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 2013  aprile 30 Martedì calendario

L’EMIRO CHE COMPRA IL MONDO

DOHA – La gondola scivola silenziosa sul canale scavato nel pavimento del grande centro commerciale. Donne in nero dalla testa ai piedi affollano le banchine su cui si affacciano le vetrine incastrate tra i palazzi, i ponti e i campielli di una finta Venezia sovrastata da un finto cielo primaverile. Il gondoliere filippino armeggia con il remo senza tradire fatica. In realtà a muovere l’imbarcazione sulle acque verdine da cui si sprigiona una confortevole frescura è un motorino elettrico, naturalmente “ad emissioni zero”. Benvenuti in Qatar, la fabbrica dell’impossibile reso fattibile dal denaro, la caverna del tesoro nascosta in un deserto ferocemente ostile, ma inaspettatamente generoso, perché adagiato sul terzo più grande giacimento petrolifero del mondo.
Trent’anni fa il Qatar era una terra desolata, abitata da poveri pescatori di perle e contadini disperati ma orgogliosi, combattivi, perennemente in lotta con i loro vicini, domati dagli eserciti d’imperi lontani.
Oggi, il piccolo emirato (meno di due milioni di abitanti, il 20 per cento nativi, il resto immigrati) è un “new comer”, un nuovo arrivato nel salotto mondiale della ricchezza, che non fa nulla per nascondere la potenza economica acquisita grazie ai doni del sottosuolo. Anzi, proprio mentre il vecchio, impoverito Occidente si dibatte tra lacrime e sangue, le scorrerie del Qatar sui mercati, l’incessante e vorticoso shopping di aziende, immobili, società, pacchetti azionari, che furono a lungo custoditi come intoccabili gioielli di famiglia, non vengono soltanto salutati con invidia verso chi non sembra risentire della crisi devastante, ma sono spesso invocati come generosi interventi di “soccorso” delle disastrate economie europee.
«Vede — mi dice Arthur Ulkenberg un economista che collabora con la Qatari Foundation, l’istituzione della corona che si occupa della Cultura e dell’Educazione dei giovani qatarini dall’asilo all’università, spesso in concerto con i migliori college americani — quasi tutti i paesi del Golfo hanno conosciuto un boom economico
seguito ad una fase di stasi improvvisa se non di recessione. Dubai ha vissuto un decennio di follie confidando troppo sulla bolla edilizia che, infatti, è immancabilmente esplosa. Il Bahrein ha creduto di poter affidare il suo futuro ai servizi finanziari, senza un vero retroterra di risorse. L’Oman ha faticato molto prima di capire che il turismo era la sua vera ricchezza. Il Qatar non ha avuto questi alti e bassi, perché la sua è stata ed è un’esplosione controllata».
I dati di questa crescita incessante si possono riassumere in poche cifre. Se nel 1995 il prodotto interno lordo era di 8 miliardi di dollari, nel 2012 ha raggiunto 73 miliardi di dollari. E se i profitti (qui si preferisce parlare di surplus) generati dagli idrocarburi erano, nel 2011, pari a 60 miliardi di dollari, nel 2012 hanno superato 100 miliardi di dollari. Danaro, danaro, danaro a non finire.
I segni di questa vera e propria corsa all’oro sono ampiamente visibili. Doha è tutta un cantiere.
L’espansione urbana scavalca i limiti della natura. Un’isola artificiale di 400 ettari battezzata, ovviamente, “la Perla”, con le sue migliaia di appartamenti, di ville, d’imbarcazioni allineate nel porto turistico, è diventata la meta residenziale preferita per i manager, i tecnici e gli operatori economici stranieri accorsi o in procinto di accorre in questo nuovo Eldorado arabo. Un lungo mare di molti chilometri è stato disegnato e strappato alle acque.
Anche l’elegante Museo di arte islamica, realizzato da I. M. Pei, l’architetto di origine cinese che ha firmato la piramide (e l’intera ristrutturazione) del Louvre, sorge in una sorta di splendida, ispirata solitudine su un isolotto artificiale collegato da un ponte alla terra ferma, per evitare che le sue linee geometriche essenziali venissero alterate dalla prossimità con altri edifici.
Ma il vero monumento al potere effettivo e immutabile del danaro è la city che sorge in una laguna chiamata “West Bay”. La scenografia, visibile da ogni angolo della Cornice, offerta da torri e grattacieli di ogni foggia e stile (sono adesso una cinquantina, ma arriveranno a 200) che di giorno si specchiano sul mare come una selva oscura e, di notte, risplendono di luci colorate, richiama la celebre immagine di Manhattan vista da lontano, seppure con quel tanto di forzato, di scontato e di provinciale che hanno le repliche studiate a tavolino.
