Giampaolo Cadalanu, la Repubblica 30/4/2013, 30 aprile 2013
L’INVIATO DELLA “STAMPA” SPARITO IN SIRIA DA 20 GIORNI
C’ERA un passeggero molto particolare quella notte del marzo 2011, all’imbarco degli scafisti di Zarzis. Fra i migranti tunisini in cerca di un futuro accettabile c’era un giornalista italiano di prima fila, affermato più che a sufficienza per poter scegliere, e magari snobbare, i servizi a rischio, ma appassionato del mestiere tanto da voler rischiare.
CERTO, il mio amico Domenico Quirico si distingueva nettamente dai disperati del Maghreb. E no, non era per il giubbotto salvagente: non l’aveva voluto indossare. E nemmeno per il telefono satellitare, che non aveva voluto portare con sé. A distinguere l’inviato della
Stampa era la cravatta: Domenico è sempre lui, si era presentato ai trafficanti di uomini con giacca, cravatta e valigetta, aveva pagato, aveva aspettato la notte senza luna, aveva preso la via di Lampedusa sul Mediterraneo infido. Perché, solo sedendosi sulle assi scheggiate delle carrette di mare, si poteva raccontare “davvero” che cosa vuol dire rischiare la vita tra le onde, sognando l’Italia.
Domenico Quirico è un signore d’altri tempi, capace di raccontare la storia del naufragio senza protagonismi. Sì, perché la sua stramaledetta carretta del mare è affondata, e lui deve la vita alla Guardia costiera e alla buona sorte. E alla fine, era toccato a lui lasciare la barca per ultimo, al posto del contrabbandiere di esseri umani, perché era pur sempre un italiano. Dopo tutto, toccava a lui tradurre le parole dei militari nostrani ai compagni di sventura, perché non si buttassero in mare all’ultimo momento. Certo, la valigetta con il computer era finita ai pesci, la giacca e la camicia erano fradice. Qualcuno, a Lampedusa, gli aveva dato una vecchia maglietta a maniche corte. E lui ci scherzava, lamentandosi con la sua irresistibile “erre moscia” dell’unico vero problema della traversata: «Ma guarda un poco questo barista di Lampedusa, mi ha preso per un tunisino e non mi ha voluto dare una tazza di tè».
L’incubo dei flutti non l’aveva spaventato minimamente. Pochi mesi dopo, quando i ribelli libici e la Nato avevano assestato le spallate decisive al regime di Gheddafi, non si voleva perdere la festa a nessun costo. Era arrivato a Tripoli poche ore prima di me, ed era finito nella strada sbagliata, con l’autista sbagliato. I gheddafiani l’avevano catturato assieme a due colleghi del Corriere e all’inviato di Avvenire.
Con lui se l’erano presa in maniera particolare, perché incautamente portava una maglietta del Paris Saint Germain. Dunque doveva essere una spia francese, o in ogni caso qualcuno che meritava un po’ di botte.
In quell’occasione, a levare d’impaccio Domenico e gli altri tre, era stata una coppia di “angeli”, due giovani libici di famiglia influente, che avevano convinto
i miliziani a non infierire sui giornalisti. Avventura finita? Macché. A quel punto, bisognava tornare a casa. Ma la Farnesina non poteva fare miracoli, con un consolato appena aperto a Bengasi e nessuna presenza nell’ambasciata di Tripoli, ancora devastata dai fedelissimi del raìs. L’unica via per lasciare la Libia era a bordo di un piccolo peschereccio, diretto a Malta.
Ma Domenico non voleva partire, non ancora. «Ho qualcosa da fare qui, prima», ripeteva a costo
di far arrabbiare i diplomatici dall’altra parte del telefono. Qualcosa che per una persona come Domenico Quirico, contava molto. Voleva a tutti i costi fare le condoglianze alla famiglia dell’autista, ucciso a freddo con una scarica di kalashnikov dai gheddafiani, perché era di Zintan, una delle città simbolo della rivolta.
E poi il Mali, da cui aveva raccontato splendidamente la rivolta jihadista, grazie ai preziosi contatti frutto dell’esperienza come corrispondente a Parigi. E adesso per l’ennesima volta in prima linea, per raccontare la Siria, quella vista con i propri occhi. Probabilmente senza rinunciare alla cravatta, sicuramente senza rinunciare a essere un testimone
in prima persona.