età piuttosto avanzata scende dal treno a Napoli e chiede «Toledo» al tassista, inevitabilmente viene attaccato da una folla di ricordi in disordine. Il vecchio film su L’assedio dell’Alcázar visto da bimbo, i dipinti di El Greco, le lame damaschinate, il racconto
Scende giù per Toledo dell’amico Patroni Griffi... Ma l’elegante via diritta in lieve discesa prende semplicemente il nome dal viceré spagnolo Pedro de Toledo che la governò a lungo per incarico di Carlo V; e fu genitore di Eleonora di Toledo, sposa di Cosimo I de’ Medici, ritratta più volte coi figli dal Bronzino e acquirente dell’incompiuto Palazzo Pitti.
Avendo però visto a Madrid i tesori storici della Casa d’Alba, ecco un precedente illustre don Pedro de Toledo, figlio dell’imperatore di Costantinopoli, Isacco Comneno. Insignito di quel titolo dopo aver partecipato alla riconquista di Toledo ai tempi del re Alfonso VI e del Cid Campeador, poco dopo l’anno Mille. E Toledo rimase capitale della Castiglia fino alla metà del Cinquecento.
*** Adesso, a Napoli, Toledo è piena di scolaresche. Sciamano e vociano commentando le vetrine della moda di massa. Fra bonghi, fisarmoniche, giocarelli, rigatteria elettronica. Nel grandioso e solenne Palazzo Zevallos Stigliano, già sede bancaria insigne, si può entrare per le Gallerie d’Italia, tranquilli, come anche a Milano, alla Banca Commerciale in Piazza Scala, dove un tempo si accedeva prudenti, andando a trovare il grande misterico Raffaele Mattioli, in un suo immenso studio senza carte. Solo con qualche asinello abruzzese di terracotta. E dunque si potevano immaginare sale e sale attigue, piene di protocolli e scartoffie.
A Milano, per merito del Piermarini nel Settecento, e di Banca Intesa San Paolo adesso, quell’immenso isolato di vari palazzi centralissimi racchiude anche un vasto insospettabile giardino. Dipendente dal palazzo Anguissola con facciata sulla via Manzoni, e commissionato dal ramo piacentino-milanese di quella famiglia patrizia che edificò anche la Villa Pliniana sul lago di Como. Mentre la distinta pittrice Sofonisba Anguissola era di Cremona, e poteva dipin-
gere Filippo II nell’intimità a Madrid giacché nobile damigella e non in quanto artista.
Qui, in una saletta a parte, subito in primo luogo un Caravaggio fuori catalogo labellato come estremo ed ultimo: un «Martirio di Sant’Orsola» autorizzato da taluni esperti. Ma forse restaurato con qualche monotonia dei bagliori. E comunque non appare negli elenchi. Accanto, teche e bacheche con corredi funebri in catalogo, restaurati per queste “Restituzioni”, e provenienti da vari siti antichi autentici, in diverse regioni. Ecco qua un
askosellenistico venosino con volto di Gorgone ad occhi sbarrati, e donnette con manti decorosi, e cavalli emergenti. Una testa di Medusa Alata del Canova, singolare perché metallica. E più sotto, una eccellente
Stele Borgia marmorea, con un atleta che tira avanti, benché anzianotto. Per il resto, bisogna andare a Capodimonte. *** Qui, a parte le soddisfazioni dei Tiziano e Parmigianino e Hackert abituali e memorabili, par di ricordare che il grande importante Simone Martini su fondo- oro — san Ludovico di Tolosa che incorona Roberto d’Angiò con gesto di ripulsa tipo «amaro calice» — si trovasse una volta in una cappella vetrata apposita. Con luce naturale, ma con depositi fangosi mai lavati sui vetri dei soffitti.
Ora invece l’insigne dipinto si trova felicemente illuminato dai faretti in un suo salotto interamente scuro. E a fianco, in nome delle Restituzioni, ecco un Trittico britannico del Quattrocento, con le diverse Storie della Passione illustrate in molte figurine d’alabastro. Un alabastro espressivo, giacché efficacemente pitturato. Quanta vivacità mimica e ironica fra gli am-
micchi e addirittura le sopracciglia e le barbette di Gesù e dei vari armigeri che tra varie smorfie lo portano al Calvario coi due ladroni slogati e vari angeli che non riescono a entrare in spazi così affollati e ridotti, benché vi si intrufolino anche santini piccini e minori. Approfittando delle pieghe dei manti. O delle curve nelle cornici.