Ricchezza vuol dire, ovviamente, consumi esasperati elevati allo status di simboli. Le Rolls Royce personalizzate, dai colori improbabili, nuova passione dell’alta borghesia sfilano sui viali del diplomatic district.
La flotta da diporto che solca le acque del Golfo è capitanata dallo yatch lungo 135 metri del primo ministro
e secondo cugino dell’emiro, Sheik Hamad Bin Jassim Bin Jabr Al Thani. Si tratta, dicono i conoscitori, della quinta imbarcazione privata del mondo, per dimensioni. Sui cieli del pianeta sfrecciano gli aerei della famiglia reale, 15 grandi velivoli muniti di ogni comfort, pilotati da un “corpo” di cinquanta comandanti. E pare che per ogni nuovo aereo si impieghi più tempo a elaborarne gli interni, secondo le richieste di principi e principesse, di quanto ne occorra alla casa produttrice per costruire e
consegnare l’aeroplano.
Eppure, non si può dire che tutto questo sia al servizio di una dittatura personale. Il Qatar è una monarchia assoluta, ma la filosofia adottata dall’emiro, Hamad Bin Khalifa Al Thani, si basa sulla capacità di convincere (soft power) ostentando un sorriso accattivante sotto i baffi a manubrio, che il potere e il danaro non necessariamente debbano essere al servizio di cause sbagliate. Da qui la sua convinta adesione alle cause della Primavera araba, in Libia e in Siria, contro i regimi del passato.
Dicevamo delle “emissioni zero” imposte alle gondole che navigano nel mall. Questa è una delle cose di cui si parla di più. Anche i 12 stadi che dovranno essere allestiti (nove da costruire di sana piana, tre da ristrutturare) per i mondiali del 2022 dovranno essere ad “emissioni zero”, come la metropolitana leggera che servirà a collegare gli impianti e che da sola costerà 25 miliardi di dollari.
Perché è vero che il Qatar è uno dei più grandi produttori di petrolio e di gas al mondo, ma si da merito di essere all’avanguardia nello studio delle energie alternative. Almeno in teoria, tutto qui deve essere “ecologico”, “compatibile”, “a misura d’uomo”. Così come lo sviluppo deve essere orientato dalla “knowledge economy”, l’economia della conoscenza, altra invenzione americana, basata sulla comunicazione delle esperienze, del know how, piuttosto che su aridi schemi.
C’è tuttavia un limite nella vorticosa ascesa del Qatar, un limite rappresentato dalle sue dimensioni specie se confrontate con le sue grandi ambizioni. Una popolazione autoctona di 300 mila abitanti o giù di lì rende l’emirato dipendente dalla forza lavoro rappresentata, a tutti i livelli — dai dirigenti d’azienda, ai tecnici specializzati, agli operai — dagli stranieri. Si prende ad esempio l’avventura dei mondiali, inseriti in un progetto di crescita e di trasformazione delle infrastrutture che porterà il Qatar ad investire 150 miliardi di dollari (incluso il settore energetico) nei prossimi sei anni.
Opportunità per tutti, è vero, anche per le aziende italiane (attualmente una trentina impegnate nel paese, domani forse di più) per aprire la strada alle quali, Palma Libotte una giovane ex imprenditrice ha creato l’Italian business council, un’azienda di servizi che, in collaborazione con l’ambasciata, si ripromette di connettere i titolari qatarini di licenze ed appalti (per legge il 51 per cento di ogni joint venture deve essere in mano ai locali) con i futuri soci italiani, o stranieri. Da sole, infatti, le imprese made in Qatar non ce la faranno mai. Anche se hanno un buon intuito per gli affari, i dirigenti non hanno esperienza e non amano mettersi alla prova.
Prendiamo ad esempio il progetto “The heart of Doha”, il cuore di Doha, lanciato dalla sceicca Mozah Bint Nasser Al Missned, seconda moglie e favorita dell’emiro, considerata il terzo apice della triade del potere supremo, assieme al marito e al primo ministro. Il progetto, che punta a ricostruire e riqualificare il vecchio suq per la modica spesa di 5 miliari e mezzo di dollari, è già in una fase molto avanzata. Fra l’altro “Il cuore di Doha” ha già visto la nascita di sei boutique hotel (saranno alla fine 8 o 9) veri gioielli del buon gusto e dell’accoglienza. Personale tutto straniero. Ed è Michele Mingozzi, uno chef italiano che ha lavorato anche con Heinz Beck a organizzare e dirigere tutta la catena della ristorazione. Dal pane al dolce, tutto fatto in casa, per la gioia di signore velate con il tacco 12 e gentiluomini in kefiah bianca e orologio full gold al polso che la sera affollano i tavoli. Ma questo è turismo d’élite. Figuriamoci cosa succederà per i mondiali quando dovranno spuntare dal nulla 40 mila nuovi posti letto (20 mila ne esistono già) per raggiungere i 60 mila richiesti dalla Fifa.