Ecco, sarebbe forse il caso di paragonare questo pigia-pigia all’incauto Sansone e Dalila all’Opera di Roma, ove lei è una sofisticata Filistea con leggiadre e decadenti squisitezze da mezzosoprano, mentre lui è un rozzo mutandero scalzo in calzoncini impresentabili, il look di un busto addominale ostentato e pallido, nonché un vivo rimpianto per Corelli e del Monaco non appena apre bocca nel canto tenorile. I famosi capelli non risultano poi ricciolini ebraici ortodossi, né codoni da addetti alla nettezza urbana, bensì metri su metri di trecce disordinate, poco pulite. E se le deve reggere con un braccio, ripiegate. Ma come si fa a combattere, coi gesti di chi si porta dietro un ombrello o un trolley?
Eppure Saint-Saëns, nel concerto L’Egyptien, come sapeva rendere il gesto ieratico del barcaiolo nubiano che si scioglie il manto bianco sul Nilo ad Assuan. Qui le memorie si avviluppano. Ah, quel Giudizio Universale con Gigli e la Pederzini e la Pobbe, diretto dall’autore monsignor Perosi come l’anticipazione di una Festa Romana alla Respighi...
*** Giù nei saloni sotterranei, per queste Restituzioni si affollano i reliquiari e le miniature, le vere croci e gli occhi al cielo, Campi, Costa, Dossi, Gaudenzio, terrecotte, Bessarione, coralli, fili d’oro... Innumerevoli San Sebastiani più o meno polposi, infinite varianti sulla Natività, Madonne issate in posa sui troni e vasi marmorei all’aria aperta, senza badare ai numerosi martiri adiacenti. Finalmente un San Giuseppe con un devoto tutto suo. Ricami, vetrate, inginocchiatoi, filigrane, cristalli di rocca, busti di santi e pensatori, magnifici disegni del Piazzetta con prelati, Addolorate, nudi virili variamente distesi e ritorti. Appena arrivando, un sarcofago di mummia. E un capolavoro del Riminaldi, molto caravaggesco, e anche elegantissimo: una decollazione di Santa Cecilia, con carnefice nudo e angelo già lì pronto con la palma del martirio non impedito. Tutto bellissimo.
Poco più sopra, lì nell’ammezzato sull’ultimo cortile, sale e salette savoiarde e borghesi, per abitazioni reali e informali.
Mobili e mobiletti, bronzi e bronzetti, numerosi candelieri e sedili, un’arpa. Paesaggi romantici, alpeggi, Vesuvi, cappellini, pittoreschi sciuscià con pipetta, gran cucine rustiche piene di padelle e mestoli su pianciti traballanti. Una pittura tipo «Mira o Norma ai tuoi ginocchi» o sotto-Boldini o sotto-Burne-Jones.
Viene così in mente la collezione «da Canova a Boccioni» della Fondazione Cariplo a Milano: con Hayez e Segantini e Induno e Inganni e Previati e Sartorio. Fra vedute dei Navigli e interni del Duomo, i due Foscari e la danza delle Ore, i laghi e le cime e il rococò borghese, fino ai macchiaioli, ai simbolisti, ai divisionisti... Ma prima di lasciare Capodimonte, qualche dipinto molto minore sa risvegliare memorie minime. Una «Tavola di Cebete» ci ricorda che davanti a un colossale dipinto analogo ci si domandava appunto cosa rappresentassero tutti quegli episodi. Passando e danzando, un conoscitore fornì il titolo giusto. E dopo il ballo, nella notte, si intrecciavano le telefonate spiritose. «So’ Cebète! E nun me conosci? ». Davanti a un «Ratto delle Sabine» si ricorda piuttosto lo sketch della Sabina brutta e trascurata che nella zuffa tra Romani e Sabini chiede se e quando incomincia il Ratto. *** Qui, a Napoli, tuttavia, sarà immancabile il busto-reliquiario di san Gennaro, impressionante in tutto il suo argento con monili preziosi. E il soffitto della sua cappella in Duomo, affrescato da Giovanni Lanfranco nel Seicento, con un Paradiso affollatissimo. Fuori, le movimentate dimostrazioni contro le zone pedonali senza servizi pubblici. Sui cataloghi, il finora ignoto termine di «stauroteca», ossia contenitore di pezzettini della Croce. In giro, gran diffusione dei termini dovuti a Raffaele La Capria: non solo «la bella giornata» (che esisteva già nelle melodie locali sui giorni sereni dopo la tempesta), ma proprio «ferita a morte», riferendosi a questa città stessa.